Geminello Alvi

economista italiano (1955-)

Geminello Alvi (1955 – vivente), scrittore, giornalista ed economista italiano.

Citazioni di Geminello Alvi

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  • [...] è indegno questo non darsi mai limiti, mettersi ogni volta al di sopra delle parti, quando ben pochi lo sono, e sono poi quelli che tacciono. Il male dell'Italia ormai è tale da aver pervaso quasi tutto, e solo il tagliare spese allo Stato, e possibilità di favori alla politica, può risolverlo. Non certo una «tv dei ragazzi», viziata, non adatta agli affari adulti. (da Il Giornale, 21 gennaio 2008)
  • L'anima umana è davvero strana, e a mutarla d'umore meglio dei fatti sono le sorprese. (da Il Giornale, 24 dicembre 2007)
  • [Su Fabio Cusin] La sua idea d'Italia non resse all'Italia vera e a quella amarezza, insoddisfazione di sé e per sé, ma pure sdegno morale, che il vivere in essa implicava. Le miserie dell'accademie universitarie, e disgrazie familiari, lo schifo per il fascismo e il marxismo, lo guidarono al realismo senza speranza di Pareto e Mosca. L'otto settembre e le miserie del dopoguerra, gli confermarono di aver avuto ragione. [...] Libro questo suo [Antistoria d'Italia] fuori corso, da tutti dimenticato, eppure formidabile soprattutto nei capitoli primi, per spregiudicatezza, mai doma. (da L'idealista Fabio Cusin e l'amore-odio per l'Italia, la Repubblica, rubrica Libri fuori corso, 4 settembre 1998, p. 38)

Eccentrici

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  • Il cranio di Ferdinand von Zeppelin era bombato, con calvizie bionda e triangolare mascella, gli occhi gioviali ma temerari, fissi sulle nuvole, che rimirava dal prato attorno al suo castello. Le amene rive del lago di Costanza abbondano di fiori. E in che contrasto con le policromie dei petali scorrevano le forme immense del cielo, mansuete sopra il conte, cinquantaduenne generale del Württemberg già in quel 1890 a riposo. Tedesco in rigida postura, eppure socievole anzi complice del dilatarsi di quei cumuli strapotenti in cirri. Stava, invero, calcolando come li avrebbe tutti avvolti in teloni di stoffa per farsene portare. (da Ferdinand von Zeppelin, navigatore, p. 13)
  • [Su Ferdinand von Zeppelin] Nella guerra del 1870 guidò comunque la carica degli ulani. Ma nel 1898, per dissidi con l'alto comando, fu esonerato dal suo incarico. E si deliziò piuttosto a pensare che la sua aeronave dirigibile rigida sarebbe stata ben strana immensa nave. L'armatura d'alluminio vestita di stoffa avrebbe mantenuto i pallonetti di gas elio in forma più leggera dell'aria; il timone sarebbe bastato a manovrarla come nell'acqua. Bastava atterrare e decollare controvento, alla maniera già comprovata da arditi aeronauti francesi. Il conte von Zeppelin reclutò perciò il grande ingegnere Kober, e nel 1892 l'incaricò di coordinare la sua équipe. (da Ferdinand von Zeppelin, navigatore, pp. 14-15)
  • Il dirigibile si sollevò male fuori dalla rimessa, cadde e tirato dalle correnti fu recuperato a fatica. Nel gennaio 1906 un altro tentativo e la rinnovata catastrofe: gonfiata troppo, l'aeronave salì rapida ma venne rovesciata dal vento per via della rottura del motore. L'atterraggio di fortuna riuscì, però un uragano completò la distruzione. Il conte ordinò che fosse fatta a pezzi e pareva finita; invece una seconda lotteria di 500 mila marchi in Prussia permise che LZ3 fosse pronto in autunno. Così il 9 ottobre 1906 per cento chilometri in due ore con velocità di almeno 12 metri al secondo l'argentea nube veleggiò in maestosa calma, reggendo la gondola con dentro il conte Zeppelin e la figlia: in veletta, bella e svagata. Navigarono beati tra le funi e dietro l'elica di noce, splendida, che invertiva il senso di rotazione a comando. (da Ferdinand von Zeppelin, navigatore, pp. 15-16)
  • Fiero nel suo torace, nudo e rosaceo, di centimetri centoventotto reso ancora più immenso dai braccioni brevilinei, dal culo basso, dagli stinchi ornati sotto il ginocchio dai reggicalze: così Giovanni Raicevich, che era alto solo metri uno e settantadue, s'atteggiava in attesa del lampo fumante d'un fotografo al Teatro Dal Verme di Milano in quel 1909. La rasatura dei capelli, da galeotto, gli peggiorava la brevità d'una fronte già non alta. Eppure i suoi occhi miti tradivano quell'inclinazione al cruccio e a turbarsi, di cui pugilisti e lottatori facilmente soffrono. (da Giovanni Raicevich, lottatore, p. 42)
  • [Su Giovanni Raicevich] Fu nel 1915 volontario in guerra e perciò condannato a morte dall'Imperatore Cecco Beppe. Dopo la guerra recitò anche da Tarzan, dissipando nel cinema quanto aveva accumulato in epiche lotte. Fu attore, finanziatore di film in cui si dava la parte di punire i malvagi esibendosi in supreme prove di forza. Uomo fortissimo e buono, visse placido e assorto con modestissima pensione, ma sempre pronto all'aiuto di chicchessia. Morì a Roma nel 1957. E solo i più vecchi rammentarono che per suo merito la «Gazzetta dello Sport» aveva superato le centomila copie, e che per tutti egli era stato una volta: l'uomo più forte del mondo. (da Giovanni Raicevich, lottatore, pp. 45-46)
  • [Su Jules Védrines] I giornali rimemorarono le sue imprese e pubblicarono l'incredibile foto di tre mesi prima: sullo sfondo di cinque o sei fasciati in eleganti cappotti che guardavano da una ringhiera il cielo plumbeo, c'erano i tetti di Parigi, e un aereo traballante, quello di Védrines, ripreso dal fotografo mentre stava per atterrare sopra l'ultimo piano delle Galeries Lafayette. (da Jules Védrines, temerario, p. 48)
  • Caddero come birilli a terra, tutti uno dopo l'altro: l'aereo si schiantò su un tetto adiacente, ma Védrines come un gatto era intanto saltato fuori, sulla terrazza, in salvo. Il gesto e la meraviglia amplificata dai giornali lo eccitarono a spacconate ancora più temerarie. Promise che gli sarebbe riuscito di volare da Parigi a Roma in due giorni. E ci sarebbe riuscito, se quella sera del 21 aprile 1919 il suo aeroplano non avesse perso un'ala, staccandogli l'anima linguacciuta dal corpo. (da Jules Védrines, temerario, p. 50)
  • Le foto ritraggono l'intrepido pioniere in canotta del volo librato: Otto Lilienthal meticoloso e assai candido. Identico allora nell'anima a quando da bambino spiava meravigliato in Pomerania il volo planato dei gabbiani o quello ampio delle cicogne, costruiva rozze ali di legno e correva in discesa col fratellino, nelle notti di luna perché nessuno vedesse e li deridesse. A tredici anni erano già orfani. Tuttavia calmo Otto si laureò in ingegneria meccanica. Sperimentò con scientifico furore un velivolo fatto di palissandro e piume d'oca, che aveva ali mobili a valvole, e l'altro mirabile con sei ali in tandem, che si sbattevano a gruppi di due in moto alternato. Ma delle due macchine nessuna volava. (da Otto Lilienthal, pioniere del volo, p. 60)
  • [Su Otto Lilienthal] Tornato in Pomerania gli venne l'idea di usare delle ali battenti mosse da una molla a spirale. Lanciò il prototipo da un quarto piano. Ma il suo secondo modello con penne di piccione volò per sette metri. S'insultò. Tormentandosi arrivò alla conclusione che forse un motore a serpentina l'avrebbe aiutato. Sostituì la caldaia con tubo d'ottone a spirale, per renderla più leggera. Ma il tutto scoppiò in nuvolaglia di piume bruciate maleodoranti. Comunque brevettava, mesi dopo, un motore a scoppio tutto suo; impiantava una fabbrica, diveniva bastevolmente ricco. (da Otto Lilienthal, pioniere del volo, pp. 60-61)
  • Gerbi aveva fronte bassa e di quelle teste brachicefale, quadre, che fanno riconoscere certi settentrionali indubitabili parentele craniologiche coi tedeschi. I suoi capelli erano però castano scuro, rasati, da galeotto, poco sopra gli occhi piccoli, sempre pronti al corruccio, senza sopracciglia. Gerbi stava quel giorno per cimentarsi in un allenamento prezzolato, che il padrone del chiosco d'angurie lì accanto, tale Granida, aveva organizzato, per una modica tassa d'iscrizione che si sarebbe poi spartita con lui. (da Giovanni Gerbi, ciclista, p. 89)
  • [Su Giovanni Gerbi] È pur vero che fu primo nel Giro della Lombardia di quell'anno. Ma al casello di Busseto s'accordò col casellante perché chiudesse il passaggio a livello dietro di lui; e al medesimo casello i suoi tifosi trattennero i francesi Garrigou e Petit Breton; e il gregario Chiodi che aveva prezzolato per esserne allenato, durante la corsa per eccesso di zelo cadde addosso ai sopraddetti francesi; e Chiodi stesso poi, scontento per quanto poco Gerbi l'avesse pagato, confessò l'inghippo e il suo zelo prezzolato. Ma soprattutto nel finale del Giro, subito dopo Monza, fu trovata una benda di cuoio con dentro infissi dei chiodi in serie; accanto c'erano due paracarri. Fu la prova incontrovertibile che costrinse alla squalifica del collerico brachicefalo Gerbi. (da Giovanni Gerbi, ciclista, pp. 91-92)
  • Io Edward FitzGerald nacqui nel 1809 settimo di una famiglia di otto figli dei quali solo tre maschi, ma incline ognuno a scegliersi una tutta sua monomania. L'inclinazione alla stravaganza, forse alla pazzia, credo dipese dal fatto che mio padre trascurando le eugenetica maritò una sua cugina di primo grado. O era già malato il sangue di quel normanno a cui la prepotenza e il coraggio ottennero il ducato di Kildare? (da Edward FitzGerald, traduttore, p. 97)
  • Per il resto, se mai qualcuno scriverà la mia vita, desidererei che iniziasse dicendo così: FitzGerald amò il mare. Badai alla mia barca, Scandal, come e più che a un figlio. Nessun donna mai mi dondolò, e mi permise di parlare a vuoto e bere sherry, come lei. (da Edward FitzGerald, traduttore, p. 99)
  • Blériot aveva traversato il Canale d'Inghilterra con una calma aumentata dal salvagente sotto la camicia, dal cielo turchino e dai gabbiani in disinteressato volo circolare. Il testardo Chavez, invece, traversò in volo per primo le Alpi, fidando nel suo ostinato ardire, ma stordito dalla frivola eccitazione degli italiani, infidi quanto più sono ingenui. Fu infatti per colpa di quegli striduli pensieri che infiammano provvisoriamente i cervelli e le sere estive, che vennero istituiti gara e premio per chi avesse tra il 18 e il 24 settembre del 1910 volato lungo il percorso Briga-Sempione-Domodossola-Milano. Alla chiusura delle iscrizioni risultarono in lista nove piloti; ma durante i voli di prova circa la metà di essi dovette ritirarsi a causa di incidenti vari. (da Géo Chavez, trasvolatore, p. 137
  • Videro il monoplano lento avvicinarsi con regolare volo al prato per atterrare; cento, cinquanta, quindici metri. Già era scoppiato l'applauso, quando l'aereo si arrestò: le sue ali si richiusero a libro. Il monoplano Blériot XI a cinquanta cavalli cadde con un rumore d'aquilone rotto tra le ferraglie. Il povero Chavez fu estratto dai rottami ancora vivo e a prima vista senza ferite, e addirittura nulla di rotto. Fu portato all'ospedale di Domodossola. Morì quattro giorni dopo, forse di stupore. (da Géo Chavez, trasvolatore, p. 140)
  • Ero nato Doroteo Arango il 5 giugno 1878, ma divenni generale della División del Norte, e cavalcai Sette Leghe, cavalla nera come l'inferno, ma bella più di un angelo. Con lei mi confusi alle migliaia che ci cavalcavano accanto, mentre i dorados cantavano:«Yo soy soldado de Pancho Villa, de sus dorados soy el más fiel, nada me importa perder la vida, si es cosa de hombres morir por él». La cavalla me la diede Amalia, vedova vorace d'un soldato, da me quietata non in denaro. Ma per gli effettivi c'erano invece le paghe. A ognuno provvidi con buonsenso. Ma se in battaglia erano vili c'era il Banda. Manuel non li feriva e non questionava; li uccideva. Un colpo alla nuca, al minimo indugio. (da Pancho Villa, generale poligamo, p. 141)
  • Mai tenni a divenire presidente del Messico. Feci ecatombi di civili, e non per il nervoso. Perché non volevano essere coscritti. E il 9 marzo del 1916 con seicento cavalieri invasi gli Stati Uniti. Al grido di «Viva Mexico», attaccammo Columbus, devastai almeno mezza città, pochi gli americani morti, solamente diciotto. Eppure loro subito armarono centocinquantamila uomini, li diedero al generale Pershing, uccisore di indiani Apache e spagnoli a Cuba. Era stato mio grande amico ma non mi prese. Nel 1920 ero amnistiato e ricco hacendado di successo. Sette Leghe morì. E da allora viaggio volentieri in automobile, senile. (da Pancho Villa, generale poligamo, p. 143)

Una repubblica fondata sulle rendite

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Nel 2003 ai lavoratori toccava il 48,9% del reddito; nel 1972 era il 59,2%. La quota dei redditi da lavoro dipendente è regredita, ora è circa la stessa del 1951, dell'Italia prima del boom. Il che vuol dire, esagerando in furia del dettaglio, non troppo distante da quel 46,6% che era la povera quota del 1881. Siamo regrediti, e intanto però mi arresterei dal dire altro.

Citazioni

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  • Gli anni settanta sono stati quelli della rivolta malfatta, da cui lì per lì certamente sortì una quota maggiore del reddito trasferita ai salari. Ma germinando idee insane, per le quali attecchirono ciascuno dei guai e soprattutto le rendite di cui oggi tanto ci lamentiamo. (p. 12)
  • Quanti padri più che cinquantenni in quest'Italia sono beati e nullafacenti: i volentieri intenti a girare nelle agenzie di viaggi in scarpe da tennis. Girano appesi alle buste di inutili recenti acquisti biasimando il cielo afoso e il governo, perplessi dei loro italianissimi figli, che gli resistono in casa. Con nullo, o poco bastevole stipendio, costoro gli girano intorno in abulica infanzia prolungata, mantenuti in natura o denaro oltre il dovuto. Queste famiglie propedeutiche all'ignavia, più o meno paghe a seconda delle pensioni e dei risparmi cumulati, sono il fine principale per cui lavora l'economia italiana. O meglio sarebbe dire la poca parte di essa che lavora (p. 13)
  • In quest'Italia agli adulti si concede di fingersi vecchi per andare in pensione, ma poi da pensionati di regredire a giovani. E viceversa per i giovani accade l'opposto. Quel loro sentirsi scaduti per la vita, vecchi precoci, è l'esito inevitabile dell'averli tenuti in un'adolescenza protratta rispetto al lavoro. Non lavorano, o un lavoro precario, mal pagato, ne perpetua la tutela, (p. 15)
  • Le pensioni sono, in grado diverso a seconda della generosità parentelare, la tassa maggiore sul bilancio famigliare. (p. 36)
  • Il nervoso di chi lavora potrebbe aumentare se si calcolasse il saldo tra quanto i pensionati hanno versato e quanto vanno ricevendo. (p. 37)
  • [...] studiare il fenomeno indotto dalla modernità, che rende i miti consueti di destre e sinistre definitive sciocchezze, è vitale. Dalle forze più risananti dell'Io, da come si riuscirà in futuro ad articolarle in atti produttivi e fraterni dipende tutto. (p. 43)
  • Se fatto con onesta umiltà, il perverso mestiere dell'economista accorda la memoria ai numeri, e alla più pacata ragione.
  • E in questo zoo delle anime, che già negli anni Novanta dilagava senza freni, una parola eccitò i petti strabordanti e le orride smorfie: professionalità. Questa parola conquistò allora la medesima frequenza del tormento quotidiano della borsa, dei mercati e, appunto delle privatizzazioni. E un popolo non guerriero, fino a quegli anni però almeno operoso, pure se in pausa al bar dopo il lavoro, fu guastato dalla recita quotidiana e ininterrotta delle professionali virtù mercantili. (p. 64)
  • [...] per meriti sindacali o arbitrari, che sarebbe poi lo stesso, si crearono per giunta nuove fasce dirigenti. Così chi lavorava sul serio, oltre a guadagnare meno si trovò pure intorno la schiera di incravattati promossi dirigenti senza merito. Il dislivello aumentò anche dentro le imprese. E dilagarono non solo cognomi raddoppiati, fazzoletti sbuffanti e sopracciglia pettinate dei nuovi capitalisti. Venne pure il fastidio di vedersi girare intorno, con più soldi in tasca, a comandare, il collega più stolido. (p. 65)
  • La parte della mente che gli italiani applicano per capire l'economia, ossia la circonvoluzione del cervello dove si riflettono le chiacchiere dei giornali, è tra le più malmesse. I pregiudizi vi s'avvinghiano tra pochi fatti, composti spesso di verità scadute. (p. 82)
  • La nostra è nazione di distratti in cui tutto si scorda a memoria, in leggerezza, lasciando dietro di sé un profumo di non certezza. Al quale poco si bada, ché proprio tutto in Italia partecipa di un elemento d'aria: il bene, il male e persino il rimorso, chè un pentirsi già pentito prima di dirsi.
  • L'introduzione di una nuova moneta non può avere fortuna senza politica monetaria e fiscale in un perfetto coordinamento. Degli economisti capaci del loro mestiere questo dovevano saperlo. Ma una professione di troppi marxisti indrottinari a trent'anni, evoluti a liberali finti a cinquanta, era molto intenta a fare il tifo in politica. E quanti di questi tifosi dell'euro s'erano mai studiati la riforma monetaria tedesca del 1948 o i bimetallismi della Francia ottocentesca? (p. 92-93)
  • Il grande male dell'Italia sono i difetti che rovinano lo Stato; era quello che doveva riformarsi e non la lira. (p. 99)
  • In Italia il criterio di successo di una politica economica [...] è la diminuzione del residuo della pubblica amministrazione, quindi le tasse e spese statali. Ci hanno provato con troppa timidezza. Erano del resto quasi tutti una volta democristiani, complici della fine dello Stato in Italia. (p. 111)
  • Tangentopoli ebbe due esiti politici perversi. Salvò un comunismo italiano in ridicola agonia, che aveva da rispondere dei suoi tradimenti, dei suoi omicidi e del male fatto ai cuori umili. E salvò le regioni. Esse erano un esperimento che ormai anche i suoi fautori avevano riconosciuto fallito: selva di burocrati e d'amanti inutili. (p. 112)
  • Il denaro vale più se lo si spende e magari lo si dona: questa sarebbe la regola a cui adattarsi. Tanto più con esso si crea fraternità e inoltre bellezza, meraviglia rivolta al cielo, tanto più l'economia ha senso, il lucro si purifica. (p. 118)
  • Il trito commento con cui un ricco morente si dice che tanto non si porta con lui i suoi soldi è una materialistica banalità. Ognuno di noi porta con sé i suoi atti e il loro esito. (p. 118)
  • L'economia non basta alla vita, qui o altrove. Essa dovrebbe avere per fine non gli uomini e neppure il loro benessere, ma l'epica di un sacrificio fraterno, che si rivolge al cielo. (p. 118)
  • Occorre aumentare i salari e ridare al lavoro dipendente epica e dignità fraterne. (p. 119)
  • Niente in Italia è acquisito per sempre. Neppure quel poco o tanto che basti almeno a stare per breve tempo in pace. Noi aggiustiamo, mai riuscendo a mutare davvero per un difetto di lealtà, che surroghiamo però litigando così bene, ogni volta fingendo già finito quando è appena iniziato. Nostro è il pensiero fuggente che alla volontà preferisce ogni volta il derisorio litigio. (p. 123)
  • I meccanismi di ideologie e denaro ci hanno tolto la vita, concentrazione, e molta bontà. Solo un'idea cristiana di comunità e di economia potrebbe ora risanarci. (p. 124)
  • L'Europa ci incastra meno di quanto credessimo: s'è italianizzata col ritorno dell'Est ai tedeschi. Né la sua moneta, né la sua forma politica sono fatte per durare. (p. 124-125)
  • Non c'è forza, già operante, che possa riformare la politica; figurarsi il disastro della nostra economia redistribuita. (p. 125)

Bibliografia

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  • Geminello Alvi, Eccentrici, Adelphi, Milano, 2015. ISBN 978-88-459-3022-5
  • Geminello Alvi, Una repubblica fondata sulle rendite, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 2006.

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