Paolo Isotta

critico musicale e scrittore italiano (1950-2021)

Paolo Isotta (1950 – 2021), giornalista e critico musicale italiano.

Citazioni di Paolo Isotta modifica

  • A settant'anni, Alfredo Kraus era ancora il più grande tenore vivente.[1]
  • Arturo Toscanini incise la musica di Gershwin non per stima all'autore, per disprezzo agli altri compositori, giusta moto psichico a Lui consueto.[2]
  • Buscaroli non è un "musicologo" professionista. È un vero storico, possiede quindi profondità e ampiezza di visione che all'altro manca quasi sempre; e ha una cultura generale, una conoscenza del mondo classico, una preparazione specialistica sull'arte figurativa e l'iconologia che pochi possono vantare. Eppure non lavora costruendo il "grande affresco", metodo che ti rende inevitabile il grande, talora il fatale, errore. Con pazienza rabbiosa rilegge le sterminate fonti.[3]
  • Che cosa c'è di più bello d'un'Opera che si chiude con un rogo? Il finale della Valchiria [Opera di Richard Wagner] fa scender qualche lagrima anche al centesimo ascolto.[4]
  • Chi potrà dimenticare gli ultimi anni di Herbert von Karajan, che definirei un'agonia altezzosamente organizzata? Si trascinava sul podio sorreggendosi alle pareti e quando vi giungeva trasmetteva un messaggio di luce. Pochi hanno sottolineato, oltre alla capacità di dominare il dolore fisico, l'infinita pazienza di quest'uomo nel lavoro, come se da un'imperfezione sua potesse dipendere la sorte dell'universo.[5]
  • [Su Carlo Fuortes] [...] costui dal primo momento non mi è piaciuto [...] È un egolatra che si compiace di un suo giro di direttorucci di serie Z.[6]
  • [Su Giancarlo Cobelli] Del regista ricordo non solo allestimenti nel teatro lirico, anche bellissimi di prosa. Nel primo caso c’era L’angelo di fuoco, il capolavoro teatrale di Prokof'ev insieme colle Melarance e Il Giuocatore, e lui s’immergeva in una cupissima vicenda storica di possessione diabolica come solo un puro può fare. Poi, una cosa d’ineguagliabile finezza: l’Opera, ingiustamente dimenticata, che Walter Braunfels ha cavato dagli Uccelli di Aristofane. Nella prosa mi piacquero moltissimo, fra l’altro, il Dialogue dans le marecage di Marguerite Yourcenar, un altro caso di crudeltà e ossessione che mette capo alla follia come rifugio, i Sei personaggi di Pirandello, lo sceneggiato televisivo da Zola Teresa Raquin e il Woyzeck di Büchner, uno di quei testi che ogni uomo di teatro prima o poi dovrebbe affrontare. E sempre ad altissimo livello.[7]
  • Dolores Palumbo: una straordinaria attrice di prosa che Totò faceva lavorare soprattutto nella Rivista ed è poi immortalata in un ingrato, difficillimo ruolo di Miseria e nobiltà, oltre a esser stata fra le migliori scarpettiste del Novecento: vedere 'O scarfalietto per averne un'idea.[8]
  • È ormai pacifico essere Carlo Gesualdo, il principe di Venosa, uno dei più grandi polifonisti di tutti i tempi; e contendere a Monteverdi (Marenzio, morto a soli quarantasei anni, mancò per pochi mesi l'ingresso nel nuovo secolo) la palma di più importante musicista a cavallo fra Cinque e Seicento, di massimo esponente dell'aurorale Barocco le radici del quale si sprofondano nel linguaggio, nello stile, nella stessa concezione del suono, del pieno Rinascimento.[9]
  • Fausto Gianfranceschi era una specie di fratello maggiore. [...] Aveva un posto importante in un giornale importante. Il Tempo conservava negli anni Settanta una deliziosa atmosfera anni Cinquanta. [...] Gianfranceschi era il capo della Terza Pagina, allora una grande Terza Pagina coronata dagli elzeviri di Mario Praz. [...] Gianfranceschi ci permetteva di collaborare, non si tirava mai indietro se ci fosse da parlare o da far parlare di qualcosa di nostro. Però forniva con la sua persona un aiuto morale ancor superiore. Bell'uomo, gioviale ed equilibrato, sicuro di sé, con una bella famiglia palesemente felice, rappresentava il contrario di molti reazionari tipici, la maggioranza, ormai a tal punto avvezzi alla condizione di paria che, liberati, l'avrebbero rimpianta. [...] Gianfranceschi rappresentava un lumicino di speranza, che non fosse destino assoluto l'essere reazionari e disgraziati.[10]
  • Gli artisti che pongono scoperte scientifiche loro, vere o presunte, a base della creazione, hanno sempre un che di fastidioso e dilettantesco.[11]
  • Ha insegnato Leonardo Sciascia che la Sicilia non è una. Ne esistono molteplici, forse infinite, che al continentale, forse al Siciliano stesso, si offrono e poi si nascondono in un giuoco di specchi.[12]
  • Il compositore moravo Leos Janacek fuse nella sua musica il linguaggio tardo-romantico con il canto popolare.[11]
  • Il linguaggio di Berg è avidamente, seppur occultamente, cosmopolita, e i rapporti con l' Impressionismo francese, oltre che col Verismo italiano, sono profondi: alla fine ha qualcosa di così tedesco che pensiamo a quanto lo zelo dei tedeschi censori si sia ritorto contro se stesso.[13]
  • Il più vibrante violoncello pareva freddo a paragone del raggio di luce scaturito dal suo fiato.[1]
  • [Beniamino Gigli] Il timbro è limpido e riconoscibile abbastanza perché il canto costituisca un insegnamento impareggiabile; e al tempo stesso per spandere intorno a sé la gioia, allo stato puro, di cui Gigli seppe essere il detentore.[14]
  • Il vocabolo latino «requies» col quale principia l'antifona della Missa defunctorum cattolica («Requiem aeternam dona ei Domine») ha finito col mutar di significato allo stesso modo che la coscienza religiosa s'è affievolita e la liturgia è divenuta una parodia dell'Inps. In tempi di fede l'officio dei defunti, che perciò metonimicamente si definiva «il Requiem», citandosene all' accusativo la parola mutata di genere dal femminile al neutro, era ritenuto effettualmente in grado di mondare in parte l'anima del trapassato pel quale l'officio veniva celebrato dal peso dei peccati commessi in vita e di conseguenza di alleggerirne la pena nell'al di là. Se la gran parte della gente di Chiesa abbia mai posseduto la fede, in qualsiasi epoca della Storia, è interrogativo destinato a rimanere irresoluto stante il costume di essa, sin dalla prima giovinezza, a una simulazione e una dissimulazione assolute.[5]
  • [...] l'attitudine estetica di Wagner nei confronti della musica sembra essere addirittura opposta a quella universalmente adottata nel nostro secolo. Come specifica un importante scritto intitolato Dell'applicazione della musica al dramma, per Wagner il solo criterio per giudicare la sua arte è quello espressivo. Le questioni di linguaggio non possono e non debbono passare in primo piano, subordinate come sono all'elemento espressivo, che costringe il linguaggio a modellarsi obbediente su di esso: «signore del linguaggio», come la filologia tedesca dell'Ottocento chiama Eschilo, è solo, beninteso, il creatore sommo. (da Le ali di Wieland, p. 88)
  • L'ungherese è non solo lingua isolata ma addirittura non indoeuropea né slava, sibbene della stessa famiglia del turco: e fortuna che il nazionalismo turco, adombrato da altri e più vasti crimini e problemi, non abbia ancora scoperto la «nativa musicalità» della sua lingua: fortuna, dico, per la musica e per noi suoi disgraziati storici.[15]
  • Ogni qual volta una cosa in Italia viene chiamata in inglese io vedo la mano del Cretino.[16]
  • Praz era un nome per pochi, seppure di portata planetaria e millenaria. Egli aveva subito l'ostracismo degli antifascisti che lo costrinsero all'esilio a Manchester. [...] Dopo la guerra subì l'ostracismo dei comunisti, molti dei quali erano gli antichi crociani.[17]
  • «Nemmeno Wagner – prosegue la professoressa[18] – voleva formare degli eclettici, ma in realtà degli epigoni di lui stesso.» Invero, l'orgoglio di Wagner era ben più luciferino di questo: egli si valutava il culmine e la fine della parabola, pertanto non desiderava affatto essere imitato e quasi considerava un arbitrio che altri adottassero i suoi procedimenti linguistici; fors'anche che dopo di lui si componesse ancora. I quali procedimenti linguistici, peraltro, specie in relazione all'armonia, erano per lui qualcosa di eccezionale, giustificabile solo per necessità espressive altrettanto eccezionali: le sue. Tanto classicista rimase la sua concezione estetica. Che cosa avrebbe detto vedendo nell'autopresentazione d'una piccola operaia parigina – Mi chiamano Mimì – una sorta di eco semplificata dell'accordo del Tristano? (da Le ali di Wieland, pp. 154-155)
  • Non credo in Dio ma mi affido volentieri ai santi. Sono convinto che il cristianesimo abbia distrutto la potenza e la ricchezza della cultura classica. Il merito della Chiesa cattolica è stato di rovesciare questo cristianesimo delle origini e di aver introiettato nel proprio corpo aspetti fondamentali del paganesimo, di cui i santi sono una delle espressioni più belle e riuscite.[19]
  • Quando conobbi Cobelli, ch’era anche un gran signore – a Milano quasi non ce ne sono più – e lo chiamai, come dovevo, "Maestro", lui mi guardò con quei suoi occhi stupiti: lo stupore di fronte al mondo pareva il suo sentimento dominante, essendo egli riuscito a conservare una caratteristica infantile come per miracolo. "A me? Maestro è Lei!". Mi venne dettata da San Gennaro una battuta felice: "Allora La chiamerò mon Petit Prince!", pensando al romanzo di Antoine de Saint-Exupéry, che gli adulti dovrebbero meditare più dei bambini destinatarî. S’illuminò tutto. Me lo ricordo dall’epoca del Mago Zurlì: il pomeriggio si trasmetteva "La tv dei ragazzi": lui, Nino Castelnuovo e un altro grande, Ferruccio Soleri, facevano i mimi. Quanta ironia e delicatezza![7]
  • Se Berg non fosse morto avrebbe trovato un accomodamento col Regime e non sarebbe stato il Wozzeck, derivante dai frammenti ottocenteschi di Georg Büchner, bollato in quanto «arte degenerata.[13]
  • Tedesco, Karajan aderì al partito nazionalsocialista come tutti i suoi compatrioti, anche artisti sommi. Dopo la guerra pagò duri prezzi non essendosi offerto a penose palinodie, a recite di "pentimenti", a carnevalate di "emigrazione interna" e a processi di "denazificazione". Il suo giudizio su di sé restò chiuso nella coscienza; oggi egli è al cospetto di ben altro Giudice.[20]
  • [Carlo Gesualdo] Torbido, saturnino e fantastico doveva essere l'autore di questa musica; che lo fosse desumiamo da accenni delle fonti che lo riguardano: poche e insufficienti, al nostro gusto. Gesualdo non era, infatti, musico di professione, benché nella musica avesse conseguito una dottrina da porsi al vertice dell'arte: era bensì un personaggio d'alto affare. Era l'erede, l'unico erede, di una casata principesca fra le più cospicue del Regno di Napoli: nipote di san Carlo e del decano del Sacro Collegio, era imparentato con la più gran nobiltà napoletana; gli avi avevano ricavato solo onori e ricchezze dai re Aragonesi invece di quel capestro che assai più al loro costante tradimento sarebbe spettato; il padre era grande di Spagna.[9]

Citazioni su Paolo Isotta modifica

  • È napoletano del Reame e continuatore della lingua poetica del "dolce stil novo" ottocentesco e adopera perciò parole giammai sconciate dall'inabilità dello spirito ma sempre vive di timbro e prodigio. (Pietrangelo Buttafuoco)
  • È uno specialista con in più il buon gusto del dilettante, nel senso etimologico del termine. Nelle sue critiche la musica si mischia alle lettere, cede il passo alla pittura, corre incontro alla cultura, delicatamente polemizza con la memorialistica. [...] C'è in lui un elemento "scugnizzo" che solo chi conosce la realtà di Napoli può comprendere, il combinato disposto di plebe e aristocrazia, popolino e borghesia che anima il suo centro senza barriere economiche e sociali, un intreccio unico che ne è insieme tormento e estasi. Coniugato al dandismo, l'essere scugnizzo è spesso una miscela esplosiva. (Stenio Solinas)
  • Paolo Isotta, una delle certezze più autentiche [...] della nuova critica italiana. [...] Isotta non è di quei critici che hanno un loro progetto e si battono per il suo successo, dando l'impressione di coloro che, a duemila anni dalla discesa di Cristo in terra, aspettano ancora il messia. Sa che la partita si è chiusa per sempre, e forse addirittura nel secolo scorso, e per questo c'è una felicissima consonanza tra il prefatore e l'autore di questi saggi, tanto ammirabili per chiarezza quanto sottilmente angosciati dal sentimento dell'irreparabile, dalla certezza di una universale decadenza [della musica], quella che Isotta chiama appunto «degenerazione verso l'intellettualismo». (Luigi Baldacci)

Note modifica

  1. a b Da Alfredo Kraus il tenore hidalgo, Corriere della Sera, 10 ottobre 1999, p. 35.
  2. Da Gershwin Vale Schubert, Corriere della Sera, 31 ottobre 2005, p. 27.
  3. Da Uno scrittore «bastian contrario», ma baciato dal successo, Corriere della Sera, 16 aprile 2004, p. 37.
  4. Da Storia e tragedia di una Pulzella, Corriere della Sera, 5 ottobre 2008, p. 35.
  5. a b Da Muti e Karajan, applausi vietati, Corriere della Sera, 17 agosto 2008, p. 35.
  6. Da Altri canti di Marte: udire in voce mista al dolce suono, Marsilio, Venezia, 2015, p. 126. ISBN 978-88-317-3998-6
  7. a b Da Ricordo di Giancarlo Cobelli, Il Fatto Quotidiano, Roma, 31 gennaio 2016.
  8. Da Totò, l'ultima recita di lacrime e caffè, Il Fatto Quotidiano, 4 marzo 2021, brano tratto da San Totò, Marsilio, Venezia, 2021. ISBN 978-88-297-0989-2
  9. a b Da Il principe della musica che fece uccidere la moglie, Corriere della Sera, 6 febbraio 1994, p. 21.
  10. Da Noi, ragazzi reazionari di Piazza Colonna, Corriere della Sera, 12 novembre 1996, p. 33.
  11. a b Da Janacek, il genio che copiò le voci della natura Corriere della Sera, 6 marzo 2006, p. 25.
  12. Da Addio a «Pippo» Di Stefano la voce generosa della lirica, Corriere della Sera, 4 marzo 2008, p. 51.
  13. a b Da Le Passioni del Wozzeck, Corriere della Sera, 28 ottobre 2007, p. 35.
  14. Da Protagonisti della musica, Longanesi & C., Milano, 1988, p. 140.
  15. Da Barbablù, mistero di lacrime e sangue, Corriere della Sera, 13 marzo 2008, p. 49.
  16. Da Bruciare il giorno della nascita di Vivaldi non salva dai cretini, Il Fatto Quotidiano, 4 aprile 2016; riportato su PaoloIsotta.it.
  17. Da La virtù dell'elefante, Marsilio Editori, Venezia, 2014, p. 159.
  18. Anne Marie Abert, figlia del musicologo Hermann Abert; la citazione è tratta dal saggio Verdi e Wagner. Cfr. Le ali di Wieland, p. 151.
  19. Dall'intervista di Antonio Gnoli, Paolo Isotta, la Repubblica.it, 7 gennaio 2018.
  20. Da Ingiusta l'immagine di Von Karajan nazista e avaro, Corriere della Sera, 21 marzo 1998, p. 33.

Bibliografia modifica

  • Paolo Isotta, Le ali di Wieland, Sette temi musicali, Rizzoli, Milano, 1984. ISBN 88-17-66396-4

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