Mario Appelius
Mario Appelius (1892 – 1946), giornalista e conduttore radiofonico italiano.
Asia gialla
modificaIl lavaggio della «passeggiata» mi sveglia con uno spruzzo di pulviscolo fresco nella sedia a sdraio, in cui mi sono addormentato senza volerlo stanotte, dopo aver ammirato per ore ed ore una indescrivibile notte di fosforescenza nel mar della Sonda.
Citazioni
modifica- La filosofia buddista soffoca gli impeti dell'arditezza umana, tarpa le ali ai voli d'Icaro, fa consistere la perfezione non nel mistico balzo sempre più in alto, ma nella umiliata discesa in profondità fino all'immedesimazione negativa dello spirito col Gran Niente. Tutti i monumenti buddisti cercano di rendere nella loro struttura architettonica questa visione caratteristica dell'esistenza, nessuno vi riesce quanto il tempio dei Mille Buddha di Borobodor, che sotto questo aspetto supera, a mio parere, lo stesso prodigioso Angkor Wat del Camboge.
I viaggiatori occidentali, abituati alla fisonomia diversa dei colossi del cristianesimo e del paganesimo mediterraneo, rimangono, di primo acchito, un po' sconcertati dalla monca pesantezza di questa mole che, innalzatasi dal suolo con le assise potenti di una piramide faraonica, par debba arrivare chissà dove, ed è invece bruscamente spezzata a metà. Eppure la suprema bellezza del Borobodor è appunto questa sua pesante incertezza che così bene s'inquadra nello scenario delle montagne vulcaniche troncate dai crateri, soprattutto se si pensa all'ispirazione fondamentale del mirabile architetto, il quale volle da una parte edificare un tempio che potesse sfidare i terremoti di Giava, dall'altra contrapporre alle mistiche angoscie del brahmanesimo ed ai suoi templi paurosi, zeppi di divinità terribili, un monumento raccolto e maestoso, che rivaleggiasse con quelli per mole e ricchezza e nello stesso tempo esprimesse la grande pace nella rinunzia buddista che annulla il tormento degli uomini, annientando l'umanità nel Niente donde è uscita e dove ritornerà. (da Il tempio di Borobodor, pp. 66-67) - Le cinque torri [dell'Angkor-Vat] sono formate da una sovrapposizione di tronchi di piramide che si affinano verso il vertice. In origine dovevano essere intagliate semplicemente a gradinata per permettere ai pellegrini di salire fino alla cima. Poi la pietà di diverse generazioni d'adoratori di Brahma ha scolpito le muraglie; le ha cesellate, ricamate e traforate come un gioiello; le ha bucherellate di nicchie, di scale interne e di corridoi; ha popolato pareti e gradini d'un esercito tumultuante di statue; ha riprodotto in miracolosi bassorilievi tutti i fiori e tutte le foglie della foresta, tutti i rettili, gli animali e gli uccelli, per magnificare nel granito la grandezza del Dio quadrifronte. Tutta la letteratura sacra dell'India è scritta a punta di scalpello su queste muraglie.
Più tardi è sopraggiunto il buddismo trionfatore che ha rispettato l'edifizio, ma vi ha aggiunto con la stessa pazienza e con la stessa prodigalità i simboli del suo culto, un altro esercito di Buddha tranquilli e sorridenti che tengono compagnia alle divinità terribili dell'India, una quantità pazza di fregi, d'altari, di draghi, di simulacri, di figure convenzionali. Non solamente la pietra è sparita sotto gli ornamenti, ma ha perso anche l'aspetto caratteristico della materia. Le torri dell'Angkor-Vat non fanno pensare al granito, ma ad una composizione di stucco, di pizzi e di cartapesta.
Un tale eccesso di decorazione dovrebbe determinare un complesso barocco e pesante, qualche cosa di pretenzioso e di barbarico; invece l'insieme è d'una armonia meravigliosa che fa pensare alla grazia della Rinascenza ed evoca nel medesimo tempo la maestà dei monumenti romani. Ciò soprattutto differenzia questo capolavoro dell'arte «kmèr» dai monumenti affini dell'India. Un soffio sublime di bellezza anima questo sforzo ciclopico. [...]
L'Angkor-Vat non è né orientale, né indiano, né cinese, né classico, né esotico: è «kmèr»: è l'apoteosi artistica di una civiltà misteriosa che ha brillato di luce fulgidissima in quest'angolo del mondo, poi s'è spenta, senza lasciare altra traccia di sé che una immane rovina! (da Angkor-Vat, pp. 319-320) - Il mattino allarga la visione. Tutta la mole del tempio esce dall'ombra, coi suoi terrazzi, i suoi edifizi, le sue scalinate, le gallerie interne gremite di statue, le muraglie che sono un solo bassorilievo, i torrioni, le pagode,le piscine, quattro chilometri quadrati d'area edificata, ottomila metri di sasso scolpito, tutto d'Angkor-Vat. E che cosa è l'Angkor-Vat? Nulla! L'alba che conquista velocemente lo spazio scopre altre ricchezze, altre rovine monumentali, tutta una pianura di ruderi e mausolei, l'Angkor-Tom, i resti d'una grandiosa capitale che si è sbriciolata nel volgere dei secoli. E più lontano ancora altre città morte, più antiche, più vaste, altre rovine colossali, altri monumenti favolosi, altre mitre di granito, altre tiare di sasso, altri fantastici triregni di macigno, parte in piedi, parte messi da secoli a giacere in mezzo alle foglie della foresta. Scomparsi gli uomini, la selva ha invaso le città ed i cimiteri, non un bosco addomesticato d'Europa, ma la foresta vergine del Tropico Asiatico, cioè una marea irresistibile di rami e di tronchi che secondo la legge dell'universo ha incominciato a seppellire nella sua immensità i capolavori della potenza umana.
Tutta la pianura d'Angkor è un campo di battaglia nel quale da otto secoli il marmo lotta contro gli alberi, il granito contro le foglie, il porfido contro i virgulti, il sasso contro i funghi; le colonne cercano di divincolarsi dall'amplesso micidiale delle liane, i basamenti duellano con le radici, gli archi trionfali con la lebbra vegetale che li soffoca e li stritola, le muraglie coi filamenti che pian piano le trapanano, le rosicano e le abbattono: battaglia titanica e paradossale nella quale ogni minuto segna miliardi di sforzi impercettibili e formidabili.
Ed il granito è vinto dai bocciuoli! I mausolei sono scalzati dal polline dei fiori! Ora l'umanità è accorsa con la tecnica dei grattacieli in aiuto della pietra sconfitta...
L'alito sublime de l'aurora patina di rosa il campo di battaglia. Il lago, il fiume, le risaie, i canali, gli stagni, la foresta inondata, le vasche monumentali riflettono nelle loro mille specchiere il sorriso del mattino. Migliaia d'uccelli s'alzano a turbinare intorno alle mitre. I cornicioni dei templi si popolano di corvi. Scimmiette giocherellone danno la scalata ai Buddha ed ai Brahma. Stormi di cicogne manovrano nell'aria luminosa.
Un enorme sopracciglio scarlatto s'alza sulla linea dell'orizzonte. Il primo sole occhieggia, ed il barbaglio della sua palpebra empie d'un brivido d'oro la mirabile visione d'Angkor. (da Angkor-Vat, pp. 321-322) - Quando si son viste le ballerine reali, si comprende il tempio di Angkor-Vat, si capiscono i tetti bizzarri, gli oggetti stranissimi, le linee eccentriche dell'edilizia «kmèr».
La mole fantastica dell'Angkor-Vat non è altro che un passo di danza pietrificato dall'entusiasmo di diverse generazioni di artisti. Il tempio ha fissato nei suoi mille graniti le fugaci creazioni di bellezza delle danzatrici: queste fanno rivivere ogni giorno per la gioia del Re e del popolo i bassorilievi millenari del Tempio.
Il mausoleo di sasso scolpito e le figurazioni plastiche della carne sacerdotale, formano in realtà un altare unico, sul quale la razza adora il fascino eterno della donna, illuminato dal desiderio e spiritualizzato dall'amore. (da Le danzatrici di re Sisovat, p. 361) - La nostra civiltà proiettata nell'avvenire, sforzo perenne e quasi affannoso che tende a perfezionare le forme esteriori dell'esistenza, a valorizzare la potenzialità economica del globo, a generalizzare il benessere materiale, ad imprigionare le forze della Natura e sviluppare la capacità di dominio dell'uomo, civiltà tipicamente conquistatrice e fatalmente incontentabile, basata sull'emulazione dei singoli e delle razze, sulla bellezza della lotta e sulla voluttà della vittoria, fatta di velocità e di ardimento, di superbia e di desiderii costantemente inappagati, operosa, tumultuante, temeraria, sembra addirittura una crisi di epilessia barbarica alle genti asiatiche per le quali ogni battaglia è uno sterile sforzo ed ogni conquista un ridicolo buco nell'acqua, giacché la vita umana non solamente non è un fine, ma una semplice vicenda accidentale di quello «spirito del mondo», il «Tao» di Lao-Tzé, che è nell'uomo come nell'acqua, nell'erba come nel fuoco, nei rifiuti come nella quintessenza di Dio!
Come possono questi popoli concepire allo stesso modo di noi la vita degli individui e delle nazioni, se sono profondamente convinti che le civiltà umane sono nate perfette essendo di natura divina ed hanno avuto nel ciclo già passato il loro periodo migliore? Noi diciamo: avanti, sempre più avanti; in alto, sempre più in alto! Essi dicono: indietro, sempre più indietro! Per essi ogni nuova generazione rappresenta un fatale regresso e tutti gli sforzi debbono tendere all'immobilità per ritardare l'ineluttabile. (da La pianura dei morti, pp. 450-451)
La sfinge nera
modificaTra l'Africa mediterranea che ormai si avvia sotto la guida della Francia, dell'Italia e della Gran Brettagna verso una forma più progredita di civiltà (già visibile in Tunisia ed in Egitto, meno in Algeria, meno ancora in Libia e nel Marocco per la più recente occupazione europea) e l'estremo triangolo transwaalico nel quale la popolazione indigena è dominata completamente dall'immigrazione bianca anglo-boera, sta tutta l'immensa distesa del continente nero tropicale equatoriale ed australe nel quale le conquiste della civiltà sono ancora rudimentali.
Le isole del Raggio Verde
modificaI grandi volatori transoceanici che con uno o due salti formidabili balzano da un continente all'altro stanno rimpicciolendo terribilmente i viaggi «vecchio stile» per mare. Chi ha l'abitudine di scrivere per il pubblico le proprie impressioni di viaggiatore ha quasi voglia di saltare la pagina oceanica che un tempo costituiva uno degli elementi interessanti d'ogni gironzolata per il mondo.
Yu-Ri-Sàn, la pittrice di crisantemi
modificaIl matrimonio della signorina de Tierry, nipote della vecchia marchesa de Bremont col conte Namura dell'Ambasciata del Giappone era stato celebrato nell'antico palazzo dei marchesi Bremont con quel fasto protocollare sotto il quale molte famiglie nobili di Francia celano la modestia delle loro risorse finanziarie, inaridite dalla Repubblica. Lo splendore dei vecchi arazzi nascondeva la modestia del buffet.
Bibliografia
modifica- Mario Appelius, Asia gialla: Giava, Borneo, Indocina, Annam, Cambodge, Laos, Tonkino, Macao, Alpes, 1926.
- Mario Appelius, La sfinge nera: dal Marocco al Madagascar, Alpes, 1926.
- Mario Appelius, Le isole del Raggio Verde: Cuba, Giamaica, Haiti, Portorico e Piccole Antille, Alpes, 1929.
- Mario Appelius, Yu-Ri-Sàn, la pittrice di crisantemi, Mondadori, 1939.
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