Born to Run (autobiografia)

autobiografia di Bruce Springsteen

Voce principale: Bruce Springsteen.

Born to Run, autobiografia di Bruce Springsteen del 2016.

Le crepe e le irregolarità del vecchio marciapiede di Randolph Street, la mia via, non hanno segreti per me. Ho dieci anni, e il pomeriggio divento Annibale che valica le Alpi, una squadra di soldati impegnati in un micidiale combattimento in quota, innumerevoli eroi del Far West che battono i sentieri rocciosi della Sierra Nevada. A pancia in giù, tra i minuscoli formicai che spuntano come vulcani dove terra e cemento s'incontrano, il mio mondo si allarga all'infinito. O meglio, fino alla casa di Peter McDermott all'incrocio tra la Lincoln e la Randolph, un isolato più in là.

Citazioni

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  • È qui che abitiamo, all'ombra del campanile, dove la sacra pallina di gomma incontra la strada, benedetti dalla misericordia di Dio alla nostra maniera truffaldina. Un posto emozionante, dove calano i pantaloni e scoppiano sommosse razziali, dove l'originalità è detestata e noi ci sconvolgiamo l'anima, dove facciamo l'amore e facciamo paura, dove ci spezziamo il cuore... la città di Freehold, nel New Jersey. (p. 19)
  • Gli stessi preti e suore sono creature dotate di grande autorevolezza e di una sensualità imperscrutabile. In quanto vicini di casa in carne e ossa e intermediari con l'aldilà, esercitano un'influenza notevole sulla nostra esistenza quotidiana. Terreni e ascetici al tempo stesso, sono i guardiani di un mondo oscuro e beatifico che io temo e desidero, un mondo nel quale tutto ciò che possediamo è a rischio, un mondo pieno delle misteriose gioie della resurrezione, dell'eternità e dei fuochi inestinguibili della perdizione, di una tortura eccitante e vagamente sensuale, di immacolate concezioni e miracoli. (p. 27)
  • È questo il mondo in cui trovai le radici della mia musica. Il cattolicesimo aveva poesia, rischio e mistero, tutti elementi che facevano breccia nella mia immaginazione e nella mia interiorità. Era una terra di aspra e grandiosa bellezza, di storie fantastiche, di punizioni inimmaginabili e ricompense infinite. Un luogo magnifico e commovente che mi aveva plasmato o nel quale mi avevano infilato a forza. Un sogno a occhi aperti che mi accompagna da una vita. (p. 29)
  • Da bambino non metti in discussione le scelte dei genitori, le accetti in quanto giustificate dal loro status divino. Se non ti parlano, vuol dire che non ne vale la pena. Se non ti salutano affettuosamente, vuol dire che non te lo meriti. Se ti ignorano, vuol dire che non esisti. L'unica possibilità di modificare il loro comportamento è controllare il tuo. Forse devi essere più tenace, più forte, più atletico, più sveglio, insomma migliore di loro... chi lo sa? (p. 40)
  • La casa si era illuminata: i bambini portano grazia, pazienza, trascendenza, seconde possibilità, rinascita e risveglio dell'amore che serbiamo nel cuore. È Dio che dà un'altra chance. (p. 42)
  • Quella sera, tutto durò pochi minuti, ma quando l'uomo con la chitarra scomparve fra le urla del pubblico io rimasi paralizzato davanti alla tv, con la mente in fiamme. Avevo le stesse due braccia, due gambe e due occhi ed ero un mostriciattolo – ma questo era un problema che avrei risolto –, cosa mancava? LA CHITARRA! Elvis la colpiva, ci si appoggiava, ballava con lei, ci gridava dentro, se la scopava, la accarezzava, la faceva oscillare sul bacino, e qualche volta la suonava persino! Il passe-partout, la spada nella roccia, il sacro talismano, il bastone della virtù, il più potente strumento di seduzione che l'universo adolescenziale abbia mai conosciuto... la... la... la RISPOSTA alla mia dolorosa alienazione, una ragione di vita, un motivo per entrare in contatto con gli altri sfigati come me. E poi... le vendevano al Western Auto in centro! (p. 55)
  • È mai esistita una canzone più triste e rassicurante di Good Times di Sam Cooke? Una performance vocale densa di un'affranta consapevolezza di sé e del mondo: «Get in the groove and let the good times roll... We gonna stay here 'til we soothe our soul... If it takes all night long». (p. 58)
  • Io e Steve ci ammiravamo e capivamo a vicenda: finalmente avevo trovato una persona che viveva la musica come me, che ne aveva bisogno come me, che ne rispettava e comprendeva il potere meglio degli altri musicisti di mia conoscenza. Sin dal principio fu un incontro di cuori e di anime, fatto di conversazioni appassionate e interminabili sulle minuzie dei gruppi che amavamo. Scandagliare i dettagli dei suoni chitarristici, dello stile e dell'immagine insieme a un altro fissato monomaniaco era una meravigliosa ossessione, una passione della quale non avevamo mai abbastanza. (pp. 103-104)
  • Teddy era un vero mago: spesso io e Steve prendevamo il pullman solo per ammirarne a bocca spalancata il sound, la tecnica e la disinvoltura. Era ancora adolescente come noi, ma per me e Steve diventò un idolo. Avvicinarsi a Jeff Beck era pura fantascienza, ma Teddy era lì, a pochi metri dal nostro naso, e come le scimmie affascinate dal monolito in 2001: Odissea nello spazio eravamo ipnotizzati da uno stile, una potenza e un virtuosismo per noi inconcepibili. Alla fine tornavamo a casa di corsa e imbracciavamo le chitarre, sforzandoci di imitare la distorsione e il tono che Teddy faceva uscire dalla sua Telecaster. Ahinoi, con le nostre chitarre nel seminterrato non producevamo altro che un frastuono atroce e lancinante: sembrava che stessimo facendo a pezzi qualcuno con la motosega. Come ci riusciva Teddy? Ci riusciva perché lui SAPEVA, ecco come! (pp. 105-106)
  • Southside Johnny veniva da Ocean Grove, una cittadina vicino ad Asbury Park fondata nell'Ottocento dai metodisti. Era il re del blues nell'area, il che spiega il soprannome «Southside». Cripto-intellettuale suscettibile e bisbetico, era un uomo profondo con qualche rotella fuori posto, ma conosceva vita, morte e miracoli di tutti gli artisti blues e soul. La sua famiglia aveva una straordinaria collezione di dischi, grazie alla quale era diventato un luminare della musica. (pp. 122-123)
  • I miei genitori erano legati da un filo misterioso, nato dal compromesso che avevano raggiunto tanto tempo prima: lei aveva un uomo che non voleva lasciarla, lui una donna che non poteva lasciarlo. Quelli erano i termini, e venivano prima di tutto, persino dei doveri materni. Erano inseparabili, una cosa sola. Così era cominciata e così sarebbe finita, punto. (p. 124)
  • La prima volta che senti la tua musica su un nastro professionale inizi a sudare freddo e ti viene voglia di uscire dalla stanza strisciando. Nella mente e nei sogni l'effetto è sempre migliore che alla fredda luce dello studio. Il tuo vero sound è quello, e ti schiaccia come un peso da duecento chili. All'improvviso ti rendi conto di essere un cantante meno straordinario, un chitarrista meno dotato e naturalmente – come del resto tutti, musicisti e non – un tipo meno attraente di quanto pensassi. Il nastro se ne frega delle preziose illusioni che ti sei costruito per farti coraggio, devi farci il callo. (p. 150)
  • Il capostipite era Bob Dylan, il padre del mio Paese. «Highway 61 Revisited» e «Bringing It All Back Home» non erano semplicemente dischi fantastici, ma il primo ritratto fedele che io ricordi del luogo in cui vivevo. C'erano le luci e le ombre, e Dylan sapeva squarciare il velo delle illusioni e degli inganni, smascherando l'ottusa e garbata routine quotidiana sotto la quale si nascondeva un mondo corrotto e in rovina. Un mondo che, seppur visibile a tutti nella mia cittadina e nelle immagini che la televisione diffondeva nelle nostre case isolate, veniva tacitamente tollerato. Dylan mi ispirava e mi stimolava, perché era l'unico ad avere il coraggio di porre certe domande, soprattutto ai quindicenni: «How does it feel... to be on your own?». Si era spalancata una voragine tra le generazioni, e d'un tratto ci sentivamo orfani, abbandonati al flusso della storia, bussole impazzite, intimamente alla deriva. Bob era la stella polare, un faro che ci aiutava a districarci in quella giungla che era diventata l'America. Aveva piantato una bandiera, scrivendo e cantando canzoni indispensabili per i tempi e per la sopravvivenza emotiva e spirituale di tanti giovani americani. (pp. 182-183)
  • Mike aveva un entusiasmo capace di farlo venire duro ai morti, fu questo a conquistarmi in lui. Riusciva a farti galvanizzare per te stesso, e credeva al centodieci per cento a qualsiasi cosa gli uscisse di bocca, come un imbonitore o un predicatore. Non è da tutti. (p. 183)
  • La musica alla radio è un sogno febbrile condiviso, un'allucinazione collettiva, un segreto spifferato a milioni di persone, una voce che sussurra all'orecchio del Paese intero. Se è dirompente, sovverte il messaggio trasmesso tutti i giorni dalle autorità costituite, dalle agenzie pubblicitarie, dai mezzi di comunicazione di massa, dalle società di informazione e più in generale dai custodi dello status quo, abituati come sono a intorpidirci la mente, anestetizzarci l'anima e mortificare ogni traccia di vitalità. (p. 201)
  • Like a Rolling Stone mi aveva persuaso che era possibile trasmettere una visione autentica e incontaminata a milioni di persone, cambiare le coscienze, ravvivare gli spiriti, infondere sangue fresco a un paesaggio pop anemico e lanciare un avvertimento, una sfida che potesse diventare parte integrante del discorso americano. (p. 201)
  • Avevo ventitré anni e mi guadagnavo da vivere suonando: c'è una ragione se lo chiamano SUONARE[1] e non lavorare! Ho lasciato abbastanza sudore sui palchi di tutto il mondo da riempire almeno uno dei sette mari, e sono più di quarant'anni che spingo me stesso e la mia band fino al limite e oltre. Lo facciamo ancora oggi, ma è sempre «suonare», un piacere e un privilegio quotidiano che ti riempie di vita, gioia e sudore, che ti massacra i muscoli e la voce, che ti schiarisce la mente, ti sfinisce e ti rinvigorisce l'anima, una catarsi. Puoi cantare dell'infelicità tua e del mondo, puoi raccontare le esperienze più devastanti, ma se riesci a farlo davanti a tante anime riunite la malinconia svanisce, qualche raggio di sole filtra, tu continui a respirare e ti senti sollevato. Non si può spiegare, solo provare. È una ragione di vita, e in tempi nei quali mi era difficile entrare in contatto con gli altri era l'ancora di salvezza che mi legava al resto dell'umanità. Può essere dura? Certo. Ce l'hanno tutti l'energia psicofisica necessaria? No. Ci sono serate nelle quali non hai voglia di salire sul palco? Sì. Eppure, in quelle serate, arriva sempre un momento in cui accade qualcosa: la band che spicca il volo, un volto che si illumina fra il pubblico, qualcuno che canta a occhi chiusi le tue parole, e all'improvviso ecco che la musica, la tua ragione di vita, ricomincia a farti sentire una cosa sola con gli altri. (pp. 203-204)
  • [Su Danny Federici] Poiché era nato come fisarmonicista, la sua mano destra possedeva un lirismo, una fluidità e un istinto che non ho mai sentito in altri: le dita comunicavano direttamente con il cuore. La mano sinistra non faceva praticamente nulla, e Danny riusciva a tenere a bada la razionalità senza però frenare l'intelligenza musicale. Le note prorompevano impetuose, scelte a meraviglia e collocate alla perfezione con una libertà che sembrava sgorgare spontanea dall'anima. Era un autentico musicista d'accompagnamento: umile, sempre al servizio della canzone, non strafaceva mai e non toglieva spazio agli altri, ma trovava il suo e lo abbelliva a regola d'arte. Se avevo bisogno di dare respiro a un pezzo che avevamo registrato, mandavo Danny in studio e gli concedevo carta bianca. Non sbagliava un colpo. (pp. 204-205)
  • Cominciai dal riff di chitarra. Se trovi un riff che funziona, sei sulla buona strada. Continuai provando accordi a caso e mormorando parole, parole, parole... «tramps like us, baby we were born to run.» Per il momento non avevo altro. Quanto al titolo, Born to Run, ero sicuro di averlo visto da qualche parte. Forse scritto in argento perlato sul cofano di una macchina ad Asbury Park, forse in uno degli innumerevoli film di serie B con le hot rod che guardavo nei primi anni Sessanta. O forse era semplicemente nell'aria, o meglio nel mix di salsedine e monossido di carbonio su Kingsley Street e Ocean Avenue il sabato sera. Quale che fosse l'origine, possedeva gli ingredienti essenziali di una hit, quella miscela di familiarità e novità capace di sorprendere l'ascoltatore permettendogli allo stesso tempo di immedesimarsi. I veri successi sembra che esistano da sempre, eppure non si è mai sentito nulla di simile. (p. 224)
  • Quando l'intesa è così perfetta, metterci il cuore è inevitabile: tutto ciò che facciamo insieme si fonda sull'affetto e sul rispetto. Non è soltanto lavoro, è qualcosa di personale. Per lavorare con me non ci voleva un contratto, ma tutto il cuore. Ecco perché quarant'anni dopo, sera dopo sera, la E Street Band va avanti dritta e imperterrita come un rullo compressore. Non siamo soltanto un'idea, siamo un'estetica, una filosofia, un collettivo con un codice d'onore professionale fondato sul principio che stasera tireremo fuori tutto ciò che abbiamo dentro e faremo del nostro meglio per aiutarti a tirare fuori tutto ciò che tu hai dentro, il tuo meglio. Che lo scambio di sorrisi, anima e cuore con le persone che abbiamo davanti è un privilegio. Che è un onore e uno spasso cantare insieme a coloro in cui hai investito tanto (e viceversa), i tuoi fan, le stelle nel cielo, questo istante, e fare umilmente (o no!) il tuo lavoro per aggiungere un piccolo anello alla lunga ed esaltante catena della quale sei fiero di far parte. (p. 233)
  • Alla fine del disco, gli innamorati di Thunder Road vedono il loro sudato ottimismo messo a dura prova dalle strade della mia pericolosa città. Sono nelle mani del destino, in una terra dove regna l'ambivalenza e non esistono certezze sul futuro. In quelle canzoni hanno origine i personaggi di cui avrei continuato a raccontare la vita (e gli interrogativi che avrei continuato a pormi: «I want to know if love is real») per quarant'anni. Con quell'album mi ero lasciato alle spalle le mie idee adolescenziali su amore e libertà. Da quel momento, tutto sarebbe stato più complicato. «Born to Run» fu lo spartiacque. (p. 237)
  • Ho sempre pensato che il palco debba essere uno specchio nel quale il pubblico possa vedere se stesso, la propria città, gli amici. Per riuscirci serve una band. (pp. 251-252)
  • I veri gruppi rock nascono in un tempo e uno spazio condivisi, quelli in cui musicisti di estrazione simile si riuniscono per formare un insieme che è superiore alla somma delle parti.
    1 + 1 = 3
    [...] Quando il mondo dà il meglio di sé, quando ciascuno di noi dà il meglio di sé, quando la vita assume tutta la sua pienezza, è allora che uno più uno fa tre. È l'equazione essenziale dell'amore, dell'arte, del rock e dei gruppi rock. È la ragione per cui l'universo non sarà mai pienamente comprensibile, l'amore continuerà ad estasiarci e disorientarci e il vero rock non morirà mai. (p. 252)
  • [Su Garry Tallent] La sua mite dignità e il suo carattere facile arricchirono la mia vita e la mia band sin dall'inizio. Il suo stile ha qualcosa in comune con quello di Bill Wyman, il bassista storico degli Stones: può apparire invisibile, trasparente, come uscito dai sogni per creare un letto sul quale adagiarli, senza schiacciarli mai. Se però scendi in profondità, lo trovi sempre. Tutt'altro che istrione, appartiene alla gloriosa tradizione dei bassisti di poche parole. (p. 253)
  • Ascoltando Danny, sentivi... la libertà. Parecchi musicisti sono limitati da ciò che conoscono. Possono suonare meravigliosamente, ma sotto sotto avverti l'ombra di ciò che sanno, ciò che hanno studiato o imparato, e la loro eleganza finisce per risentirne lievemente. Danny non sapeva quello che sapeva: non sapeva le canzoni, la progressione degli accordi, l'arrangiamento, la tonalità e le parole, non sapeva cosa cazzo stavi cercando di dirgli, lui sapeva suonare e basta! Se gli chiedevi di un pezzo prima di cominciare a eseguirlo, spesso non era in grado di rispondere alle domande più semplici. («Danny, come comincia questo?» «Boh.») Ma quando davi l'attacco, non sbagliava un colpo. Quale che fosse l'area del cervello in cui custodiva le informazioni essenziali, la accendeva. (p. 254)
  • Steve è un grande bandleader, autore e arrangiatore per conto proprio, chitarrista implacabile e strepitoso. Se ho bisogno di una sferzata rock, gli consegno la chitarra, lo mando in studio, vado a farmi un giro e torno quando ha finito. Sul palco è la mia mano destra, un amico insostituibile. Senza di lui – lo dico per esperienza – la mia band e la mia vita non sono le stesse. (pp. 254-255)
  • Max Weinberg alias «Mighty Max», un fascio di grinta, nevrosi e scaltra intelligenza da periferia cittadina, nonché un uomo profondamente spiritoso. [...] Sul palco Max non si limita ad ascoltare ciò che dico e a seguire i miei gesti: lui «percepisce» i miei pensieri e le mie sensazioni, li anticipa prima ancora che arrivino alla pedana della batteria. Un'intesa quasi telepatica che nasce da anni di musica e vita condivisa [...] Con Max alle mie spalle, le domande trovano risposta prima ancora di essere formulate. (p. 255)
  • Se ho bisogno di qualcosa di particolare, di dare vita alle mie fantasie sulle tastiere, posso contare sul mio caro amico Roy. Sembra che abbia trenta dita, ottantotto tasti non bastano per il Professore. È lui l'artefice del sound dei miei dischi migliori: gli arpeggi pianistici e le melodie da carillon sono pura E Street così come il sax di Clarence. (p. 255)
  • C [Clarence Clemons] era dotato di uno humour nero che probabilmente affondava le radici nella sua condizione di uomo di colore grande e grosso cresciuto negli Stati Uniti del Sud. Curiosamente, possedeva anche un ottimismo quasi inguaribile e un'innocenza misteriosa, forse perché era un cocco di mamma come me. Miscelati, questi due elementi sono esplosivi come la dinamite: con il tempo avrebbe imparato a controllarsi, ma all'epoca, se i due stati d'animo si sovrapponevano, rischiavi di finire male, perché fra quei due estremi c'era una folle e incomprensibile terra di nessuno. (p. 259)
  • Nessun processo, nessun decreto, nessun giudice e nessun verdetto potevano togliermi ciò che avevo più a cuore, l'abilità e la vita interiore che mi ero costruito sin da adolescente, fondata sulla musica che sapevo fare con il cuore, la testa e le mani. Quelle erano mie per sempre. «Se alla fine perdo tutto,» pensavo «sganciatemi pure con il paracadute e la mia chitarra in qualsiasi punto dell'America: entrerò nella prima roadhouse, mi troverò una band e infiammerò la serata, solo perché ne sono capace.» (p. 274)
  • C'era una grossa differenza tra l'assenza di limiti e la vera libertà. [...] L'assenza di limiti sta alla libertà come la masturbazione sta al sesso: non che sia sgradevole, ma non c'è paragone. (p. 279) [proporzione]
  • Chiunque tu sia stato e ovunque tu abbia vissuto, non puoi liberartene: il passato sale in macchina con te e ci rimane. La meta e il successo del viaggio dipendono da chi guida. Quanti musicisti, perdendo il contatto con le proprie radici, avevano smarrito la bussola e visto la loro arte diventare anemica e ondivaga? (p. 282)
  • Quasi tutto ciò che scrivo rappresenta un'autobiografia emotiva. Se vuoi che significhino qualcosa per il pubblico, devi creare canzoni che significano qualcosa per te. È la prova del nove, lo strumento per dimostrare che non stai scherzando. (p. 284)
  • Se ancora oggi i brani di «Darkness on the Edge of Town» formano il nucleo dei nostri concerti forse è perché rappresentano la quintessenza del rock che volevo fare. (p. 287)
  • Dopo il sound controllato di «Darkness», [Darkness on the Edge of Town] volevo che il nuovo disco avesse tutta la ruvida e fragorosa spontaneità di un nostro live. [...] Con «The River» la E Street Band trovò l'equilibrio perfetto tra la garage band e il professionismo indispensabile per fare un buon disco. (pp. 292-293)
  • In ogni caso, è a questo scopo che ho sempre usato la mia musica e il mio talento, sin dal principio. È un balsamo, uno strumento per scovare gli indizi, una finestra sul lato più misterioso della mia vita. Per questo ho avvertito il bisogno di imbracciare la chitarra. Le ragazze, sì, certo. Il successo, sì, certo. Ma era la caccia alle risposte, o meglio agli indizi, a farmi svegliare nel cuore della notte per inabissarmi nella buca del mio cifrario a sei corde (che tenevo ai piedi del letto) mentre il resto del mondo dormiva. Sono contento di essere profumatamente pagato per i miei sforzi, ma l'avrei fatto anche gratis, perché non avevo alternative. Era l'unico modo per trovare un sollievo momentaneo e dare un senso alla mia vita. Insomma, per me non c'erano scorciatoie. Una bella responsabilità da addossare a un pezzo di legno con attaccate sei corde d'acciaio e un paio di pick-up scadenti, ma la mia «spada della libertà» era quella. (p. 298)
  • Una cosa l'ho imparata: tutti noi abbiamo bisogno di un pizzico di follia. Di sola sobrietà non si vive. Arriva un momento in cui ci serve aiuto per alleviare il peso delle incombenze quotidiane. Da che mondo è mondo, è per questo che la gente si attacca alla bottiglia. Oggi, il mio consiglio è semplice: scegli con cura metodi e sostanze, oppure lascia perdere, se non le reggi, ma soprattutto occhio alle parti intime! (pp. 302-303)
  • [Sul Muro di Berlino] La potenza di un muro che spaccava il mondo in due, la sua realtà brusca, orribile e ipnotica, non andava sottovalutata. Era un insulto all'umanità e aveva un che di pornografico: dopo averlo visto, non riuscivi più a liberarti dell'odore. Alcuni membri della band ne furono profondamente turbati, e quando cambiammo città il sospiro di sollievo fu collettivo. (pp. 306-307)
  • Alle medie e al liceo la storia mi annoiava a morte, ma adesso la divoravo, perché sembrava custodire elementi essenziali per rispondere ai miei interrogativi identitari. Come potevo capire chi ero se ignoravo le origini mie e del mio popolo? Per sapere cosa significa essere americani dobbiamo scoprire cosa significava un tempo: solo rispondendo a queste due domande saremo in grado di immaginare cosa potrebbe significare. (p. 310)
  • [Su Woody Guthrie] Immergendomi nella lettura, scoprii la scrittura raffinata, l'onestà estrema, l'ironia e l'empatia che hanno reso eterna la sua musica. Con le sue storie di lavoratori emigrati dall'Oklahoma durante la grande depressione, Woody aveva dato voce a gente intrappolata ai margini della vita americana. Le canzoni non erano invettive improvvisate, ma eleganti ritratti di vita tratteggiati con severità, arguzia e sapienza. (p. 311)
  • [...] ormai ero abbastanza maturo per sapere che la storia è immutabile. Puoi andare avanti, rinforzando il cuore nei punti in cui è spezzato, creando nuovo amore. Puoi usare il dolore e i traumi per forgiare una spada con cui difendere la vita, i sentimenti, la grazia umana e divina. Ma un secondo giro non è concesso a nessuno. Nessuno può tornare indietro, la direzione è una sola. Davanti a te, dritto nel buio. (p. 315)
  • Le guerre psicologiche non finiscono mai: esistono soltanto il presente e una fiducia precaria nella tua capacità di evolvere. Non è un'arena nella quale chi è insicuro può cercare certezze assolute e non ci sono vittorie definitive. Si tratta di un cambiamento vivo, pieno dell'instabilità e del caos della nostra personalità, un passo avanti e due indietro. (p. 329)
  • [Sulla canzone Born in the USA] Ispirato da Bobby Muller e Ron Kovic, più di dieci anni dopo la fine della Guerra del Vietnam avevo scritto e registrato una storia di soldati. Era una canzone di protesta, e quando la sentii prorompere dai giganteschi altoparlanti dello Hit Factory capii che era una delle cose migliori che avessi mai fatto. Era il blues di un reduce: nelle strofe un racconto, nei ritornelli una dichiarazione dell'unica certezza innegabile... il luogo di nascita, con annesso diritto al sangue, alla confusione, alla fortuna e alla grazia a esso legati. Chi ha pagato con il corpo e con l'anima si è ampiamente guadagnato il diritto di rivendicare il suo pezzetto di terra e plasmarlo a suo piacimento. (p. 331)
  • Born in the USA rimane una delle mie opere musicali più grandi e più fraintese. L'alternanza fra il blues «negativo» delle strofe e il proclama «positivo» del ritornello, l'esigenza di dare voce a un patriottismo «critico» e non solo celebrativo risultava troppo stridente (o semplicemente fastidiosa!) ad alcuni degli ascoltatori più spensierati e disattenti. (p. 331)
  • [...] non c'è sentiero in discesa che porti al Successo con la S maiuscola, solo l'abisso fagocitante in cui ogni viandante decide la prossima mossa e si interroga sulle proprie motivazioni. E dunque segui il tuo spirito, ma sappi che insieme al brivido e alla soddisfazione di aver sfruttato appieno il tuo talento potrai scoprire i limiti della tua musica, così come i tuoi. (p. 334)
  • Ci sono dischi che vivono di vita propria, e tu non puoi farci nulla. Uno di questi è «Born in the USA». Ecco perché a un certo punto decisi di smetterla di esitare, approfittare della situazione e arrendermi a quello che sarebbe diventato il bestseller della mia carriera. «Born in the USA» mi cambiò la vita, allargò a dismisura il mio pubblico, mi costrinse a riflettere meglio su come presentare il mio lavoro e per un breve istante mi collocò al centro del mondo pop. (p. 334)
  • Controllare fino in fondo la traiettoria della tua carriera è impossibile. Gli eventi storici e culturali creano un'opportunità, una canzone speciale ti piove addosso, si apre una finestra sulla possibilità di lasciare il segno, comunicare, conquistare il successo, espandere i tuoi orizzonti musicali. Ma quella finestra può chiudersi altrettanto rapidamente, per sempre. Il quando non dipende interamente da te. Puoi aver lavorato sodo, preparandoti – più o meno consapevolmente – per il «grande» momento, ma non sai se arriverà. E a un certo punto, per i pochi eletti, eccolo. (pp. 341-342)
  • I megaschermi predisposti all'esterno trattennero solo per poco tempo quelli che non avevano trovato il biglietto: i cancelli vennero presi d'assalto, si aprì un varco nella security e ben presto un numero di fan ben più alto dei «posti di riserva» irruppe nello stadio. Di fronte alla sconcertante isteria del pubblico, mi resi conto che in Italia quella era la norma: donne che mandavano baci e scoppiavano in lacrime, uomini che scoppiavano in lacrime e mandavano baci, tutti che ci giuravano amore eterno battendosi il cuore con il pugno. Alcuni persero i sensi. E non avevamo ancora cominciato! (pp. 355-356)
  • In questa vita (perché ce n'è una sola) prendi decisioni e posizioni e ti risvegli dall'incantesimo giovanile dell'«immortalità» e del presente eterno. Uscito dall'adolescenza, individui ciò che dà senso alla vita al di là del lavoro... e le lancette dell'orologio cominciano a girare. A camminare di fianco a te non c'è più solo il tuo partner, ma anche il tuo io mortale. Provi ad aggrapparti alle nuove fortune mentre affronti il tuo nichilismo, l'istinto deleterio di lasciare tutto in rovina. (p. 366)
  • [Su Patti Scialfa] Se da un lato è una donna saggia e forte, dall'altro è il ritratto della fragilità: fu quella combinazione a conquistarmi. Una come lei, nella mia vita, non l'ho mai conosciuta. (p. 368)
  • Creare una vita ti riempie d'umiltà, coraggio, arroganza, una potente virilità, sicurezza, terrore, gioia, paura, amore, un senso di calma e sconsiderata avventura. Se possiamo popolare il mondo, non possiamo idearlo e plasmarlo? Poi però subentra la realtà, pannolini latte in polvere notti insonni seggiolini cacca giallognola rigurgiti, ma... oh, non sono che bisogni e fluidi sacri del mio bimbo, e alla fine di ogni interminabile giornata abbiamo il mal di testa e siamo esausti, ma esaltati dalle nostre nuove identità: mamma e papà! (p. 386)
  • Il picco endorfinico provato alla nascita di tuo figlio svanirà, ma le tracce rimangono dentro per sempre come impronte digitali, traccia indelebile della realtà dell'amore e del suo splendore quotidiano. Hai reso la tua preghiera. Hai promesso di servire un mondo nuovo e hai gettato le basi di una fede terrena. Hai scelto la spada, lo scudo e il punto in cui cadrai. Accada quel che accada domani, queste cose, queste persone, rimarranno con te per sempre. Il potere della scelta, di una vita, di un amore, di una casa, sarà a tua disposizione per ritrovare il filo della tua storia ingarbugliata. E, soprattutto, ti sarà indispensabile quando vacillerai, quando sarai confuso, una nuova bussola incastonata nel cuore. (pp. 386-387)
  • [Su Patti Scialfa] Una donna, una rivoluzione rossa: bella come il fuoco, regina del mio cuore, cameriera, artista di strada e di famiglia benestante, consumata Jersey Girl, cantautrice grandiosa, newyorkese per diciannove anni, una delle voci più incantevoli che abbia mai sentito, in gamba, tosta e fragile. Quando la guardo, mi vedo e mi sento al mio meglio. [...] Se amiamo coloro che riescono a tirare fuori il meglio di noi, è quella la luce di cui Patti mi illumina. (p. 388)
  • Conosco tante splendide coppie che non si sono mai sposate, ma per noi dichiarare i nostri sentimenti era qualcosa di essenziale. È questo il senso dei voti, della promessa, dell'unione benedetta, della cerimonia. Quando lo fai davanti agli amici, alla famiglia, al tuo mondo, è una sorta di debutto in società, una dichiarazione pubblica: d'ora in poi saremo in due ad affrontare la vita. (p. 398)
  • «The Ghost of Tom Joad» racconta le ripercussioni del crescente divario economico negli anni Ottanta e Novanta, le difficoltà incontrate da tante persone che con spirito di sacrificio hanno creato l'America e i cui sforzi sono essenziali alla nostra vita quotidiana. Siamo una nazione di immigrati, nessuno può prevedere chi varcherà i nostri confini oggi e chi scriverà una pagina significativa del libro americano. All'alba del nuovo secolo, come al tramonto del vecchio, siamo di nuovo in guerra con i «nuovi americani». Ancora una volta, la gente arriverà, soffrirà e sarà vittima di pregiudizi, lotterà contro le forze più reazionarie e i cuori più crudeli della sua patria adottiva e ne uscirà vittoriosa grazie alla propria elasticità. (p. 421)
  • La semplicità funambolica della performance solista è un gioco di nervi fra te, la chitarra e «voi», gli ascoltatori. A venire a galla sono da un lato il nucleo emotivo del brano, dall'altro l'essenza del tuo rapporto con il pubblico e la musica. (pp. 421-422)
  • Le persone che imitiamo sono quelle il cui amore non siamo riusciti a conquistare. È rischioso, però ci fa sentire vicini a loro, dandoci l'illusione di un'intimità mai esistita. È un modo per reimpossessarci di quanto ci spettava di diritto ma ci è stato negato. (p. 431)
  • Una notte feci un sogno. Sto suonando, la serata è incandescente, e mio padre, morto già da tempo, siede in silenzio fra il pubblico. Poi... sono in ginocchio vicino a lui, e per un attimo osserviamo insieme l'uomo scatenato sul palco che canta la vita di operai come lui. Gli tocco l'avambraccio, quindi dico a mio padre, paralizzato dalla depressione per tanti anni: «Guarda, papà, guarda... quello là... sei tu... è così che ti vedo». (p. 431)
  • Suonare con la mia formazione dei primi anni Novanta mi aveva fatto capire che, per quanto mi piacesse collaborare con musicisti nuovi e per quanto li ritenessi bravi, in vita mia avrei incontrato un solo gruppo di persone con le quali poter salire su un palco forti di un quarto di secolo di lacrime e sangue condivisi: la E Street Band, sette uomini e una donna che avevano uno stile e doti musicali cuciti su misura per me. Ma soprattutto, guardando quei volti sul palco i fan vedevano se stessi, la loro vita, i loro amici. In un mondo digitale in cui la capacità di attenzione non supera i tre secondi e la dura e fredda mano dell'impermanenza e dei numeri anonimi la fa da padrone, era un patrimonio insostituibile. Era autentico, costruito come si costruiscono le cose autentiche: un momento, un'ora, un giorno e un anno alla volta. Insomma, alla tenera età di quarantott'anni mi serviva un'ottima ragione per non approfittare di quel gruppo di musicisti e lasciarli a casa. Non ce l'avevo. Ognuno di noi aveva trovato una strada alternativa, ma nessuno avrebbe mai trovato un'altra E Street Band. (pp. 439-440)
  • Per poter durare, i gruppi rock devono rendersi conto di un'essenziale realtà umana: la persona che hai accanto è più importante di quanto tu creda. Naturalmente, lo stesso vale per la persona che sta accanto a lui o a lei, cioè per te. Oppure: tutti devono spendere e spandere ed essere disperatamente al verde. Oppure: l'una e l'altra cosa. (p. 440)
  • Nessun'altra delle mie canzoni, nemmeno Born in the USA, ha mai suscitato una reazione più caotica e controversa di American Skin. C'era gente che si incazzava sul serio. Per la prima volta avevo affondato il dito nella divisione razziale che ancora oggi spacca il Paese. (p. 453)
  • LEZIONE 1: mai montare un cavallo che si chiama «Lampo», «Tuono», «Sfasciafamiglie», «Becchino», «Trip Acido», «Uragano» o «Morte improvvisa»
    LEZIONE 2: prendi qualche lezione. (p. 462)
  • Tra i segreti della E Street Band ci sono doti ordinarie rese straordinarie dalla forza di volontà, dalla potenza e da una comunicazione profonda con il pubblico. A volte non serve altro. A proposito di un talentuoso gruppo con varie hit all'attivo, un critico scrisse che «fanno molto bene tutte le cose superflue». Parole che capisco perfettamente. Il rock, in definitiva, è davvero una fonte d'energia religiosa e mistica. Puoi suonare da schifo e cantare appena meglio, ma se quando suoni per il tuo pubblico insieme agli amici riesci a fare quel rumore, quello che ti esce dal cuore, dalla divinità che c'è in te, dalle viscere, dall'origine infinitesimale dell'universo... allora sì che sei una stella del rock nel vero senso della parola. (p. 470)
  • «Magic» fu il mio atto di protesta contro la guerra in Iraq e l'amministrazione Bush, ma allo stesso tempo fu un album nel quale tentai di fondere il personale e il politico. Si può ascoltare dall'inizio alla fine senza nemmeno pensare all'attualità, oppure se ne può scorgere il filo micidiale sotto la superficie della musica. (p. 471)
  • Danny accettava il mondo così com'era. In tanti anni, non ci siamo mai scambiati una parola su un solo testo o una sola idea contenuta nelle centinaia di canzoni che ho scritto. Quei brani che d'istinto, come per magia, le sue dita e il suo cuore sapevano colorare alla perfezione. Danny non giudicava mai, si limitava a osservare e sospirare. Non era certo il modo migliore per colmare il divario che ci separava, ma quando succedeva l'opposto, quando cioè provavo a metterlo di fronte alle sue responsabilità, mi sembrava di essere un aguzzino, oppure un padre di una severità imbarazzante. (pp. 473-474)
  • «Wrecking Ball» generò molto meno entusiasmo di quanto mi ero aspettato. Ero sicuro del suo valore, lo sono ancora oggi. Può darsi che il successo pesasse come una zavorra sulla mia voce, ma ne dubito. Ho lavorato sodo per poter scrivere di questi temi, ormai li conosco bene. «Wrecking Ball» è uno dei miei album più belli, moderni e accessibili dopo «Born in the USA»: non essendo un complottista, arrivai alla conclusione che quelle idee così presentate suscitavano un interesse profondo benché limitato in un gruppo di persone ragionevolmente ampio ma comunque ridotto, specie negli Stati Uniti. (p. 485)
  • Clarence era una delle persone più autentiche che avessi mai conosciuto. In lui non c'era traccia di puttanate postmoderne: fatta eccezione per mio padre, vero e proprio personaggio bukowskiano con il culo incollato allo sgabello del bar, un'anima sincera come Clarence Clemons devo ancora incontrarla. Spesso e volentieri, la sua vita era un casino. Era capace di sparare le stronzate più assurde, e ci credeva sul serio, ma sprizzava vita da tutti i pori, e il maestro di cerimonie era lui! Sapeva essere estremamente felice e spaventosamente triste, era una croce e una delizia e mi faceva scompisciare dal ridere, ma sempre sull'orlo della commozione. Attorno a lui orbitavano una serie di personaggi che bisognava vederli per crederci. Aveva un rapporto misterioso e vorace con il sesso, ma era anche un amico incredibilmente affettuoso. Giù dal palco non ci frequentavamo – Clarence era un eccesso continuo, mi avrebbe rovinato la vita – ma i momenti che passavo con lui erano emozionanti e pieni di risate. Ci abbracciavamo spesso, eravamo fisicamente complementari. Il corpo di Clarence era un vasto mondo a parte, un colossale e generoso terremoto di carne. (pp. 490-491)
  • [Su Jake Clemons] Era un ragazzo massiccio come C, [Clarence, suo padre] tanto che lui e suo fratello potevano essere scambiati per due guerrieri maori. Portava gli occhiali, ed era una persona adorabile. Doveva aver avuto una madre particolarmente dolce, perché era sempre solare come il C dei giorni migliori. Aveva un gran talento, scriveva belle canzoni e cantava bene. Adorava la musica, era giovane e ambizioso: in lui intravedevo la personalità della star. (p. 493)
  • Da questo palco, Sam & Dave insegnavano al pubblico cosa significava essere un Soul Man. Soul man, soul man, soul man... ecco. Non sarò mai un vero cantante R&B, ma «soul man» è un concetto molto più ampio. Si riferisce alla vita, al lavoro e al modo in cui affronti l'una e l'altro. Joe Strummer, Neil Young, Bob Dylan, Mick e Keith, Joey Ramone, John e Paul: tutti bianchi che però meritano senza alcun dubbio quel soprannome. Due parole che dicono tutto: sulla mia lapide non ne vorrei altre. (p. 497)
  • Nel corso degli anni, mentre la nostra musica faceva breccia nell'anima dei fan, gli assoli di Clarence suscitavano quasi sempre applausi fragorosi. Perché? Perché lui non suonava cose difficili, ma faceva qualcosa di difficile e unico: era convinto di quelle note. In uno splendido articolo in sua memoria, Branford Marsalis ha scritto che C possedeva la «forza dell'intenzione musicale». (pp. 497-498)
  • Il segreto dei grandi gruppi è l'alchimia. Vista da vicino, quella dei Rolling Stones è qualcosa di straordinario. La chitarra di Keith si appoggia alla batteria di Charlie, creando una miscela che fa di loro l'ultimo gruppo rock'n'roll. Se aggiungiamo il repertorio più sottovalutato della storia, ancora oggi gli Stones sono una spanna sopra i loro concorrenti. (p. 505)
  • La mia voce, si diceva. Per cominciare, non è un granché. Ho potenza, estensione e tenuta di un cantante di bar band, ma quanto a finezza tonale lascio a desiderare. Cinque set a sera: no problem. Tre ore e mezzo senza un attimo di respiro: ce la faccio. Necessità di riscaldamento: pressoché nulla. La mia voce fa il suo dovere, ma è una voce operaia, da sola non basta. Per cavarmela e per comunicare davvero ho bisogno di tutte le mie capacità. Per vendervi il mio prodotto ho bisogno di scrivere, arrangiare, registrare, suonare e, sì, cantare al meglio delle mie possibilità. Io sono la somma delle mie parti, e sin dall'inizio ho imparato che non serve angustiarsi per questo: ogni artista ha il suo punto debole. Il successo lo conquisti anche imparando ad accettare ciò che hai e ciò che NON hai. Per dirla con Clint Eastwood, «un uomo dovrebbe conoscere i propri limiti». Così può ignorarli e andare avanti. (p. 509)

Le auto dei pendolari sibilano a pochi centimetri dal manubrio, disegnando un fiume di luce sulla strada. Più a nord il traffico si dirada, lasciando solo il mio fanale a illuminare la carreggiata deserta e la striscia bianca... striscia bianca... striscia bianca... striscia bianca... Il manubrio Apehanger mi costringe a spalancare le braccia all'altezza delle spalle, esponendomi a tutta la forza del vento – un abbraccio pericoloso – mentre i guanti stringono la presa. Sopra di me, il cosmo inizia a prendere vita nel crepuscolo. In assenza di carenatura, un vento ininterrotto mi batte contro il petto a cento all'ora, spingendomi verso il fondo della sella, minacciando di disarcionarmi da trecento chili d'acciaio lanciati a rotta di collo e ricordandomi che in un attimo può capitarmi di tutto... e che devo godermi il qui e ora, questa vita, perché sono stato fortunato, perché sono fortunato. Prendo un'uscita e imbocco una buia stradina di campagna. Accendo gli abbaglianti e scruto i campi per controllare che non ci siano cervi. Via libera, perciò riparto a tutto gas, ed ecco casa mia che mi corre tra le braccia.

  1. Gioco di parole intraducibile tra i due significati del verbo inglese «play», che in inglese può voler dire sia "suonare" che "giocare".

Bibliografia

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  • Bruce Springsteen, Born to Run, traduzione di Michele Piumini, Mondadori, Milano, 2016. ISBN 978-88-04-66932-6

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