Ugo Pesci
giornalista italiano
Ugo Pesci (1846 – 1908), giornalista italiano.
Come siamo entrati in Roma
modifica- Il barone Ricasoli, succeduto a Cavour nella presidenza del Consiglio, aveva dichiarato di voler risolvere la questione romana d'accordo con la Francia; ma era nota la rigida interezza dell'uomo: era noto che il Ricasoli voleva andare a Roma non soltanto per dare all'Italia la sua capitale, ma vagheggiando di risolvere problemi e compiere riforme religiose e morali delle quali si trovano i concetti fondamentali nelle lettere da lui dirette agli amici intimi e pubblicate dopo la di lui morte[1]. A Roma voleva andare subito, ed in questo suo proponimento era fermo con ostinazione più patriotica che diplomatica, minacciando in lettere officiose di chiamare la rivoluzione in proprio sussidio se le potenze d'Europa non gli avessero dato mano. I negoziati indiretti con la Santa Sede, incominciati da Cavour servendosi del padre Passaglia e del dottor Diomede Pantaleoni, non potevano certamente ottenere il risultato immediato che il Ricasoli desiderava. (cap. I, pp. 12-13)
- Il 17 settembre [1864] l'Opinione dava notizia d'una convenzione firmata da Drouyn de Lhuys per la Francia, da Nigra nostro ministro a Parigi e dal marchese Pepoli per l'Italia, con la quale l'Imperatore [Napoleone III di Francia] si obbligava a ritirare nel termine di due anni le sue truppe da Roma. Quel giorno stesso il Pepoli era giunto da Parigi con la convenzione, che fu ratificata il 20 dal Governo italiano. Questo dal canto suo si obbligava a non attaccare né lasciare attaccare lo Stato pontificio; consentiva che il Papa potesse avere un esercito di volontari cattolici anche stranieri; si impegnava di entrare in trattative per assumere a proprio carico una quota del debito pubblico pontificio in proporzione delle Provincie annesse. Il 19 l'Opinione aveva annunziato altresì che Napoleone III richiedeva una speciale guarentigia morale, cioè l'impegno di trasferire la capitale da Torino in altra città, e che il Governo aveva scelto Firenze. (cap. I, pp. 17-18)
- [...] l'ingresso solenne della mattina del 21 [settembre 1870 delle truppe italiane in Roma] doveva essere la consacrazione solenne del grande avvenimento, e nulla pareva troppo per festeggiarla. È impossibile dire con quanta ansiosa aspettativa la popolazione della città si fosse andata accalcando lungo le strade per le quali dovevano passare il generale [Cadorna] e le truppe. Per quanto lungo l'itinerario che dovevano percorrere traversando la città da porta Pia a porta San Pancrazio, non v'era tratto sgombro di gente. Ma lo spettacolo della folla aspettante era veramente grandioso lungo il Corso. I balconi e le finestre parate di damaschi: le bandiere tricolori a migliaia da per tutto, d'ogni stoffa, d'ogni grandezza. Terrazzini, balconi, finestre rigurgitavano di signore e di signorine: il sole splendeva, l'aria odorava di fiori e di lauri. (cap. VIII, p. 166)
- Il generale Cadorna precedeva a cavallo, col volto seraficamente sorridente, commosso. Se egli non avesse profondamente sentita la compiacenza di quel trionfo, non concesso dal destino ai primi conquistatori del mondo, sarebbe stato, e non era certamente, indegno di quell'ora grande e solenne. Entrare in Roma alla testa d'un esercito italiano ed entrarvi acclamato! Chi non avrebbe dato dieci, venti anni di vita o di regno per ottenere altrettanto! Nuvole di fiori cadevano sul generale: i popolani gli alzavano davanti bambinetti già vestiti da bersaglieri o da guardia nazionale, perché li vedesse e rivolgesse loro un sorriso; oppure gli si avvicinavano per toccarlo, per potergli baciare un ginocchio, un lembo dell'uniforme. Perché Raffaele Cadorna non appariva in quel momento agli occhi di tutti soltanto il valoroso soldato di San Martino, il pacificatore di Palermo, l'uomo di senno e d'ardimento che aveva meritata la fiducia del Governo nella alta e delicata missione di occupare Roma: Raffaele Cadorna era la personificazione dell'Italia liberatrice e trionfante che veniva dopo tanti secoli a metter piede nella sua capitale predestinata... (cap. VIII, pp. 167-168)
- Rivedemmo porta Pia. La devastazione, poiché tutto all'intorno era quieto e calmo, appariva più grande. Il suolo era ancora ingombro di frantumi, di pezzi delle nostre granate scoppiate. I due pezzi d'artiglieria, collocati a difesa del trinceramento, giacevano ancora lì per terra smontati. Le macerie della cinta Aureliana, nel luogo dove era stata aperta la breccia, ingombravano tutta la strada di circonvallazione esterna: il giardino di villa Bonaparte appariva completamente devastato; l'opera distruggitrice delle granate era stata compiuta dal combattimento a corpo a corpo fra i bersaglieri e i difensori della breccia. (cap. VIII, p. 178)
Firenze capitale (1865-1870)
modifica- L'Esposizione del 1861 fu per la maggior parte dei fiorentini, de' toscani, degli italiani d'allora una inaspettata rivelazione di cose sconosciute: fu un mezzo efficacissimo per far sì che, proclamato il regno d'Italia, gli Italiani si cominciassero a conoscere fra loro, e ad apprezzare quanto valevano. L'antica stazione, accomodata come si poteva meglio, raccolse quanto la ristrettezza del tempo permise di mandare ai fabbricanti, agli agricoltori, agli artisti d'un paese da due anni in rivoluzione ed in guerra, e costituito da pochi mesi. Ma non soltanto si mettevano in evidenza, in quella mostra, i prodotti della operosità artistica ed industriale italiana: vi si trovavano a contatto, si guardavano, si studiavano scambievolmente, gli abitanti variamente parlanti di tutte le regioni del nuovo Stato italiano. (Un decennio di prefazione (1855-1865), pp. 54-55)
- [Palazzo Pitti] Il palazzo fatto costruire alla metà del secolo XV da Luca Pitti sul pendìo della collina di Montecucco, poi da lui venduto alla moglie di Cosimo I, abbellito dai Medici, ereditato ed aumentato dai Lorena, per vastità e magnificenza di quartieri, per ricchezza di arredi, per singolarissimo pregio di opere d'arte sparse dovunque, per il bellissimo giardino di Boboli, non aveva da invidiar nulla alle più belle reggie d'Europa. (I - Da Torino a Firenze, p. 65)
- Ricordo che una notte, uscendo verso l'alba da un veglione della Pergola, con una brigata di spensierati d'ambo i sessi, mi trovai non so come insaccato dentro un fiacre, il solo ancora disponibile, con altre quattro o cinque persone; mentre che l'onorevole Pier Carlo Boggio, il quale protestava di non voler fare la strada a piedi, spinto da otto o dieci mani sul cielo della carrozza, vi adagiava la sua piccola persona grassa e rotonda, [...]. Chi avrebbe pensato, vedendo in quello strano atteggiamento l'eloquente oppositore del ministero, l'autore delle lettere ad Emilio Ollivier intorno ai fatti di Torino, che pochi mesi dopo egli sarebbe scomparso a Lissa, nei gorghi dell'Adriatico, con gli avanzi del Re d'Italia?[2] (II - La Campagna del 1866, p. 88)
Il re martire. La vita e il regno di Umberto I
modifica- L'arrestato [per l'attentato del 1897 contro Umberto I] era un tale Pietro Acciarito, di 26 anni, nativo d'Artena, paese tristamente famoso per il numero dei delinquenti sanguinari; fabbro ferraio disoccupato, come lo è facilmente chi non ha voglia di lavorare e ha la testa sconvolta da idee rivoluzionarie. Il padre di lui, temendo non ingiustamente qualche grosso guaio, aveva informato le autorità di pubblica sicurezza di minaccie "di far la testa a qualche pezzo grosso" più volte ripetute dal figlio; ma le autorità non avevano creduto che quel vecchio meritasse ascolto. (p. 408)
- Il pregiudizio della libertà illimitata per qualunque dottrina politica, per ogni specie di conciliabolo, pregiudizio vigente ancora in Svizzera, Inghilterra, e negli Stati dell'Unione Nord-Americana, specie a favore degli stranieri, permetteva intanto che al di là del mare si preparasse "il maggiore delitto del secolo"[3]. (cap. XV, p. 416)
- [Sul regicidio di Umberto I] Mai più crudele ingiustizia fu commessa in nome dell'equità e della giustizia sociale. Mai tanto barbaramente fu troncata una vita consacrata fino dai primordi e per lungo volgere di anni a fare, a procurare il bene per tutti; mai la nequizia umana seppe dar prova di più odiosa ingratitudine. (cap. XV, pp. 427-428)
- Il regicida [Gaetano Bresci], volendo giustificare il proprio delitto con il cinismo e la presuntuosità propria di un tal genere di delinquenti, volendo offendere anche la memoria del re martire, condotto innanzi ai giurati lo chiamò responsabile delle repressioni severe ma necessarie dei moti del 1898; tentò di raffigurarlo come un tiranno dal quale egli avesse liberata la terra. Un martire non poteva essere più calunniato dal suo carnefice! (cap. XV, pp. 428-429)
Note
modifica- ↑ Lettere e documenti del barone Bettino Ricasoli pubblicati per cura di Marco Tabarrini ed Aurelio Gotti. Firenze. Successori Le Monnier. [N.d.A,]
- ↑ La corazzata Re d'Italia, nel corso della terza guerra d'indipendenza, fu affondata nelle acque di Lissa il 20 luglio 1866.
- ↑ Allusione al regicidio di Umberto I, per opera del Bresci; l'anarchico italiano che viveva a Paterson nel New Jersey.
Bibliografia
modifica- Ugo Pesci, Come siamo entrati in Roma, con prefazione di Giosuè Carducci, Fratelli Treves Editori, Milano, 1895.
- Ugo Pesci, Firenze capitale (1865-1870), R. Bemporad & Figlio, Firenze, 1904.
- Ugo Pesci, Il re martire. La vita e il regno di Umberto I, Nicola Zanichelli, Bologna, 1901.
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