Silvio D'Arzo

scrittore italiano (1920-1952), pseudonimo di Ezio Comparoni

Silvio D'Arzo, pseudonimo di Ezio Comparoni (1920 – 1952), scrittore, poeta e saggista italiano.

Citazioni di Silvio D'Arzo

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  • Se ci fu mai poema che ricostruì, che 'fermò' – non rimpianse, o ricordò, o commentò, o tentò idealizzare secondo il vezzo lunare di ieri – quei nostri giorni, e sensazioni, e colori, e proporzioni, e desideri e maschi rilievi e ingenuo amore di stragi e innocenti ferocie e ogni altro aspetto di quei nostri giorni, è appunto il libro di Stevenson. [L'isola del tesoro][1]

All'insegna del "Buon corsiero"

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Ad accorgersi che due carrozze, gentilizia l'una e trainata da due cavalli neri, più vasta ed alta, tanto da ricordare un po' la diligenza, la seconda, avanzavano pacatamente per la strada, lungo i fossi, probabilmente dirette al «Buon Corsiero», fu uno staffiere della locanda stessa.

Citazioni

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  • [I timidi] non potendo voler bene ad un mondo troppo preciso e solido per loro, se ne costruiscono o ne ricordano qualche altro [...]. (cap. I)
  • Così, scorrendo calmi i giorni attorno a lui con una facilità come di barca, e con un sapore poi di miracolosa scoperta ad ogni passo, era riuscito infine a trovare una specie di armonica interdipendenza fra le cose, un complesso di celati rapporti, come dire: sicché aveva trovato tra l'altro, o meglio colto, che la lingua dei bambini, che essi stessi sogliono mostrare in una curiosa smorfia a chi li annoia, era qualcosa di rosa e delicato forse come le zampe dei piccioni: che niente ci poteva essere di più vasto e più vago dentro l'anima che un albero natalizio visto e intravisto un istante fra le lacrime, o magari di un aquilone che si spezzi. L'ala, infine, di un corvo cui i frequenti riflessi turchinicci davano una lucentezza brunita di metallo, gli ricordò i capelli lunghi e lisci che la Marchesa si lasciava cadere sovente e compiaciuta sulle spalle. (cap. II)
  • Sul momento non vide che la luna, cui in quel momento una tinta pacata d'oro verde conferiva un'aria amichevole, un po' mesta, di chi sa le cose tristi e neanche ha da rammentarle [...]. (cap. II)
  • La sera prima, d'altra parte, in quella comprensione lunare che invitava anche le cose ed i colli a confidarsi, il suo dolore gli era apparso come un dolore di tutti gli uomini di terra, il segno anzi primo e inconfondibile che distingueva ed associava gli uomini: ora invece, forse per via del sole che andava via via ponendo alle cose e agli strumenti contorni troppo nitidi e precisi, considerava appunto quel dolore come una cosa sua in un certo senso: e che egli doveva pertanto difenderlo e proteggerlo da tutti anche con una sorta, all'occorrenza, di quasi ostile animosità. (cap. III)
  • [...] proprio come tutti i timidi, lo atterriva e sconcertava di più un atto di quasi giornaliera consuetudine che un'impresa arrischiata e forse eroica. (cap. III)
  • [L'innamoramento] Condizione, questa ‒ andava adesso ricordando lontanamente compiaciuta la Marchesa mentre si veniva raccogliendo i lunghi capelli quasi turchini sulla nuca ‒ che di solito spinge l'uomo a cacciarsi nel più profondo di se stesso, o, se mai, a cercare confidenza negli alberi o le cose, che domani, a passione già spenta o volta a miglior esito, potrà poi riguardare colla stessa cordiale freddezza d'ogni giorno. (cap. IV)
  • Così che, nelle due giovani che guardavano, sì, discretamente, tuttavia in punta di piedi e col collo allungato fra le spine, quello che stava accadendo sulla strada, sorse quasi di colpo un'impressione che, anziché rendersi via via più costretta e faticosa di mano in mano che si andava allargando e completando, si rivestiva invece di una spontaneità come di ricordo: ed era, l'impressione, che quella strada, così animata ora ed allegra d'uomini e ragazzi, piena di quelle grida di richiamo accennanti per lo più a facili e prossime speranze, fosse la vita stessa dopotutto e che loro due, stando al di là della strada e oltre le siepi, venissero a trovarsi anche fuori dalla vita. (cap. IV)
  • Una sera limpida e casta andava prendendo già le cose e, in quel presagio di luna larga e verde, le siepi, i faggi ai margini del fosso, e, al di là della campagna non ancora cupa del tutto, i primi colli risaltavano ora in una netta seppure morbida, evidenza. Gli stessi suoni e radi rumori della sera, come passi d'uomo sopra le foglie della strada e da certe ville o locande in lontananza il tintinnìo breve di qualche campanello, assumevano in quel sereno quasi luminoso una loro inconsueta limpidezza. (cap. V)
  • [...] quella di voler intravedere in particolari circostanze, in casi, in uomini che si distacchino appena dalla norma, il senso oscuro dell'allegoria, [è] una tendenza molto diffusa nei lettori: una tendenza e quasi un bisogno, qualche volta. (cap. VI)

Essi pensano ad altro

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Quando egli giunse al numero sette bis di Via Marsala, il cielo d'un color morto e compatto d'alluminio era malinconico come gli sbadigli e l'acqua delle pozzanghere, ed un po' meno dell'asfalto forse su cui i pneumatici delle macchine e dei camion davano uno strano rumore. «Forse non riuscirò a trovarla,» pensò poi. Perché viaggiava per la prima volta e le sue scarpe erano ancora così terribilmente goffe e lucide e quasi inesperte ancora di vie e pietre, da sentirsi vagamente convinto che arrivare a destinazione e trovare casa numero e cortile si potesse solo per un caso o una fortunata combinazione, non per altro.

Citazioni

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  • Sotto il sole le case sembravano tutte nuove e Riccardo aspettava l'Ernestina. La gente si divideva la città, ed era impossibile ignorare nei movimenti e nelle facce e forse nelle scarpe stesse degli uomini, quel ricordo o quella promessa d'allegria che c'è in tutti quelli che han fretta la mattina. Quest'allegria però senza insolenza, che si rifletteva di colpo sopra le edicole e i negozi e in certe pietre di palazzo anche e soprattutto in mezzo alle fontane, sembrava nascere e spandersi dall'ora stessa sopra cose e genti: e l'ora poteva essere, sfuggita come per miracolo al controllo degli orologi e delle vecchie, fra le quattro e le cinque o sulle tredici, libera cioè da ogni legge e ogni ragione. I morti apparivano calmi e remoti, in discreta serenità contemplativa come nei sogni e nei libri di lettura, e l'aria, che sapeva di erbe fuori porta, si avvertiva subito come le case e il sole sulle case. Alcuni la scoprirono quel giorno. (cap. 5)
  • [...] ci sono cose che non si capiscono e si sta male a pensarci sopra tanto. Sembra di non esser niente, quasi, o che si stia vivendo per errore. (Riccardo: cap. 7)
  • Il ragazzo avvertiva più vasta la notte attorno a sé: sentiva che le cose nel mondo erano notte, e che i fiumi forse non scorrevano più attraverso le campagne, ma che una grande pace, vasta e antica, aveva preso ormai le foreste e i piani e infine tutto. Pensò anche a sua madre e all'Ernestina, che ignoravano in quel momento la bella notte, e s'annullavano in lei come cose dimenticate e mai esistite; o come sassi o immagini di sassi. (cap. 7)

L'uomo che camminava per le strade

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Carlo Stresa compiva ventinove anni quel giorno. E il numero gli fece uno strano effetto. Suono sgradito, inconsueto. Si era abituato a dire ventotto, ventotto, ventotto, per trecentosessantacinque giorni in fila e adesso non riusciva a capacitarsi di non poterlo più dire. E per un solo giorno, poi: per le ultime ventiquattr'ore soltanto neutre e grigie come le migliaia d'ore passate da quand'era nato. Fino a martedì, ieri, aveva ventotto anni, e adesso un anno di più, di punto in bianco; ora ne aveva ammucchiato di colpo ventinove; come uno, quel droghiere là, per esempio, sulla piazzetta che domani, fra solo dodici ore e qualche cosa, ne potrebbe anche compiere trenta.

Citazioni

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  • Da ventiquattro a venticinque [anni di età] c'è solo un anno di differenza, come fra venticinque e ventisei; ma fra ventinove e trenta c'è un lustro, un secolo, la vita. (cap. I, I ventinove anni del professor Carlo Stresa)
  • Ma ciascuno infine ha il suo metodo [per ritrovare la serenità]: come in tutte le cose: nel vincer la timidezza, e nel farsi il nodo alla cravatta. Un mio amico leggeva Lazzarillo di Tormes e diventava subito sereno. Ho provato anch'io una volta a leggerlo, ma mi ha lasciato del tutto indifferente. Un altro, invece, si metteva a suonare il violino davanti allo specchio. Può darsi che fosse questo il metodo giusto. Ma io non ho mai saputo suonare il violino. (Ladi: cap. III, C'è un angelo smarrito al terzo piano. E una donna arrossisce. Come mai?)

Penny Wirton e sua madre

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Suonarono in quel momento le otto. Le otto del 12 maggio del 1721. La Contea di Pictown si era appena svegliata.

Citazioni

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  • Aspettare... Aspettare..., ‒ rispondeva il padre con grande amarezza. ‒ Ecco la sola parola che sai: aspettare, e nient'altro. È la più stupida parola del mondo, e non ho visto mai che abbia potuto servire a qualcosa: e se potessi, farei bruciare tutti i libri dove è stampata anche soltanto una volta. Aspettare. Ma guarda anche la luna, che prima era in mezzo al prato e adesso è sul frassino, e dimmi se ha aspettato un minuto. E non aveva niente da perdere, lei. E chi ha aspettato quel diavolaccio di Huclebig, e quella povera vecchia gallina della Emily Spain? Chi aspetterà me, su, rispondi, quando verrà il mio turno? Chi vorrà aspettarmi? Di' qualcosa. (Teddy: cap. VI, Penny Wirton si fa sempre più strano, e nessuno riesce a capirci qualcosa. Il signor Teddy non può più aspettare)
  • La paura non è più di un topo: picchia un piede per terra e non lo trovi più. (Teddy: cap. IX, Quello che Penny ascoltò quella notte su al Colle. Penny lascia la casa, dopo aver scritto due strani biglietti)
  • Più una cosa è brutta, più è bene guardarla e aprir gli occhi. (Penny: cap. XVI, Penny ha solo dieci minuti di tempo: e corre a trovare il trappolone del Cieco. Sente un fischio e poi un altro)
  • Ogni giorno s'impara più o meno qualcosa, e l'ultima è sempre la più matta di tutte. E poi c'è ancora un altro fatto più curioso che no: delle volte il bene è perfino meno peggio del male, e per giunta fa anche più ridere. (il Cieco: cap. XVII, «Sembravano tutti impazziti... Tutta una città di matti, ti dico: un manicomio e nient'altro» (uno di quelli che c'erano e videro))

Lunedì? ‒ disse sua madre fissandolo. ‒ Penny, ecco una decente parola. Una garbata parola, lunedì. Così parlava anche tuo padre ai suoi bei giorni. E per giunta è l'unica strada per arrivare a domenica.
Penny aprì il cancelletto. Essa entrò.

Racconti

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Casa d'altri

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All'improvviso dal sentiero dei pascoli, ma ancora molto lontano, arrivò l'abbaiare di un cane.
Tutti alzammo la testa.
E poi di due o di tre cani. E poi il rumore dei campanacci di bronzo.
Chini attorno al saccone di foglie, al lume della candela, c'eravamo io, due o tre donne di casa, e più in là qualche vecchia del borgo. Mai assistito a una lezione di anatomia? Bene. La stessa cosa per noi in certo senso. Dentro il cerchio rossastro del moccolo, tutto quel che si poteva vedere erano le nostre sei facce, attaccate una all'altra come davanti a un presepio, e quel saccone di foglie nel mezzo, e un pezzo di muro annerito dal fumo e una trave annerita anche più. Tutto il resto era buio.

Citazioni

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  • Dallo stagno mi voltai per guardare giù in basso. Sette case. Sette case addossate e nient'altro: più due strade di sassi, un cortile che chiamano piazza, e uno stagno e un canale, e montagne fin quanto ne vuoi.
    Le tre vecchie erano ancora là ferme, proprio sullo scalino di casa, sotto la finestra illuminata ed aperta.
    — Ecco tutta Montelice, — dissi. — Tutta quanta: e nessuno lo sa.
    E salii per la strada di monte. (cap. 1; 1980, p. 7)
  • [Sul crepuscolo] Proprio l'ora, capite, che la tristezza di vivere sembra venir su assieme al buio e non sapete a chi darne la colpa: brutt'ora. (cap. III, 2006)
  • Ci sarà anche da vergognarsi, non dico: e per un prete tre volte di più. Ma un paese che brucia è soltanto un paese che brucia, e una guerra soltanto una guerra, e così terremoto e diluvio. Voglio dire che i grossi flagelli non sono mai riusciti a toccarmi gran che. Non è più affar nostro, mi pare. Nessuno li chiama e non chiaman nessuno, e, oltre a tutto, non san niente nemmeno di sé. Vengono e passano e amen. (cap. IV, 2006)
  • L'autunno era già in agonia. Di notte le siepi brinavano e la luna s'era fatta più fredda del sasso, e così ferma, rotonda e precisa come può essere solo a Natale: le due nubi che l'eran d'attorno parevano aria appannata. Di giorno era meglio, d'accordo, e fino alle tre c'era il sole: ma né un ramarro né un rospo non v'era più dato incontrarlo: una biscia acquaiola ancor meno: se n'erano andate da un pezzo e bisognava aspettare fino a marzo. (cap. IV, 2006)
  • «Niente fretta. Niente fretta, – dicevo. – La domenica vien dopo sei giorni. E è per questo che la chiamano festa.» (cap. 8; 1980, p. 26)
  • Vengono delle idee, certe volte.
    Mi guardai un po' d'intorno. Stava per venire la morta stagione, gli sterpi secchi, le passere uccise dal freddo, la notte che arriva alle sei, i fossi ghiacciati, i vecchi che se ne muoiono in fila e la Melìde li cuce dentro il lenzuolo e io li porto al cimitero di monte, e i bambini che per l'intera stagione se ne stanno dentro le stalle a scaldarsi col fiato dei muli... Un inverno di cinque o sei mesi. E lei cosa avrebbe fatto, la vecchia?
    Nelle ossa sentivo l'inverno vicino. Guardai un momento le nuvole che adesso eran più grandi di un prato, e poi mi avviai alla parrocchia. Le nuvole mi venivano dietro. Sempre dietro, come se qualcosa sapessero. Vengono delle idee, certe volte.
    Ma che altro potevo fare, mi dite? (cap. 13; 1980, p. 46)

C'è quassù una cert'ora. I calanchi ed i boschi e i sentieri ed i prati dei pascoli si fanno color ruggine vecchia, e poi viola, e poi blu: nel primo buio le don. ne se ne stanno a soffiar sui fornelli chine sopra il gradino di casa, e i campanacci di bronzo arrivan chiari lì giù fino a borgo. Le capre s'affacciano agli usci con degli occhi che sembrano i nostri.
Allora mi vien sempre di più da pensare ch'è ormai ora di preparare le valigie per me e senza chiasso partir verso casa. Credo d'avere anche il biglietto.
Tutto questo è piuttosto monotono, no?

Due vecchi

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  • Non so se sia eccesso o mancanza di sensibilità, ma è un fatto che le grandi tragedie mi lasciano quasi indifferente. Ci sono sottili dolori, certe situazioni e rapporti, che mi commuovono assai di più di una città distrutta dal fuoco.[2] (p. 67)
  • Ma noi, il mio povero Enrico, abbiamo più di sessant'anni e siam soli: oggi ho dovuto convincermi che l'essere o il considerarsi felici è un lusso che ormai non ci possiamo permettere più: così come la dignità di una volta, la fierezza e tante altre cose di quel tempo. Noi abbiamo tre, quattro anni da vivere ancora: forse — Dio non voglia — anche cinque: e ho pensato che per noi non c'era altro dovere che questo: di potere aspettare, giorno per giorno, la fine. [...]
    Tutto ciò è triste, povero Enrico: tutto ciò è così triste ch'io non riesco a trovare nessuna parola di speranza o di scusa. Sono le due e dormi ancora. Hai il respiro piuttosto pesante. E non sai ancora niente. (p. 78)

Un minuto così

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  • A sinistra, lontano, s'alzava un'alba color neve sporca: l'ora in cui agli angoli delle vie e contro i vetri, assieme agli insetti morti e alle bestiole distrattamente uccise nel buio e alle spazzature e ai rifiuti, si va raccogliendo tutto il grigio carico d'infamie, d'indifferenze, di stanchezza, di disperazione, di compromessi ed oblii di un'intera giornata nel mondo. (p. 92)
  • Non ci andai. E tre giorni più tardi, quando lo rividi a un trenta passi da me con quella sua aria un po' oscena, non desiderai che sparirgli davanti, e imbucai il primo viottolo. E così il giorno dopo. E così anche oggi, che c'è passato di mezzo qualcosa come un tre anni e anche più. E così prevedo che dovrà essere sempre, fino a quando non verremo ancora a trovarci, in un'alba color di neve sporca, dopo una festa paesana, amici testimoni di un mondo privo di pietà, di memoria e speranza.
    Tutto questo è piuttosto ridicolo, no? (p. 93)

Incipit de L'osteria

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Marek vedovo, da che la moglie gli era stata sepolta nella valle assieme ai vecchi amici carrettieri, non metteva più piede nella strada, benché né ricordi, o particolari pene o nostalgia lo tenessero chiuso in quel suo andito dall'odore di notte o acqua notturna.

[Silvio D'Arzo, L'osteria, in Opere, Monte Università Parma, Parma, 2003.]

  1. Citato in Domenico Scarpa, L'arcipelago, prefazione a Robert Louis Stevenson, L'isola del tesoro, traduzione di Lilla Maione, Universale Economica Feltrinelli, X ed., Milano, 2014, p. 16.
  2. Cfr. supra, Casa d'altri, cap. IV.

Bibliografia

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