Raffaele de Cesare

storico, giornalista e politico italiano

Raffaele de Cesare (1845 – 1918), storico, giornalista e politico italiano.

Raffaele de Cesare

La fine di un Regno (Napoli e Sicilia) modifica

Incipit modifica

Con decreto del 26 luglio 1849, Ferdinando II aveva ripristinato il ministero di Sicilia a Napoli, e con un altro del 27 settembre, dello stesso anno, ripristinò la luogotenenza. Questo decreto, riconfermando l'obbligo per la Sicilia di contribuire nella proporzione del quarto alle spese generali del Regno, cioè della Casa Reale, degli affari esteri, della guerra e marina, sanzionava una specie di autonomia per gli affari civili, ecclesiastici e di pubblica sicurezza, i quali vennero affidati al luogotenente, e ad un Consiglio di quattro direttori. Autonomia più di nome che di sostanza, perché, circa gli affari i quali richiedevano l'approvazione sovrana, ed erano quasi tutti, il luogotenente doveva riferire, col parere del suo Consiglio, al ministro di Sicilia in Napoli, cui toccava il diritto e l'obbligo di esaminarli e farne relazione alla presidenza dei ministri e al Re.

Citazioni modifica

  • [Carlo Filangieri] Molto era il suo prestigio. Figlio di Gaetano Filangieri; soldato di Napoleone; uccisore in duello del generale Franceschi, perché sparlava dei napoletani; crivellato di ferite al ponte San Giorgio nella disgraziata campagna di Murat contro gli austriaci; imparentato con quanto di più alto contava la nobiltà dell'Isola[1], poiché la principessa di Satriano nasceva Moncada di Paternò[2]; dotato di una inflessibile energia, di cui aveva dato prova durante la campagna: tutto concorreva ad aumentare questo prestigio. Egli seguiva fedelmente la massima napoleonica: messo a governare un paese ribelle, doveva innanzi tutto farsi temere; possibilmente, farsi amare, doveva togliere via via con la forza e col tatto, le cause, le occasioni e perfino i pretesti di ogni tentativo di rivolta. E vi riuscì. (Parte prima - Regno di Ferdinando II, cap. I, p. 13)
  • Ferdinando Troja era fratello di Carlo, il celebre storico dei Longobardi, che fu presidente del ministero del 3 aprile, caduto il 15 maggio. Questi fratelli avevano indole affatto diversa e studii diversissimi. Ferdinando era ben infarinato di latino e di giurisprudenza e aveva fama di buon magistrato; non credeva a libertà e a progresso; assolutista e municipale, reputava per lui un dovere servire il Sovrano senza discutere, e anzi senza farsi lecito di pensare neanche. (Parte prima - Regno di Ferdinando II, cap. V, p. 77)
  • [Ferdinando Troja] Parlava ordinariamente il dialetto, e chiacchierando aveva per intercalare: vuje che dicite? Per lui il mondo si era fermato al 1789, e il Regno delle Due Sicilie non era compreso nell'Italia. Scaltro e forse scettico in fondo, il Troja copriva la scaltrezza con un manto d'ipocrisia untuosa; onde, avendo anche l'abitudine di tenere il capo sempre chino a sinistra, il Re[3] lo chiamava Sant'Alfonso alla smerza, cioè Sant'Alfonso alla rovescia, perché Sant'Alfonso de' Liguori, del quale il Re era devotissimo, è dipinto con la testa inclinata sulla spalla destra. (Parte prima - Regno di Ferdinando II, cap. V, p. 77)
  • Il Troja era ritenuto uomo senza cuore. Ammalatosi di mal di pietra[4] e curato dal chirurgo Leopoldo Chiari, ispirò al marchese di Caccavone questo spietato epigramma:
    Soffre di pietra, spasima
    E c'è da sperar che muoja
    Don Ferdinando Troja...
    Né per scoprir l'origine
    Del male, il buon dottore
    Chiari granché fatica:
    La cosa è chiara, il core
    Gli è sceso alla vescica.
    (Parte prima - Regno di Ferdinando II, cap. V, pp. 77-78)
  • Nel 1848 [Agesilao Milano] s'era trovato a Spezzano fra i militi del Ribotty; e fin d'allora, si asserì, concepisse il disegno di liberare i popoli delle Due Sicilie dal tiranno. Era un eroico alluccinato, il quale credeva che, tolto il Re[3] di mezzo, la libertà sarebbe stata assicurata nel Regno. Volontà di ferro, carattere chiuso, spirito esaltato, ma che sapeva dominarsi e dissimulare, mazziniano ardente, egli agì per suo conto. (Parte prima - Regno di Ferdinando II, cap. VIII, p. 169)
  • Agesilao Milano fu impiccato la mattina del 13 dicembre[5]; e l'esecuzione, preceduta dalla solita questua delle sante messe, fu così lunga e lugubre, che strappò le lacrime a molti e lasciò nei soldati incancellabile impressione. Egli morì con coraggio, dichiarando di non essere un volgare assassino, di aver affrontato il Re alla luce del sole, il Re a cavallo e armato, e ripetendo di averlo fatto per la felicità dei popoli. (Parte prima - Regno di Ferdinando II, cap. VIII, p. 171)
  • Carlo Troja fu il vero grande storico napoletano di questo secolo[6]. Il nome suo è congiunto indissolubilmente alla storia d'Italia e a quella dell'antico Reame. Al suo senso storico si deve se il Medio Evo non fu più una tenebra per gli studiosi. (Parte prima - Regno di Ferdinando II, cap. XII, p. 235)
  • I viaggi e gli studi storici compirono e rafforzarono in Carlo Troja il sentimento dell'italianità. Per lui le vicende medioevali non erano così disordinate e confuse, come apparivano ai più; il Medio Evo per Troja non fu, in sostanza, che la lotta del romanesimo con la barbarie, la quale, prima vittoriosa, fu poi alla sua volta domata e romanizzata. (Parte prima - Regno di Ferdinando II, cap. XII, pp. 236-237)
  • Attorno al nome di Niccola Morra si era formata una leggenda di simpatia e di paura. Si raccontava che, vestito da gran signore, avesse largamente soccorsa una povera donna; in abito monacale, generosamente aiutato un vecchio infermo e, vestito da mendicante, avesse schiaffeggiato l'intendente Guerra nella villa di Foggia, senza che questi opponesse resistenza. (Parte prima - Regno di Ferdinando II, cap. XVIII, p. 364)
  • [Il brigante Morra] I suoi ricatti erano celebri. Al ricco Antonio Padula di Candela aveva estorti ottomila ducati; a Leone Maury, soprintendente dei beni del duca di Bisaccia, duemila piastre; l'arciprete se lo era veduto innanzi in sagrestia; il tenente dei gendarmi, nella caserma; ma sopra tutti restò famoso il ricatto di Gaetano Pavoncelli, giovane figliuolo di Federico Pavoncelli, che aveva soccorso sino all'ultimo giorno il padre di Niccola e tenuto questo al fonte battesimale. Il giovane Pavoncelli riuscì però a fuggire, e il riscatto non fu pagato. (Parte prima - Regno di Ferdinando II, cap. XVIII, pp. 364-365)
  • Derivato anche lui dalla nuova scuola, [Domenico Morelli] se ne fece maestro, poiché ai principii naturalistici dell'arte nuova aggiunse un alto sentimento di poesia, il quale rivela l'artista assai più del pittore. La sua indole fantastica egli la esprimeva non solo nell'arte del dipingere, ma anche, vorrei dire, nel dipingere l'arte. (Parte seconda - Regno di Francesco II, cap. III, p. 65)
  • [Domenico Morelli] Il suo aspetto, la sua maniera di vestire, la sua voce, il lampo dei suoi profondi occhi neri, un senso di mistero, che egli dava alle sue parole, facevano di lui una specie di mago: qualità tutte, delle quali egli possedeva piena coscienza e di cui si serviva abilmente per trasfondere il suo pensiero in quello dei giovani. Viaggiando molto in Italia, e rappresentando egli quella scuola che da Napoli traeva origine, diffuse fra i giovani artisti italiani di quel tempo il nuovo verbo, ond'è che presto la sua fama divenne più italiana che napoletana. (Parte seconda - Regno di Francesco II, cap. III, pp. 65-66)
  • Fra le varie interpretazioni, date per spiegare lo squagliamento della marina [da guerra del Regno delle Due Sicilie], vi fu quella che l'armata napoletana fosse tutta ascritta alla massoneria. Ma non è vero. I massoni erano ben pochi, e solo ostentava di esserlo il conte d'Aquila[7], grande ammiraglio, il quale portava un anello al dito, e facendone mostra nei giorni del suo liberalismo, lasciava intendere che egli era liberale e frammassone. Non fu dunque la dissoluzione della marina opera di setta o di denaro, né proposito deliberato di tradimento; fu effetto dell'ambiente, come si direbbe oggi, ossia di quella generale frenesia, per cui tutto venne manomesso ed offeso da parte di tanti, i quali avevano giurata fede ai Borboni, e che al giuramento credevano non venir meno, passando nelle fila dei nemici loro; e fu anche effetto di quel certo senso di leggerezza o irrequietezza, che distingueva la marina napoletana e un po' della sua tradizione. Francesco Caracciolo aveva fatto altrettanto nel 1799. (Parte seconda - Regno di Francesco II, cap. XIV, pp. 311-312)

Roma e lo Stato del papa modifica

  • Fra gli scultori italiani, il Tenerani fu il solo che lasciasse veramente una fortuna; perché, in fatto di cumular quattrini, gli scultori stranieri erano più abili degli italiani. (cap. XII, p. 216)
  • [...] il Gibson, inglese, morto nel 1866 e allievo del Canova, lasciò [alla sua morte] una sostanza cospicua, valutata a due milioni. Era un purista, ma senza originalità: la sua creazione più notevole fu il Faeton; venne a Roma povero, e visse con la maggiore parsimonia, poiché era di un'avarizia estrema, comune fra gli scultori, per quanto rara nei pittori. (cap. XII, p. 216)
  • Un'artista di felice ispirazione era la contessa di Castiglione, Adele d'Affry, la quale, rimasta vedova di Carlo Colonna, si die' all'arte, e aprì studio in via Flaminia, nella villa Martinori, e assunse il pseudonimo di Marcello. La D'Affry, nativa di Friburgo, era di statura giunonica, molto bionda e piacente, come si è detto, aveva spirito e cultura; parlava di storia con Gregorovius, di musica con Liszt, di scultura con Tenerani; era piena di seduzioni, ma aveva il difetto di arrivare mezz'ora più tardi agl'inviti a pranzo, e non se ne corresse mai. Una sera dal conte di Sartiges arrivò a pranzo finito. Pareva che le mancasse il criterio del tempo. (cap. XII, p. 216)

Incipit di Il Conclave di Leone XIII modifica

Il Conclave di Leone XIII sarà dei più memorabili che ricordi la storia della Chiesa: memorabile per condizioni e circostanze storiche del tutto nuove, per la libertà che godette, e anche per i criterii, che suggeriscono la scelta del nuovo pontefice. I padri non furono turbati da interessi politici, o da gare personali e mondane; né l'inframmettenza degli Stati cattolici, aventi il diritto di veto, li distolse dallo scegliere il Papa, che essi credevano più atto al governo della Chiesa. Nessuno di quegli Stati esercitò il suo diritto direttamente, né indirettamente mercé istruzioni ai propri cardinali e diplomatici. Liberissima elezione, quale non vi fu mai, forse, e piena smentita del tradizionale motto "esce cardinale dal Conclave chi vi entra Papa".

Note modifica

  1. La Sicilia.
  2. Agata Moncada, moglie del Filangieri, era figlia del principe di Paternò.
  3. a b Ferdinando II delle Due Sicilie (1810–1859).
  4. Calcolosi.
  5. 1856.
  6. L'Ottocento.
  7. Luigi di Borbone-Due Sicilie (1824-1897).

Bibliografia modifica

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