Nino Valeri
Nino Valeri (1897 – 1978), storico italiano.
Giovanni Giolitti
modificaA giudizio di un moralista francese, Sebastiano Chamfort, le memorie che anche i più modesti lasciano come storia della propria vita tradiscono la loro segreta vanità e ricordano quel santo che aveva lasciato ventimila scudi per sopperire alle spese della sua canonizzazione. Le Memorie della mia vita, che Giolitti scrisse a 80 anni, sollecitato dall'amico Olindo Malagodi, sembrano fare eccezione a questa massima, come se l'autore vi fosse costantemente mosso, anziché dall'aculeo della vanità, dal gusto, tanto più raro e sottile, di una democratica mediocrità.
Fin dalle prime battute, egli pone in chiaro che la sua fanciullezza e la sua educazione furono «semplici assai e di tipo comune, senza niente di particolare o di eccezionale». In questo tono smorzato e discreto, volutamente grigio, privo di scatti e di sfoghi, di tipo, diciamo, esagerouma nén[1] caratteristico, ancor oggi, dei piemontesi di vecchio stampo, che sembrano impegnati da una secolare tradizione a raggiungere una loro civilissima forma di banalità (smorzando così il demonio che si nasconde pure in essi, segreto e represso) è stesa in realtà tutta l'opera di Giolitti.
Citazioni
modifica- Il fenomeno è passato alla storia sotto la denominazione di «trasformismo».
Nelle sedute alla Camera del 17-19 maggio 1883, Minghetti approfondì e chiarì il significato di questa parola, affermando che il trasformismo di Depretis rappresentava l'esigenza suprema d'un momento storico in cui non esistevano più due partiti normalmente necessari alla vita del regime parlamentare; e bisognava pure adattarsi alle circostanze mutate. In questo adeguamento alla realtà di fatto stava appunto, a suo giudizio, il significato del trasformismo, inteso come «la legge generale delle cose viventi», la modificazione delle idee e dei sentimenti in armonia con le circostanze, secondo le esigenze pubbliche, i tempi e i luoghi diversi. (II. La situazione italiana alla vigilia delle elezioni del 1882. La polemica sul trasformismo, pp. 48-49)
- Molti dei nostri più autorevoli politici e scrittori [...] fino a molti studiosi contemporanei, italiani e stranieri, hanno similmente inteso definire il trasformismo come il nostro tipico vizio costituzionale: «il filo nero» che avrebbe cucita la nostra storia di nazione unitaria, a partire dal prologo cavouriano del «connubio» e dal trasformismo vero e proprio di Depretis fino al neotrasformismo di Giolitti, fino al fascismo, giudicato esso pure un grandioso fenomeno trasformista, interpretato da Mussolini, o addirittura fino ad oggi, oggi compreso, in cui, dopo la breve pausa della Resistenza, quel filo sarebbe ricomparso a cucire la nostra esile facciata democratica. Inteso in questo senso, il trasformismo costituirebbe il saliente carattere distintivo della prassi politica degli italiani, abituati da una propensione ereditata da secoli di autoritarismo, di corruzione, di scetticismo a pensare alle questioni di interesse comune unicamente sulla base di immediati vantaggi privati o settoriali, legati a consorterie o camorre o mafie di dimensione locale o regionale, ovvero a vaghe etichette ideologiche, mutevoli col mutare della situazione o della moda o del gusto [...]. (II. La situazione italiana alla vigilia delle elezioni del 1882. La polemica sul trasformismo, pp. 49-50)
- I fasci siciliani erano, in sostanza, leghe di «cafoni» (o «birritti»), nate dalla necessità di difendere la vita contro lo sfruttamento esercitato dai «galantuomini» (o «cappeddi»), per mezzo dei loro «gabellotti». Fino al 1891-92, fino, cioè, alle avvisaglie della rivolta, i fasci erano rimasti una forma di federazione di società operaie di mutuo soccorso, dominate, come avveniva anche in molte zone dell'Italia peninsulare, dalle vecchie classi dirigenti. Ma in quegli stessi anni si delineò altresì, confusamente, una nuova forma di organizzazione popolare di massa che tendeva ad estendersi a tutta l'isola: agli operai di Palermo come ai braccianti agricoli di Catania, agli zolfatari di Girgenti[2] e di Caltanissetta, ai commercianti in prodotti agricoli. Era il confuso preannuncio di una lotta di classe. (VII. Giolitti e Crispi di fronte ai fasci siciliani. I fasci siciliani, p. 127)
- Giolitti conservò di fronte a questo movimento [dei fasci siciliani] la sua calma usuale (pur sempre corsa, all'interno, da fremiti repressi), distinguendo nettamente tra le legittime rivendicazioni operaie che con lo sciopero tendevano a ottenere un miglioramento di salario, pienamente giustificato dalla loro miserabile condizione di vita, e le violenze degli scioperanti contro altri operai per costringerli a sospendere il lavoro. (VII. Giolitti e Crispi di fronte ai fasci siciliani. I fasci siciliani, p. 128)
- Il 5 marzo [1896, dopo la disfatta di Adua], alla riapertura della Camera, egli [Francesco Crispi] si ritrasse senza neppur tentare di difendere l'opera sua. Era un uomo forte e sopravvisse, esasperato e avvilito, ancora cinque anni, nel silenzio e nel deserto. Indubbiamente era stato un politico di nobili intenzioni, il primo, forse, fra gli uomini di governo della nuova Italia, a indicare alte mète alla patria. Ma s'era speso nel suo orgoglioso sogno con un ardore senza controllo, dominato com'era dalla sua natura fragorosa e spettacolosa e «pieno di rancori e di vendette» (così lo giudicava Domenico Farini, che pure era a lui legato da profonda amicizia e da comunanza di idee). I fatti avevano ormai confermata la sua intrinseca incapacità di tradurre le proprie idee nella pratica, cioè di commisurare la politica di grandezza ch'egli perseguiva appassionatamente con la miseria delle risorse: in una parola la sua fiammeggiante retorica. (VII. Giolitti e Crispi di fronte ai fasci siciliani. Adua, p. 141)
- Nella vasta corrente antigiolittiana rientrava altresì un movimento affatto immune da spiriti rivoluzionari e nazionalistici, la Lega antiprotezionista promossa nel 1904 ad opera di vari partiti (e particolarmente caldeggiata da Antonio De Viti De Marco, direttore con Maffeo Pantaleoni del «Giornale degli economisti»), richiamata in vita nel 1912 e diffusa da numerosi comitati. Per opera di questa iniziativa vennero chiarite certe esigenze fondamentali del liberismo (più che del liberalismo) contro la politica di favori che pareva il retaggio di tutti i governi successi a Depretis, confluente nel trasformismo corruttore di Giolitti. (XII. Il patto Gentiloni. La corrente antigiolittiana, p. 234)
- Di fronte alla grandiosa coalizione dei suoi accusatori, Giolitti indisse le elezioni sulla base del suffragio universale per l'ottobre-novembre 1913. Riuscì ancora a spuntarla, ma tirandosi addosso una serie di accuse legate da un'etichetta destinata a diventare famosa: il patto Gentiloni. In forza di esso più di duecento deputati «liberali» sottoscrissero un impegno in forza del quale si obbligarono col capo delle organizzazioni elettorali cattoliche, il conte Vincenzo Ottorino Gentiloni, a combattere la massoneria, alla quale pure apparteneva, allora, buona parte della nostra classe dirigente: funzionari, diplomatici, ufficiali, banchieri, imprenditori, industriali, professori universitari, intellettuali, personaggi di élite in ogni campo. (XII. Il patto Gentiloni, pp. 239-240)
Note
modificaBibliografia
modifica- Nino Valeri, Giovanni Giolitti, Collezione "La vita sociale della nuova Italia", Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino, 1971.
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