Nadia Murad

attivista irachena

Nadia Murad Basee (1993 – vivente), attivista per i diritti umani irachena.

Murad nel 2018
Medaglia del Premio Nobel
Medaglia del Premio Nobel
Per la pace (2018)

Citazioni di Nadia Murad

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Dall'intervista di Lara Whyte, vice.com, 18 febbraio 2016.

  • La mia materia preferita era storia — avevo una gran memoria. Ma ora la mia memoria non è più la stessa, nel mio cervello è tutto molto confuso.
  • L'altra mia sorella e i tre fratelli che mi sono rimasti vivono ancora in un campo profughi. Le condizioni sono pessime—cibo avariato, niente acqua, niente elettricità. Quattro delle mogli dei miei fratelli sono ancora nei territori occupati dall'ISIS con i loro bambini. Parlare con una persona dentro una stanza non risolverà niente di tutto ciò.
  • Mi sento vecchia. Ho 21 anni — lo so che sono giovane. Ma è come se nelle loro mani ogni parte di me fosse cambiata: ogni millimetro del mio corpo è diventato vecchio. Sono stata consumata da quello che mi hanno fatto, e ne sono uscita totalmente diversa.

Dall'intervista di Luciana Grosso, vanityfair.it, 5 ottobre 2018.

  • Non ci sarà mai speranza né per me ne per la mia gente fino a quando l'esercito dello Stato Islamico continuerà a uccidere i nostri uomini e a stuprare le nostre donne.
  • Il posto dove ci tenevano era una specie di prigione. Rinchiuse con me c'erano centinaia di altre donne e bambini, anche molto piccoli, che gli uomini si scambiavano tra loro come fossero cose. Una sera, uno degli uomini venne da me. Mi ha picchiato e mi ha portato via, in una stanza piena di altri soldati fino a quando non sono svenuta.
  • Ho supplicato le Nazioni Unite di fermare l'Isis, perché sta distruggendo centinaia di vite, perché è un'organizzazione crudele e sanguinaria, perché si sta portando via la speranza di popoli interi. Non ho chiesto loro di cominciare una nuova guerra, ma di fermarli. Credo che non sia necessario partire armati per farlo. Credo però, anzi so, che in tutto il mondo ci sono decine di gruppi che finanziano e sostengono più o meno apertamente l'Isis: questi gruppi prima di tutto vanno fermati.

Ilfoglio.it, 11 dicembre 2018.

  • È un grande onore aver ricevuto questo premio importante con il mio amico, il dottor Denis Mukwege, che ha lavorato incessantemente per aiutare le vittime della violenza sessuale e per essere la voce di quelle donne che sono state oggetto di violenza.
  • Quando ero una ragazzina, il mio sogno era finire la scuola superiore. Sognavo di avere un salone di bellezza nel nostro villaggio e di vivere vicino alla mia famiglia nel Sinjar. Ma questo sogno è diventato un incubo. Sono successe cose che nessuno poteva immaginare. C'è stato un genocidio. Di conseguenza, ho perso mia madre, sei dei miei fratelli e i figli dei miei fratelli. Ogni famiglia yazida ha storie simili, una più orribile dell'altra, a causa di questo genocidio.
  • I membri di tutte le famiglie yazide sono stati separati gli uni dagli altri. Il tessuto sociale di una comunità pacifica è stato strappato, un'intera società che credeva nella pace e nella tolleranza è diventata carburante per una guerra inutile. Nella nostra storia, siamo stati vittime di molte campagne di genocidio a causa del nostro credo e della nostra religione. Come risultato di questi genocidi, ci sono pochi yazidi rimasti in Turchia. In Siria, dove c'erano circa 80 mila yazidi, oggi ce ne sono appena 5.000. In Iraq, gli yazidi rischiano di fare la stessa fine, e il loro numero si sta riducendo in maniera impressionante. L'obiettivo dell'Isis di distruggere questa religione sarà raggiunto a meno che non si dia agli yazidi la protezione necessaria.
  • Le nostre case, le nostre famiglie, le nostre tradizioni, il nostro popolo, i nostri sogni, tutto è stato distrutto. Dopo il genocidio, abbiamo ricevuto solidarietà internazionale e locale, e molti paesi hanno riconosciuto questo genocidio, ma il genocidio non si è fermato. La minaccia di distruzione esiste ancora.
  • Se la comunità internazionale è seria nel voler dare assistenza alle vittime di questo genocidio, e se vogliamo che gli yazidi lascino i campi da sfollati e tornino alle loro terre, e se vogliamo restituire loro la fiducia, la comunità internazionale dovrebbe garantire loro la protezione internazionale sotto la supervisione delle Nazioni Unite.
  • Non ci dovrebbe essere posto per il terrorismo e per idee estremiste nell'Iraq del dopo Isis. Dobbiamo unire le forze nel costruire il nostro paese.
  • Hanno commesso questo genocidio per la sola ragione che noi yazidi abbiamo credenze e rituali diversi e siamo contrari a ucciderci gli uni con gli altri o a tenere prigioniere le persone, o a ridurle in schiavitù.
  • Ma quanti genocidi e guerre ci sono stati dalla fine della Prima guerra mondiale? Le vittime delle guerre, in particolare delle guerre civili, sono innumerevoli. Il mondo ha condannato queste guerre e riconosciuto questi genocidi. Tuttavia, non è riuscito a porre fine agli atti di guerra e a impedire che si ripetessero.
  • L'istruzione gioca un ruolo essenziale nel coltivare società civili che credono nella tolleranza e nella pace. Pertanto, dobbiamo investire nei nostri figli perché ai bambini, come una tabula rasa, possano essere insegnate la tolleranza e la convivenza anziché l'odio e il settarismo.
  • Sono orgogliosa degli yazidi, della loro forza e pazienza. La nostra comunità è stata molte volte bersagliata e la sua esistenza è stata minacciata, eppure continuiamo a lottare per il nostro diritto di esistere. La comunità yazida incarna la pace e la tolleranza e deve essere considerata un esempio per il mondo.

L'ultima ragazza

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A inizio estate del 2014, mentre mi preparavo per l'ultimo anno di liceo, due contadini scomparvero dai loro campi alle porte di Kocho, il piccolo villaggio yazida nel Nord dell'Iraq dove sono nata e dove, fino a poco tempo fa, credevo che avrei vissuto per il resto della vita. L'attimo prima i due uomini stavano risposando all'ombra dei loro grezzi teloni fatti a mano, e quello dopo erano prigionieri dentro una stanzetta in un villaggio vicino, abitato in gran parte da arabi sunniti. Insieme ai contadini, i rapitori avevano portato via anche una gallina e qualche pulcino, e la cosa ci lasciò confusi. «Forse avevano solo fame» ci dicevamo, ma questo non bastava certo a calmarci.

Citazioni

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  • Oggi nel mondo, gli yazidi sono soltanto un milione. Da quando sono nata - e sicuramente da molto tempo prima che nascessi - la nostra religione è ciò che ci definisce e ci tiene uniti come comunità. D'altro canto, ci ha resi anche oggetto di persecuzioni da parte di gruppi più vasti, dagli ottomani ai baathisti di Saddam, che ci hanno attaccati o hanno tentato di costringerci a giurare loro fedeltà. Hanno umiliato la nostra religione sostenendo che venerassimo il diavolo o che fossimo sporchi, e pretendendo che rinunciassimo alla nostra fede. Noi yazidi siamo sopravvissuti a innumerevoli serie di attacchi volti ad annientarci, ucciderci o costringerci alla conversione, o semplicemente a cacciarci dalle nostre terre e derubarci di tutto. Prima del 2014 queste forze esterne avevano tentato di distruggerci settantatré volte. Chiamavamo tali attacchi contro di noi con il termine ottomano firman prima di imparare la parola «genocidio». (pp. 10-11)
  • Gli iracheni, in particolare gli yazidi e altre minoranze, sono bravi a adattarsi alle nuove minacce. È indispensabile se si vuole tentare di vivere qualcosa di simile a una vita normale in un paese che sembra in sfacelo. (p. 17)
  • Gli yazidi non sposano persone di altre religioni, né è consentita la conversione allo yazidismo, e le grandi famiglie sono sempre state il miglior antidoto all'estinzione. (p. 20)
  • Gli yazidi credono che Dio, prima di forgiare l'uomo, abbia creato sette creature divine, spesso chiamate angeli, che erano sue manifestazioni. Dopo aver composto l'universo con i frammenti di una sfera rotta simile a una perla, Dio mandò sulla terra il capo dei suoi angeli, Tawusi Melek, che assunse le sembianze di un pavone e dipinse il mondo con i colori sgargianti delle sue penne. Secondo la leggenda, sulla terra Tawusi Melek vide Adamo, il primo uomo, che Dio aveva reso immortale e perfetto, e contestò la decisione di Dio. Se Adamo deve riprodursi, suggerì Tawusi Melek, non può essere immortale e non può essere perfetto. Deve mangiare il grano, anche se Dio gli ha proibito di farlo. Dio replicò che la decisione spettava all'angelo, e mise il destino del mondo nelle mani di Tawusi Melek. Adamo mangiò il grano, fu espulso dal paradiso, e fu così che venne al mondo la seconda generazione di yazidi.
    Per dimostrarsi degno agli occhi di Dio, l'Angelo Pavone diventò il collegamento di Dio con la terra e il tramite fra l'uomo e il paradiso. Quando preghiamo, spesso ci rivolgiamo a Tawusi Melek e il nostro Capodanno celebra il giorno della sua discesa sulla terra. Immagini del pavone variopinto decorano molte case yazide, per ricordarci che è merito della sua saggezza divina se tutti noi esistiamo. (p. 34)
  • La gente dice che lo yazidismo non è una «vera» religione perché non abbiamo un libro ufficiale come la Bibbia o il Corano. Dato che alcuni di noi non si bagnano al mercoledì – il giorno in cui Tawusi Melek giunse per la prima volta sulla terra, e il nostro giorno di riposo e preghiera –, dicono che siamo sporchi. Siccome preghiamo rivolti al sole, ci chiamano pagani. La nostra fede nella reincarnazione, che ci aiuta ad affrontare la morte e a tenere unita la comunità, viene rigettata dai musulmani perché non è condivisa da nessuna delle fedi abramitiche. Alcuni yazidi evitano certi alimenti, come la lattuga, e vengono derisi per le loro strane abitudini. Altri non indossano il blu perché lo considerano il colore di Tawusi Melek, troppo sacro per un essere umano, e perfino questa scelta viene ridicolizzata. (p. 35)
  • Nei libri di storia che leggevo a scuola gli yazidi non esistevano, e i curdi erano descritti come una minaccia contro lo Stato. La storia dell'Iraq era presentata come un susseguirsi di battaglie nelle quali i soldati arabi iracheni venivano aizzati contro coloro che volevano prendersi il loro paese. Era una storia sanguinosa, pensata per renderci orgogliosi della nostra nazione e dei leader risoluti che avevano scacciato i coloni britannici e rovesciato il re, ma su di me sortì l'effetto contrario. Più tardi mi convinsi che era stato anche a causa di quei libri se i nostri vicini si erano uniti all'ISIS o non avevano mosso un dito mentre i terroristi attaccavano gli yazidi. Nessuno che avesse frequentato una scuola irachena avrebbe pensato che la nostra religione meritasse protezione, né che ci fosse qualcosa di male o anche solo di strano in una guerra senza fine. Ci avevano insegnato la violenza fin dal primissimo giorno di scuola. (p. 38)
  • Dopo che Saddam aveva invaso il Kuwait nel 1991, le Nazioni Unite avevano applicato sanzioni all'Iraq nella speranza di limitare il potere presidenziale. Da piccola non capivo la ragione di queste sanzioni. In casa mia le uniche persone che parlavano di Saddam erano i miei fratelli Massoud e Henzi, e solo per zittire chiunque si lamentasse durante i discorsi alla tivù o alzasse gli occhi al cielo sentendo la propaganda sui canali statali. Saddam aveva tentato di guadagnarsi la fedeltà degli yazidi in modo che lo affiancassero contro i curdi e combattessero le sue guerre, però pretendeva che ci unissimo al partito Baath e ci definissimo arabi anziché yazidi.
    A volte alla tivù c'era solo Saddam seduto a una scrivania a fumare e a raccontare storie sull'Iran, con una guardia baffuta accanto a lui, blaterando di battaglie e del suo valore. «Di cosa sta parlando?» ci chiedevamo, e in risposta ci stringevamo nelle spalle. Non c'erano accenni agli yazidi nella Costituzione, e qualsiasi segnale di ribellione veniva prontamente punito. Certe volte mi veniva voglia di ridere per ciò che vedevo in tivù - il dittatore con il suo buffo cappello -, ma i miei fratelli mi ammonivano a non farlo. «Ci sorvegliano» diceva Massoud. «Sta' attenta a quello che dici.» L'imponente ministero dell'Intelligence di Saddam aveva occhi e orecchie dappertutto. (p. 41)
  • Quando Saddam era al potere, la scuola aveva un unico e palese obiettivo: offrendoci un'istruzione statale sperava di sottrarci la nostra identità di yazidi. Emergeva con chiarezza in tutte le lezioni e in tutti i libri di testo, che non accennavano a noi, alle nostre famiglie, alla nostra religione, né ai firman contro il nostro popolo. Anche se moltissimi yazidi erano cresciuti parlando curdo, le lezioni si tenevano in arabo. Il curdo era la lingua della ribellione, e il curdo parlato dagli yazidi poteva apparire ancora più minaccioso per lo Stato. Eppure mi premeva andare a scuola ogni volta che potevo, e imparai in fretta l'arabo. Non avevo la sensazione di sottomettermi a Saddam o di tradire gli yazidi imparando l'arabo o studiando l'incompleta storia irachena; mi sentivo più forte e intelligente. (p. 42)
  • Non so cosa avrebbe pensato mio padre dell'invasione americana dell'Iraq e della cacciata dal potere di Saddam, ma vorrei che fosse vissuto abbastanza per veder cambiare il nostro paese. I curdi accolsero i soldati statunitensi aiutandoli a entrare in Iraq, e furono entusiasti della deposizione di Saddam. Il dittatore li aveva presi di mira per decenni, e sul finire degli anni Ottanta la sua aviazione aveva tentato di sterminarli con le armi chimiche in quella che aveva chiamato «campagna di Anfal». I curdi erano rimasti segnati da quel genocidio e avevano reagito proteggendosi dal governo di Baghdad in tutti i modi possibili. La campagna aveva spinto americani, britannici e francesi a stabilire una no-fly zone nel Nord curdo oltre che nelle aree sciite a Sud, e da quel momento i curdi si erano alleati a loro volontariamente. Ancora oggi i curdi definiscono l'invasione statunitense del 2003 una «liberazione» e la considerano l'inizio della loro trasformazione da un insieme di villaggi piccoli e vulnerabili in grandi città moderne piene di alberghi e sedi di compagnie petrolifere.
    In generale noi yazidi accogliemmo gli americani, ma a differenza dei curdi non eravamo sicuri di come sarebbero state le nostre esistenze dopo Saddam. Le sanzioni ci avevano reso la vita difficile, così come per altri iracheni, e sapevamo che Saddam era un dittatore che governava l'Iraq con la paura. Eravamo poveri, esclusi dall'istruzione e costretti a svolgere i lavori più duri, pericolosi e peggio pagati del paese. Ma allo stesso tempo, con i baathisti al potere, noi di Kocho potevamo praticare la nostra religione, coltivare i campi e mettere su famiglia. Avevamo rapporti stretti con alcuni arabi sunniti, in particolare con i kiriv, che consideravamo legati alle nostre famiglie, e l'isolamento ci aveva insegnato a fare tesoro di questi contatti mentre la povertà ci spingeva a essere soprattutto pragmatici. Baghdad e Erbil, la capitale curda, sembravano lontane anni luce da Kocho. Tra le decisioni prese dai curdi e dagli arabi ricchi e influenti, l'unica che avesse un peso per noi era quella di lasciarci in pace. (pp. 46-47)
  • Sono ancora convinta che essere costretto a lasciare la tua casa per paura sia una delle ingiustizie peggiori che un essere umano possa subire. Tutto quello che ami ti viene portato via, e rischi la pelle per vivere in un posto che non ha alcun significato per te e dove non sei benvenuto, dato che vieni da un paese ormai associato alla guerra e al terrorismo. Così passi il resto dei tuoi anni rimpiangendo quello che ti sei lasciato alle spalle e pregando di non essere espulso. (p. 61)
  • Vivevamo in un altro mondo. La vita a Kocho si era fermata, gli abitanti se ne stavano chiusi in casa per paura di essere visti dall'ISIS. Era strano essere così distanti dalle altre famiglie del villaggio. Eravamo abituati a scambiarci visite fino a tarda sera, a dividere la cena con gli amici e a parlare sui tetti prima di dormire. Ora che l'ISIS aveva circondato Kocho, anche solo sussurrare alla persona sdraiata accanto a te di notte sembrava pericoloso. Tentavamo di non dare nell'occhio, quasi che l'ISIS potesse dimenticarsi della nostra esistenza. Perfino diventare scheletrici sembrava un modo per proteggerci, come se smettendo di mangiare alla fine potessimo diventare invisibili. La gente si avventurava fuori casa solo per controllare i parenti, fare scorte o aiutare qualche malato. E anche allora camminavano tutti in fretta e sempre verso un rifugio, come insetti in fuga da una scopa. (p. 88)

Bibliografia

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