Milovan Gilas

politico e antifascista jugoslavo

Milovan Gilas (1911 – 1995), politico, antifascista, partigiano e militare jugoslavo.

Gilas nel 1942

Citazioni di Milovan Gilas modifica

  • [Sulla guerra di indipendenza della Croazia] Nella storia ci sono state guerre giuste, guerre ingiuste e guerre sporche. Questa è la guerra più stupida che io possa ricordare. Nessuno può vincerla.[1]
  • Credo che i leader croati vivano nell'illusione che la Germania possa venire in loro soccorso e che le decisioni che contano verranno prese all'estero. [...] Devono convincersi a scendere a compromesso con gli altri jugoslavi.[1]
  • La guerra che si combatte oggi in Bosnia-Erzegovina non è altro che la continuazione della Seconda guerra mondiale, ma questa volta senza i comunisti, senza i partigiani.[2]
  • Ci sono solo tre nazionalismi: il serbo, il croato, il musulmano. Un nuovo fascismo, diverso da quello italiano o dal nazismo: un fascismo anarchico, violento, intollerante. Il vecchio banditismo politico balcanico, che l'Occidente non ha saputo riconoscere: con questa gente puoi pure negoziare, ma raggiungere un compromesso è impossibile.[2]

Da Milovan Gilas. «Il mio 1956»

New Leader, 19 novembre 1956; riportato ne L'Unità, 11 giugno 1995

  • I cambiamenti che hanno avuto luogo in Polonia significano il trionfo del comunismo nazionale - cosa che, in forma diversa, abbiamo già visto prodursi in Jugoslavia. Il sollevamento d'Ungheria è di tutt'altro significato: è un fenomeno nuovo che, forse, non riveste significato meno grande della Rivoluzione francese o della Rivoluzione russa.
  • L'esperienza jugoslava sembra provare che il comunismo nazionale è incapace di trascendere le frontiere del comunismo, in modo da istituire delle riforme capaci di trasformare uno Stato comunista e di condurlo gradualmente verso la libertà. Questa esperienza sembra dimostrare che il comunismo nazionale non può non fare nient'altro che rompere con Mosca e, seguendo modalità e stile nazionale propri, costruire in fondo un sistema comunista identico al modello. Cionostante, nulla sarebbe più falso che ritenere che l'esperienza jugoslavia possa essere ripetuta in qualunque paese dell'Europa dell'Est.
  • La cricca staliniana è scomparsa, ma il regime comunista stesso è stato ripudiato. Mosca ha dapprima cercato di corprire il suo intervento portando al potere il comunismo nazionale nella persona di Imre Nagy. Ma Nagy non ha potuto instaurare il comunismo nazionale se non con l'aiuto delle baionette sovietiche, il che significa la fine stessa del comunismo. Finalmente costretto a scegliere tra l'occupazione sovietica e l'indipendenza, Nagy ha coraggiosamente deciso di sacrificare il partito ed il governo comunista - che era già malridotto - alla salvezza della patria ed al gusto della libertà.
  • Se la rivoluzione ungherese avesse potuto non solo instaurare un regime democratico, ma anche preservare la nazionalizzazione dell'industria pesante e del credito, avrebbe esercitato una terribile influenza su tutti i paesi comunisti, compresa l'Urss. Avrebbe dimostrato non solo che il totalitarismo non è necessario per proteggere la classe operaia dallo sfruttamento (vale a dire per «costruire il socialismo») ma anche che non è che una scusa che permette lo sfruttamento della classe operaia da parte della burocrazia e di una nuova classe dirigente. Mosca, dunque, ha combattuto la rivoluzione ungherese, tanto per ragioni riguardanti la politica estera, che altre riguardanti la politica interna. Proprio come la rivolta jugoslava aveva rivelato l'imperialismo esercitato da Mosca verso i paesi comunisti, così la rivoluzione ungherese rivela che il regime sovietico, a casa sua, altro non è che una dominazione totalitaria esercitata da una nuova classe di sfruttatori, la burocrazia del partito.
  • Nessuno può predire con esattezza dove si fermerà Mosca. Per il momento, l'Urss fa il doppio gioco: riconosce a fior di labbra il comunismo nazionale, ma ne mina le fondamenta, non potendo rinunciare alla sua egemonia imperialista. Naturalmente, essa in modo menzognero intitola il suo intervento e le sue pressioni come «aiuto» al comunismo e «misure di sicurezza» verso le nazioni soggette. Ma ciò non è che secondario per Mosca. La sua politica nei confronti delle nazioni comuniste riflette chiaramente una volontà di resistere al crollo dell'impero russo, di mantenere il ruolo dirigente del comunismo sovietico - questa volontà è perfettamente dimostrata dai mezzi di cui fa uso per servirsi del comunismo nazionale come di una maschera per il suo espansionismo imperialista.

Da Gli Stati jugoslavi

Intervista di Gabriel Bertinetto, L'Unità, 28 novembre 1987

  • Non è immaginabile un regime militare in Jugoslavia. Se vi si arrivasse la situazione peggiorerebbe. I non serbi penserebbero: ecco si torna all'egemonia serba. I serbi stessi per lo più rifiuterebbero una dittatura militare.
  • È vero che con Tito siamo diventati il più liberalizzato dei paesi socialisti, ma in fondo il sistema non è cambiato. Resta il monopolio di un partito in tutti i campi della vita, soprattutto l'economia e il governo.
  • Non sottovaluto gli sforzi di Gorbaciov, e tuttavia non sono euforico. Ha fatto certe promesse ma non puà andare molto oltre.
  • I paesi socialisti devono liberarsi da vecchi schemi il monopolio politico del partito, l'idea che nazionalizzare i mezzi di produzione risolva tutti i problemi, l'illusione di potersi isolare dal mondo esterno, l'idea nei paesi multinazionali di poter risolvere le questioni nazionali una volta per tutte.
  • Io mi sento un patriota jugoslavo, mi sento un cosmopolita. [...] Non sono indignato con i miei ex compagni. Non ambisco a diventare un leader. Sono soddisfatto del mio destino.
  • In Jugoslavia non c'è nulla da distruggere completamente, ma neanche nulla che non vada cambiato. L'autogestione inizialmente aveva aspetti positivi indebolire la burocrazia e orientare l'economia verso il mercato. Ma nella vita politica l'autogestione non può avere nessun ruolo. L'opinione che l'autogestione risolva tutto è un'utopia, il che non significa che sia inefficace.
  • Lo slogan della fraternità e unità dei popoli jugoslavi, che un tempo aveva un ruolo ideologico-emozionale, oggi non ha più nessuna funzione. Lo jugoslavismo, nostro ideale durante la guerra, ora è morto. Può esistere ancora un'idea di jugoslavismo, solo se c'è parità tra i singoli Stati.

Da "Qui il comunismo non potrà sopravvivere"

Intervista di Edward Steen, Repubblica.it, 20 ottobre 1988

  • Tutti questi riformatori della sinistra non parlano con sincerità, quando dicono di volere un comunismo migliore. In realtà, sono insoddisfatti del comunismo in quanto tale. Al fondo di tutto ciò che accade c'è proprio questo. Nessuno è soddisfatto dell'attuale sistema. Nemmeno la classe al potere che non può governare come era abituata a fare.
  • La Jugoslavia sopravviverà, personalmente ne sono convinto. [...] L'idea jugoslava sembra ben accetta in Serbia e, a certe condizioni, anche in Slovenia e Croazia, purché intervenga un accordo soddisfacente fra la Serbia e una autorità centrale dotata di maggiori poteri, più efficiente e decisa, che potrebbe, in tal caso, permettere persino maggiori autonomie alle sei repubbliche. A questa soluzione del resto non c'è alternativa tranne la disintegrazione. Il ritorno al sistema vigente quando ancora Tito era in vita non viene nemmeno discusso: in ogni caso, per un simile ritorno non ci sono candidati. Qui il comunismo non sopravviverà.
  • La Jugoslavia sembra un caso emblematico di autorità centrale sempre più debole, nonostante non vi sia il minimo segno di una reale contestazione politica nelle proteste dei lavoratori. Tutti i paesi comunisti, da qui a Pechino, stanno lentamente affrontando i problemi contraddittori posti dal passaggio a un' economia di mercato, che non può funzionare all' interno del loro esistente sistema politico. Un terzo della popolazione mondiale, che vive nei paesi comunisti, sta attraversando la fase più drammatica e turbolenta della sua storia, e l'Occidente che oggi è stabile deve adattarsi a vivere in questa nuova situazione.

Da I tre fascismi della Jugoslavia

Intervista di Sandro Curzi, Repubblica.it, 11 giugno 1994

  • La Jugoslavia è preda di tre fascismi: quello serbo, quello croato e quello musulmano. Vorrei spiegarmi bene: non si tratta di fascismi mediterranei, qui c'è in più, e in peggio, l'elemento di un nazionalismo razzista. In questo senso si tratta di regimi che hanno più affinità con il nazismo che non con il fascismo. Del fascismo, comunque, se non l'ideologia hanno i metodi.
  • Le colpe di questa guerra sono nostre, degli jugoslavi. Ciò non toglie che alcune posizioni europee, di alcuni stati europei, possano aver favorito i diversi nazionalismi. Io non mi fido molto di quello che fanno a Ginevra e, finora, oltre ad alcuni discorsi non abbiamo avuto alcun risultato concreto. Occorre accrescere la presenza militare dell'Onu in Jugoslavia e aumentare le pressioni sui governi in guerra. Questo è l'unico spazio concreto di azione.
  • La realtà è sempre peggiore di come ce la immaginiamo, è il destino di chi è idealista. Ma io non ho mai avuto paura di perdere perché non tengo alla vittoria. La caduta dell'impero sovietico e la convinzione che un impero non conviene a nessuno hanno cambiato il quadro.
  • [Su Josip Broz Tito] Credo sia stato uno dei quattro grandi personaggi del comunismo mondiale, con Lenin, Stalin e Mao. Tra i suoi meriti, certo, c'è quello di aver saputo tenere insieme un paese che, già prima del comunismo, era in via di disfacimento. E poi si possono ricordare tra le cose positive la guerra anti-fascista e l'industrializzazione del paese, compiuta in pochi anni, sia pure spesso con brutalità. L'altro suo grande merito fu lo strappo con l'Urss. Oggi è forse sottovalutato, eppure fu l'inizio della caduta del comunismo. Ma oggi Tito è attaccato da tutti: gli sloveni lo hanno rimosso, i serbi lo considerano un nemico del loro nazionalismo, i croati un nemico per il loro anti-comunismo. Anche se lo definiscono 'un grande croato'...

Compagno Tito modifica

Incipit modifica

Logora e tuttavia inconfutibile è l'affermazione che l'uomo è un miscuglio di qualità «angeliche» e «demoniache». Aggiungerei, dal momento che siamo partiti da quest'affermazione, che l'uomo non sa (o erra) quando in lui predomina l'una o l'altra di queste due nature. Più verosimilmente, nella stragrande maggioranza dei casi entrambe agiscono all'unisono in modo tale che la prima serve della seconda, e la seconda si giustifica con la prima. (p. 7)

Citazioni modifica

  • Josip Broz Tito era una figura in cui non trovavano espressione talenti particolari, eccezion fatta per quello della politica.
    Ma quest'affermazione, per quanto esatta, potrebbe creare confusione e indurre a conclusioni errate, in mancanza di un'analisi più diffusa e concreta.
    In primo luogo, Tito era dotato di un'intelligenza straordinariamente acuta e rapida e di una capacità di concentrazione assai forte e selettiva. La stessa caratteristica ho avuto modo di rilevare in Stalin, il cui intelletto era però più prudente, anche se non più lento, e la capacità di concentrazione ancor più vivace e omogenea. (p. 11)
  • La cultura di Tito era limitata, né del resto avrebbe potuto essere altrimenti, dati i suoi scarsi studi scolastici: aveva frequentato le elementari, poi era andato a fare l'apprendista fabbro. Tuttavia, sapeva assai di più di quanto poteva aver appreso da così ridotti studi; tra i comunisti che ho conosciuto, e molti di essi erano assai intelligenti, Tito, dopo la prigionia, lavoro clandestino e rivoluzioni, spiccava per l'abbondanza delle conoscenze e soprattutto per la rapidità e l'acutezza mentali. Afferrava subito il punto centrale dei problemi, sebbene mancasse di nozioni in molti campi, soprattutto letteratura, arte e filosofia. (p. 12)
  • Quale fosse l'entità delle sue conoscenze in campo militare, è certo che non possedeva il talento di un comandante di eserciti, né del resto poteva averlo, a causa sia del temperamento impetuoso e nervoso, sia dell'eccessiva preoccupazione per la sua sicurezza personale. Troppo spesso emanava ordini contraditori, mutava direttive, spostava grandi unità in pieno contrasto con l'andamento dei combattimenti, irretendosi in problemi irrilevanti. Le tre massime, decisive battaglie, nel corso delle quali esercitò personalmente il comando, rivelano chiaramente deficienze ed errori che un comandante più deciso ed esperto avrebbe senz'altro evitato. (p. 20)
  • Se fosse vissuto in tempi di pace e di scarsa ideologia, sarebbe diventato un sindacalista o un imprenditore, un padre autoritario, un marito dispotico. (p. 31)
  • In Stalin noi vedevamo l'erede di Lenin, il vero rappresentante dell'unica forma di comunismo da noi ritenuta giusta. La dedizione a Lenin, alla rivoluzione e al comunismo, e l'espressione «stalinismo» non veniva usata per il semplice fatto che avrebbe significato un distacco tra Stalin e Lenin. (p. 55)
  • Eravamo fieri della nostra fede in Stalin, del nostro indefettibile bolscevismo. Essere un bolscevico costituiva il supremo ideale per ogni membro del partito, e ai nostri occhi Stalin rappresentava l'incarnazione di tutto quanto questo significava. (p. 61)
  • Se si sottoponesse Tito a un'analisi dottrinale in chiave comunista, egli si rivelerebbe (più per il suo stile di vita regale che per l'autocratismo) uno dei governanti più contraddittori e meno comunisti. Ciononostante - e a vero dire proprio per questo - è stato uno dei leaders di maggior successo. E non basta: il suo ricordo, sebbene non sia certo colorato di rosa agli occhi di molti di molti comunisti, non susciterà l'orrore e le maledizioni che accompagnano il nome di Stalin. (p. 69)
  • Tito era per sua natura un uomo d'azione: frasi vuote, grandi discorsi, riunioni, gli riuscivano estranei e insopportabili, se non in situazioni fuori dall'ordinario, quando fossero mezzi per l'azione politica. (p. 71)
  • A differenza della maggior parte dei capi comunisti, in particolare Stalin, che con l'ausilio della sua inavvicinabilità dentro le mura del Cremlino sottolineava l'enigmaticità della sua onniscienza e onnipotenza, Tito partecipava con frequenza a comizi, visitava cantieri, godeva delle manifestazioni popolari. (p. 88)
  • Esteriormente, per via delle decorazioni e di molti altri aspetti, i dittatori comunisti somigliano ai fascisti. Probabilmente, nella loro psiche e nella loro mentalità è all'opera lo stesso impulso irresistibile all'autoaffermazione e al dominio personale. Ma la differenza va cercata nella maniera con cui quest'impulso viene soddisfatto. Movimenti e capi comunisti sorgono dalle rovine dei vecchie strutture e di sogni primordiali: da essi trae alimento la loro forza, permettendo il ringiovanimento e la trasformazione delle forme.
    Col comunismo si sono manifestate nuove forme e nuovi imperi: il comunismo lascerà tracce profonde e sopravviverà ai vari stati comunisti, persino all'Unione Sovietica. Ben diversamente stanno le cose col fascismo. Tralasciando qui le differenze sostanziali tra fascismo italiano e nazionalsocialismo tedesco, mi limito a notare come a tutti i fascismi sia comune il proposito di mutare i rapporti politici ma di conservare intatti quelli sociali. Lo «stile di vita» del fascismo è quello del caos e delle frenesia, lo stile di vita del comunismo è contesto di coercizione e proibizione; il primo ha carattere temporaneo, il secondo duraturo. I dittatori fascisti sono scomparsi con il crollo delle grandi potenze fasciste, Italia e Germania: gli attuali dittatori dell'America Latina, dell'Africa e di altrove, sono semplicemente i capi di apparati militari corrotti, che invano si sforzano di «edificare» un'ideologia e un movimento di massa a difesa dei loro privilegi oligarchici e di forme superate. (p. 92)
  • I re sono uomini come tutti gli altri: rari sono, anche tra loro, quelli che hanno una natura da capi e da autocrati. Insieme alla corona, i sovrani ereditano anche un'etichetta, tradizioni e limiti, con la conseguenza che non sono numerosi tra loro quelli che mostrano tendenze a governare in maniera davvero regale, da monarca assoluto. E, per quanto riguarda la signoria assoluta, molti re potrebbero invidiare Tito, e più di un sovrano l'ha anche fatto. Se ne suo stile e nelle sue maniere qualcosa non sembrava regale, andava attribuito alla sua origine sociale e alla sua scarsa istruzione. Tito non fondò una dinastia perché era un uomo politico abile e dotato: i comunisti non l'avrebbero approvato, il popolo avrebbe addirittura voltato le spalle a questo suo nuovo re.
    E del resto, una corona non era più necessaria: Tito era comunque un signore assoluto, e proprio in quanto tale era fatto oggetto di onori e deteneva un potere, quali i re odierni neppure si sognano. (pp. 150-151)
  • In quanto comunista, Tito era ateo; ma non lo era come qualsiasi altro comunista. Voglio dire che il suo ateismo non è mai stato militante, che in lui non assumeva l'espressione di una convinzione meditata e implacabile, che mai appariva bellicoso, mobilitatorio. L'ateismo era per lui una faccia dell'ideologia, e quando capitava che Tito lo traducesse in pratica non si spingeva al di là di una regolamentazione dei rapporti con la Chiesa tale per cui lo stato conservasse il predominio o per lo meno non ne venisse minacciato e leso. Tito non credeva in nessun Dio, in nessun messia. (p. 171)

Citazioni su Milovan Gilas modifica

Note modifica

  1. a b Citato in È una guerra senza senso ma inevitabile, Repubblica.it, 18 agosto 1991
  2. a b Citato in All'ombra di Tito il grande, Repubblica.it, 22 luglio 1993

Bibliografia modifica

  • Milovan Gilas, Compagno Tito, traduzione di Francesco Saba Sardi, Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano, 1980.

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