Kṣemarāja

filosofo indiano

Kṣemarāja (X – XI secolo), filosofo indiano.

Citazioni di Kṣemarāja

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  • Uno yogin la cui coscienza ordinaria sia ben raccolta nel cuore e che non abbia alcun'altra preoccupazione, grazie a una presa di coscienza priva di dualità (avikalpa), si dedica interamente alla contemplazione della propria coscienza in quanto Soggetto cosciente liberato dal corpo e dagli altri limiti. E così che, sempre vigile, assorbendosi nel Quarto stato e in quello che ne è al di là, pone fine al pensiero dualizzante e acquista a poco a poco la sovranità. (commento a Pratyabhijñā[1] 4.1.11)[2]

Pratyabhijñāhṛdayaṃ

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  • La Coscienza è libera nel causare l'evoluzione dell'universo. (1)
Citiḥ svatantrā viśvasiddhihetuḥ[3]
  • Con la sua stessa potenza [la Coscienza] dispiega l'universo su sé stessa come su una parete. (2)
svecchayā svabhittau viśvam unmīlayati[3]

Śivasūtravimarśinī

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Ciò da cui l'insieme dei Rudra e dei 'conoscitori del campo' scaturisce e in cui si trova riposo, quello che è il supremo principio, quella realtà il cui sfolgorare è la sostanza del tutto, che costituisce essa stessa l'universo intero in tutta la sua vastità, è la Coscienza (caitanya) del Benigno. Ad Essa sia lode. Sua natura è l'energia vibrante (spanda) che da nulla è trascesa, traboccante d'ambrosia, massa compatta di libertà e di beatitudine. In sé non duale, si manifesta nel segno della dualità.
Avendo constatato l'inadeguatezza dei commentari agli Śivasūtra, attenendomi alla tradizione dei maestri li illustrerò in quest'opera, secondo verità.[4]
[Kṣemarāja, Śivasūtravimarśinī; in Vasugupta, Gli aforismi di Śiva, con il commento di Kṣemarāja, a cura e traduzione di Raffaele Torella, Mimesis, 1999]

Citazioni

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  • L'attività del percepire (dell'"avere coscienza di") si estende senza eccezione ad ogni realtà, poiché non può darsi esistenza di alcunché nell'universo che non sia oggetto di coscienza. [...] Coscienza, che qui ha il significato di relazione con l'illimitata attività cognitiva, è lo stesso che libertà assoluta. Tale libertà è soltanto del supremo Śiva. (comm. a I.1; 1999)
  • Permeata di questa triplice maculazione, la natura del multiforme conoscere, di cui si è detto, risulta così fondata su una erronea convinzione di limitatezza, sulla visione di una realtà conoscibile differenziata e su latenze karmiche buone o cattive. La Potenza che presiede a tale conoscere è la Mātṛkā – la 'madre sconosciuta' – formata dall'insieme dei fonemi da A a Kṣ, la generatrice del tutto. (comm. a I.4; 1999)
  • Lo slancio della coscienza che è per sua natura espansione e consapevolezza riflessa, l'emergenza dell'intuizione suprema come un improvviso erompere: Bhairava non è altro che questo. (comm. a 1.5; 1999)
  • Come uno che vede una cosa fuori dall'ordinario prova un senso di stupore, così il sentimento dello stupore, nel godere del contatto con le varie manifestazioni della realtà conoscibile, continuamente si produce in questo grande yogin con tutt'intera la ruota dei sensi, sempre più dispiegata, immota, pienamente dischiusa, in forza della penetrazione nella sua più intima natura, unità compatta di coscienza e di meraviglia (camatkāra) sempre nuova, estrema, straordinaria. (comm. a I.12; 1999)
  • La Conoscenza è il rivelarsi della suprema non-dualità. (comm. a II.3; 1999)
  • Quello che è il corpo – materiale, sottile, ecc., – da tutti consacrato come il soggetto conoscente, quello appunto è per il grande yogin, l'offerta sacrificale, deposta nel supremo fuoco della conoscenza. Per questo grande yogin, infatti, la qualifica di soggetto conoscente spetta alla coscienza sola ed egli è permanentemente compenetrato in tale convinzione, avendo cessato di identificare la soggettività con il corpo. (comm. a II.8; 1999)
  • Tale assenza di discernimento è Māyā, la proliferazione che è fondata sulla non percezione della vera realtà. (comm. a III.3; 1999)
  • Per lo yogin divenuto simile a Śiva, nel modo che si è detto – il cui esistere è improntato alla modalità del suo riconoscersi come Śiva – l'essere, il sussistere della forma corporea costituisce l'osservanza religiosa. Un'osservanza da praticare rigorosamente, intenti ad un supremo atto di adorazione, ininterrotto, che altro non è se non la continua consapevolezza della propria intima natura. (comm. a III.26; 1999)

Spandanirṇaya

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  • L'oggetto ultimo di venerazione di ogni scuola teistica non differisce dal principio Spanda. La varietà della meditazione è dovuta solo alla libertà assoluta di Spanda.[5]
  • La sua vera natura [ di Spanda] è la manifestazione di espansione e contrazione del soggetto percipiente e dell'oggetto percepito, che rappresentano l'intera creazione, pura e impura.[6]
  • Tutte le cose sono manifeste perché non sono altro che manifestazione. Il punto è proprio che nulla è manifesto separatamente dalla manifestazione.[7]
  1. Pratyabhijñā o Īśvarapratyabhijñākārikā, opera di Utpaladeva.
  2. Citato in Lilian Silburn, La Kuṇḍalinī o L'energia del profondo, traduzione di Francesco Sferra, Adelphi, 1997, p. 70. L'opera non è specificata.
  3. a b Da Ksemaraja: Pratyabhijnahrdaya, Dipartimento di Studi Orientali, DSO – Sanskrit Archive, uni-goettingen.de.
  4. La Śivasūtravimarśinī è il commento agli Śivasūtra, opera di Vasugupta.
  5. Citato in Mark Dyczkowski 2013, p. 146.
  6. Citato in Mark Dyczkowski 2013, p. 118.
  7. Citato in Mark Dyczkowski 2013, p. 80.

Bibliografia

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  • Mark Dyczkowski, La dottrina della vibrazione nello śivaismo tantrico del Kashmir, traduzione di Davide Bertarello, Adelphi, 2013.
  • Kṣemarāja, Śivasūtravimarśinī; in Vasugupta, Gli aforismi di Śiva, con il commento di Kṣemarāja, a cura e traduzione di Raffaele Torella, Mimesis, 1999.

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