Il Gattopardo

film del 1963 diretto da Luchino Visconti
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Il Gattopardo

Immagine Il gattopardo.jpg.
Titolo originale

Le Guépard

Lingua originale italiano, francese, tedesco e latino
Paese Italia, Francia
Anno 1963
Genere storico, drammatico
Regia Luchino Visconti
Soggetto Giuseppe Tomasi di Lampedusa
Sceneggiatura Suso Cecchi D'Amico, Pasquale Festa Campanile, Enrico Medioli, Massimo Franciosa, Luchino Visconti
Produttore Goffredo Lombardo
Interpreti e personaggi
Note

Il Gattopardo, film italiano del 1963 con Burt Lancaster, Alain Delon, Claudia Cardinale e Paolo Stoppa, regia di Luchino Visconti.

Frasi modifica

  • Se non ci siamo anche noi, quelli ti combinano la repubblica in quattro e quattr'otto. Se vogliamo che tutto rimanga com'è, bisogna che tutto cambi. (Tancredi)
  • Uno degli ufficiali chiese: "Ma questi garibaldini che vengono a fare realmente in Sicilia?". "Vengono a insegnarci le buone creanze – risposi in inglese – ma non ci riusciranno, perché noi siamo dèi". Risero, ma non credo che capissero. (Don Fabrizio)
  • Noi fummo i gattopardi, i leoni. Chi ci sostituirà saranno gli sciacalli, le iene. E tutti quanti, gattopardi, leoni, sciacalli e pecore, continueremo a crederci il sale della terra. (Don Fabrizio)
  • O Stella, o fedele stella, quando ti deciderai a darmi un appuntamento meno effimero, lontano da tutto, nella tua regione di perenne certezza? (Don Fabrizio)
  • [A padre Pirrone] L'amore? già, certo, l'amore... Fuoco e fiamme per un anno, e cenere per trenta. (Don Fabrizio)
  • Ma che volete da me? Sono un uomo vigoroso. E come posso accontentarmi di una donna che a letto si fa il segno della croce prima di ogni abbraccio, e che dopo non sa dire che «Gesumaria»? Sette figli ho avuto da lei. Sette. E sapete che cosa vi dico, padre? Non ho mai visto il suo ombelico. Eh? È giusto questo? Lo chiedo a voi, padre: è giusto? È lei la peccatrice! (Don Fabrizio)

Dialoghi modifica

  • Don Fabrizio: Sono un esponente della vecchia classe, fatalmente compromesso con il passato regime, e a questo legato da vincoli di decenza, se non di affetto. La mia è un'infelice generazione, a cavallo tra due mondi e a disagio in tutti e due. E per di più, io sono completamente senza illusioni. Che se ne farebbe il Senato di me, di un inesperto legislatore cui manca la capacità di ingannare se stesso, essenziale requisito per chi voglia guidare gli altri? No Chevalley, in politica non porgerei un dito, me lo morderebbero.
    Chevalley: Principe, non posso crederlo, ma proprio sul serio lei rifiuta di fare il possibile per alleviare lo stato di povertà materiale e di cieca miseria morale in cui giace il suo stesso popolo?
    Don Fabrizio: Siamo vecchi, Chevalley. Molto vecchi. Sono almeno venticinque secoli che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche ed eterogenee civiltà. Tutte venute da fuori, nessuna fatta da noi, nessuna che sia germogliata qui. Da duemilacinquecento anni non siamo altro che una colonia. Oh, non lo dico per lagnarmi, è colpa nostra. Ma siamo molto stanchi, svuotati, spenti.
    Chevalley: Ma Principe, tutto questo adesso è finito. La Sicilia non è più una terra di conquista ormai, ma libera parte di un libero Stato.
    Don Fabrizio: L'intenzione è buona, però arriva tardi. Il sonno, caro Chevalley, un lungo sonno, questo è ciò che i siciliani vogliono. Ed essi odieranno sempre tutti quelli che vorranno svegliarli, sia pure per portare loro i più meravigliosi doni. E, detto tra noi, io dubito sinceramente che il nuovo regno abbia molti regali per noi nel suo bagaglio. Da noi ogni manifestazione, anche la più violenta, è un'aspirazione all'oblio. La nostra sensualità è desiderio di oblio. Le schioppettate e le coltellate nostre, desiderio di morte. La nostra pigrizia, la penetrante dolcezza dei nostri sorbetti, desiderio di immobilità voluttuosa, cioè ancora di morte.
    Chevalley: Principe... Principe, non le sembra di esagerare? Io stesso ho conosciuto a Torino dei siciliani che sembravano tutt'altro che dormiglioni.
    Don Fabrizio: Non mi sono spiegato bene, mi dispiace, Chevalley. Ho detto 'siciliani', dovevo dire 'Sicilia'. Quest'ambiente, la violenza del paesaggio, la crudeltà del clima, la continua tensione in ogni cosa...
    Chevalley: Ma il clima si vince, il paesaggio si può modificare, il ricordo dei cattivi governi si cancella. Io sono certo che i siciliani vorranno migliorare.
    Don Fabrizio: Non nego che alcuni siciliani, trasportati fuori dall'isola, possano riuscire a svegliarsi. Ma devono partire molto giovani, a vent'anni è già tardi, la crosta si è formata.
  • Chevalley: Se gli uomini onesti come lei si ritirano, la strada rimarrà alla gente senza scrupoli e senza prospettive. Appunto ai Sedara! E tutto sarà di nuovo come prima, per altri secoli. Ascolti la sua coscienza, Principe, e non le orgogliose verità che ha detto. Principe, la prego, cerchi di collaborare.
    Don Fabrizio: Siete un gentiluomo, Chevalley, e considero un privilegio avervi conosciuto. Voi avete ragione in tutto, tranne quando dite che i siciliani certo vorranno migliorare. Non vorranno mai migliorare perché si considerano perfetti. La vanità in loro è più forte della miseria.
  • Chevalley: Principe, anche se lei non ci crede, questo stato di cose non durerà. La nostra efficiente, moderna e agile amministrazione cambierà ogni cosa.
    Don Fabrizio: Non dovrebbe poter durare, ma durerà sempre. Il sempre umano, certo, uno o due secoli, e dopo tutto sarà diverso, ma sarà peggiore.

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