Giorgio Fornoni

giornalista italiano

Giorgio Fornoni (1946 – vivente), giornalista italiano.

  • [Su Anna Stepanovna Politkovskaja] A prima vista ho capito subito la sua determinazione, agiva come se non volesse perdere tempo. Da anni era la testimone più onesta e credibile sul fronte della guerra cecena. Non schierata politicamente, denunciava allo stesso modo i soprusi dei soldati russi e le violenze dei guerriglieri ceceni che continuano a fornire alibi alla repressione, attenta soprattutto a difendere la dignità dell’uomo e il rispetto per la vita.[1]
  • Essere giornalisti di prima linea in Russia vuole dire dover affrontare due prime linee: una è quella della guerra e un’altra quella del sicario che ti aspetta cinicamente con la pistola proprio nell’ascensore del tuo palazzo.[1]
Fornoni nel 2011

In ricordo di Andrey, l'attivista russo morto in Ucraina

Su Andrej Mironov, corriere.it, 26 maggio 2014.

  • Ho subito capito la sua forza d'animo e i suoi sentimenti per le ingiustizie e le sofferenze e soprusi che i deboli devono sopportare.
  • Con lui ho viaggiato in lungo e in largo per tutto l'ex impero sovietico, raccogliendo immagini e testimonianze di incredibile umanità. Lui mi ha fatto incontrare Gregory Pomeranc, amico di Solgenitsin e di Shalamov, grande testimone sopravvissuto ai gulag, ricavandone un documento importante trasmesso a Raitre. Lui mi ha accompagnato nei gulag più tristemente celebri, dalle isole Solovki alla Kolima, a Vorkuta, al Kazakistan. "Per non dimenticare", mi diceva, "e che la memoria non sia solo per la Shoah".
  • Camus scrisse: "Ho capito che non basta denunciare un'ingiustizia. Bisogna anche dare la vita per cambiarla" e Andrey questo l'ha fatto. Perciò grazie Andrey, per tutti i suggerimenti e tutto il lavoro che mi hai permesso ed aiutato a realizzare, eri un vero amico... mi mancherai.

Fornoni, 10 anni di viaggi in Russia e vederla diventare "Putinstan"

Intervista di Carlo Dignola, ilsussidiario.net, 27 marzo 2024.

  • Mironov era un punto di riferimento per molti giornalisti. Era davvero una miniera di conoscenze, ma più che altro aveva un animo sempre teso verso la giustizia, verso la dignità dell'uomo.
  • Come fai a raccontare le cose, a provare le sensazioni se le affronti da dietro la tua scrivania? Sarebbe come giocare con un puzzle, e non è nel mio carattere. Viaggiando, poi, incontri le persone, ho conosciuto tanti capi guerriglieri, uomini violenti e senza scrupoli ma anche tante persone straordinarie, per esempio questi giornalisti russi che sono dei veri eroi, perché lavorare in Russia vuol dire lavorare su due prime linee: una è il fronte della guerra, l'altra è il fatto che nella hall del palazzo dove abiti può arrivare uno, come è successo alla Politkovskaja, che ti mette a tacere. Ma non solo lei, Natalja Estermirova era un'altra grande giornalista, o Dmitrij Muratov, al quale nel 2021 è stato assegnato il Nobel per la pace. Poi ovviamente quelli dell'associazione Memorial, Nobel per la pace 2022, Oleg Orlov, attivista in difesa dei diritti umani, che ora è stato condannato a due anni e mezzo di carcere.
  • [«Lei come descriverebbe Putin?»] È un uomo che non è mai sceso a patti con nessuno. Già alla fine del 1999, quando Eltsin gli passò le leve del comando, ha cominciato subito con il pugno duro. Lui stesso ha sempre detto: "O con me o contro di me", e se non stavi dalla sua parte le cose diventavano difficili. Ai suoi soldati mandati a reprimere la rivolta dei ceceni disse: "Accoppateli nel cesso". Quanta cattiveria! Quando ci fu l'assalto al Teatro Dubrovka a Mosca, nel 2002, non volle scendere a patti, fece lanciare gas all'interno e sono morte centinaia di persone tra ostaggi, guerriglieri, donne kamikaze. Dopo c'è stata la strage della scuola di Beslan, dove un gruppo di 32 separatisti ceceni occupò l'edificio sequestrando 1.200 persone: finì con 300 morti. Anche lì il capo guerrigliero tentava di trattare, ma sono entrati con i lanciafiamme. La stessa cosa quando c'è stata l'invasione dell'Ossezia del Sud, o per l'Abkhazia: Putin vuole portare un po' tutte le ex repubbliche sovietiche di nuovo sotto il suo controllo, come è riuscito a fare con la Bielorussia, e all'inizio anche con l'Ucraina, con Janukovych.
  • Putin dice ai suoi: andate avanti, non ci interessa nulla di quello che pensano in Occidente. Per questo se mi chiedono quando arriveremo alla pace in Ucraina rispondo che è difficile con questo andamento. Se negli Stati Uniti dovesse essere eletto Trump, anche se io sono assolutamente contro le sue idee, penso che sia l'unico che potrebbe prima o poi sedersi a un tavolo con Putin: Biden non lo farà mai, né Zelens'kyj. E così va a finire che le guerre vanno avanti, e oltre a morire decine di migliaia di persone, oltre a esserci distruzione e profughi, fra qualche anno l'Ucraina non si troverà in una situazione migliore rispetto al 2022: Putin voleva la Crimea e la zona di Donetsk e voleva che il governo ucraino diventasse filo-russo, e forse questa è l'unica cosa che non otterrà. Non è un discorso facile però.
  • A Kol'cóvo c'è il centro di armi biologiche più grande al mondo, lì sono conservati gli stami di trecento agenti patogeni mortali, dal vaiolo al Marburg, potenzialmente capaci di distruggere l'intera popolazione mondiale. Poi ci sono le armi chimiche, sette depositi. Io ne ho visitato uno, il più grande, a Pochep, città al confine tra Bielorussia e Ucraina: l'Italia stessa ha stanziato 360 milioni di euro per il suo smantellamento. Putin dice di averlo dismesso ma non è così, non è stato smantellato nulla, lui ha ancora armi chimiche e le usa, lo abbiamo visto con l'assalto al Teatro Dubrovka.
  • La stampa e la televisione sono al 100% ormai in mano a Putin. La gente tante cose non le sa perché non vengono raccontate.
  • Naval'nyj è stato avvelenato in Germania, eppure quando è stato salvato ha voluto rientrare in Russia, sapendo come sono le carceri lì. Io ho visitato quelle di massima sicurezza per la mia inchiesta sulla pena di morte nel mondo: se finisci davanti ai tribunali o nelle carceri, in Russia non la passi liscia.
  • [«Perché Naval'nyj è rientrato in Russia?»] Non era un grande politico. Se avesse potuto concorrere per diventare presidente, non avrebbe vinto. Però sosteneva l'idea della libertà, l'idea straordinaria di riportare la democrazia.
  • Mironov mi raccontava che sotto [i bolscevichi] tutti dovevano essere uguali, se arrivavano in una casa dove c'era un gabinetto lo buttavano nel cortile perché tanti non se lo potevano permettere, e allora in nome dell'egualitarismo tutti dovevano farne a meno. Questo era il concetto che avevano del socialismo.
  • Un Paese straordinario, di grande cultura. Pieno di gente laureata, che non si può esprimere perché ha paura. Ma anche quando ho fatto il giro dei gulag, la Kolyma, le Isole Solovki, ho trovato gente che ama la propria terra, e reclama di poter vivere in un modo diverso. È un popolo abituato a soffrire, molto più di noi europei, capace di resistere a tutto. Bisogna tornare alla pace, l'Europa se vuole stare bene ha bisogno che finisca questa guerra in Ucraina, e ha bisogno anche delle ricchezze naturali della Russia, che è una miniera in tutte le materie prime.
  • Se mi dovessero chiedere dove vorrei vivere, in Cina, Russia o America sceglierei il mondo della democrazia, non ho dubbi. Però se dovessi scegliere per le qualità di un popolo, allora andrei in Russia. Ci sono persone di un'umanità straordinaria.

Putin, il gas e Zelensky: la guerra in Ucraina vista da Giorgio Fornoni

Intervista di Luca Barachetti, ecodibergamo.it, 30 marzo 2022.

  • [«Come lo conosce lei "lo zar"?»] Come una persona di grande cinismo. Cominciò a dimostrare di esserlo nel 1999, quando Eltsin lo nominò suo successore e iniziò a occuparsi della Cecenia per poi entrare a Grozny nel 2000 e usare da subito il pugno duro. [...] In lui c'era una cattiveria e un disprezzo totale. Dimostrò il suo cinismo anche nei confronti delle vedove dell'equipaggio del sottomarino Kursk che affondò nel mare di Barents e poi quanta cattiveria seppe usare nel teatro Dubrovka, rifiutandosi di trattare e gasando centinaia di persone, terroristi e non. E così avvenne anche per la scuola di Beslan, quando entrò con i lanciafiamme delle forze speciali, ammazzando quasi duecento bambini e più di trecento persone in totale.
  • Oggi riceviamo dalla Russia circa il 40%, quindi siamo fortemente dipendenti da Gazprom, controllata dal governo russo. Siamo arrivati a questa situazione perché l'ENI e i governi precedenti non hanno avuto la schiena dritta dinanzi alle pressioni di Putin. Quindi abbiamo fermato il progetto Nabucco, un gasdotto che portava gas dal Kazakistan e, attraverso il Mar Caspio, avrebbe attraversato l'Azerbaigian, la Turchia, la Bulgaria, la Romania, l'Ungheria e l'Austria, per poi arrivare in Italia senza transitare dalla Russia.
  • Gazprom vuol mantenere il monopolio del gas, quello sul territorio russo ma anche quello controllato attraverso altre partecipazioni, alcune con ENI, in Nigeria e Egitto. Pure il gas che arriva da Uzbekistan, Kazakistan, Tagikistan e così via per arrivare in Europa passa da condutture russe, bielorusse e ucraine. Il ministro dell'energia ucraino ha dichiarato che l'80% del gas russo passa dall'Ucraina, quindi uno dei motivi della guerra potrebbe anche essere quello di non lasciare troppa autonomia circa il gas a Kiev.
  • Ogni anno Gazprom guadagna più di 250 miliardi di dollari dalla vendita di gas all'Europa. Hanno riserve enormi, solo il giacimento di Urengoy contiene 750 miliardi di metri cubi di gas. Un terzo di tutto il gas russo. Da questi numeri si capisce quale sia la forza di Gazprom e come Putin abbia potuto permettersi di schierare circa 130 mila soldati ai confini ucraini e chiamare uomini anche dalla Siria e dalla Cecenia. Putin è molto armato.
  • Negli anni '90, dopo la caduta dell'URSS, era stato promesso che nessuno avrebbe "occupato" con la propria influenza le nuove repubbliche che nascevano dalla disgregazione dell'Unione Sovietica. Non è stato così e la NATO si è allargata di 1000 km a est. Al di là di quell'accadimento però sottolineo che Putin vuole ricompattare sotto la sua influenza le ex repubbliche sovietiche, a partire dai paesi baltici. È un rospo che non riesce a ingoiare, come non riesce ad accettare il nostro sistema democratico.
  • Biden doveva starsene zitto visto cosa l'America ha combinato in giro per il mondo. In Sudamerica, in Afghanistan dove sono morte 150 mila persone e con i talebani – che sono il 50% della popolazione afghana – non si è mai voluto trattare; in Iraq con la scusa falsa delle armi di distruzione massa, che lì non c'erano ma in Russia sì. Lo testimonia l'inchiesta che al tempo feci sulle armi di distruzione di massa: in Russia trovai sette grandi depositi a riguardo.
  • Zelensky per non fare uccidere la sua gente avrebbe dovuto sedersi subito al tavolo delle trattative e lasciare a Putin la Crimea e le repubbliche del Donetsk e del Luhansk. Per non arrivare ad una guerra avrei accettato anche questo, ma lui vuole mantenere l'integrità dell'Ucraina e quindi sarà difficile arrivare a un accordo. Che poi lui abbia saputo dare questa forza patriottica alla sua gente è una cosa straordinaria, però mi viene anche da pensare che se per un'idea devi portare a combattere e morire la tua popolazione, forse un pensiero in più ce lo devi fare. Lui è riuscito a portare dalla sua parte moltissima gente ucraina. Fa la voce grossa perché gli USA e l'Europa lo sostengono, tuttavia non può pensare di mantenere l'Ucraina integra. Putin non cederà.
  • [«Putin all'inizio ha giustificato l'invasione dell'Ucraina con l'intento di "denazificare" l'Ucraina, che all'interno del suo esercito ha i neo-nazisti della Battaglione Azov e ha reso Stepan Bandera un eroe nazionale.»]
    Non è una giustificazione valida per invadere uno stato autonomo come ha fatto fino ad oggi. Anche perché l'Ucraina non è una nazione nazista e dovremmo ragionare bene su cosa significa «nazismo» lì.

Putinstan modifica

  • Kolyma è il più famoso dei campi di sterminio dell'Urss, come Auschwitz per l'Europa, oltre che il massimo esempio dello sfruttamento di forza lavoro imposto da Stalin in tutte le isole dell'Arcipelago Gulag. (p. 50)
  • Il campo è recintato da tre giri di filo spinato arrugginito e all'interno sono visibili resti di miserabili baracche, costruite in legno e fango essiccato, accanto ai primitivi setacci delle miniere. Ovunque ci sono brandelli di vestiti, di stivali e scarpe di gomma; qua e là un guanto, un pentolino, lampade di latta, catenacci e qualche badile, primitivo attrezzo di lavoro, e ancora filo spinato. Tanto filo spinato. Sono le uniche testimonianze rimaste del passaggio di migliaia di disperati. (p. 50)
  • Le stagioni, alla Kolyma, sono due: l'inverno e la stagione del disgelo, che comprende primavera, estate e autunno. La vita sboccia e appassisce tra giugno e settembre, dopo arriva il grande freddo e tutto rimane prigioniero nella morsa del gelo. (p. 52)
  • Frequento le prime linee delle guerre del mondo o le situazioni dove l'uomo vive precariamente, perché è lì che dell'uomo trovo la vera dimensione. Non si bara a fare la guerra. La miseria non è costruita, è realtà. (p. 104)
  • Quando esisteva ancora l'immenso impero sovietico, la Siberia era off limits per gli stranieri. Oggi le cose sono teoricamente più semplici, ma in realtà è ancora un mondo sconosciuto. Un mondo difficile e inospitale, trasformato di volta in vola in lager per deportati politici, in terra di conquista in un'illusoria corsa al Far East dell'impero socialista, nel gelido scrigno minerario del regime. Tramontate tutte le illusioni, la Siberia è oggi semplicemente abbandonata a sé stessa: un tempo orgoglio dell'Armata rossa, oggi remoto avamposto militare destinato a diventare parte della pattumiera nucleare del mondo. (p. 107)
  • Da anni Anna Politkovskaja era la testimone più onesta e credibile sul fronte della guerra cecena: doveva gridare al mondo con la sua voce la tragedia dell'uomo che soffre, dei civili che, vittime senza colpa, hanno un unico torto se non quello di essere in Cecenia e di trovarsi a casa loro. (p. 119)
  • Il presidente della Repubblica cecena Ramzan Kadyrov è uno degli uomini più vicini a Putin ed è tra quelli che maggiormente spingono per l'utilizzo dell'arma nucleare contro l'Ucraina. Addirittura, nella guerra tra Russia e Ucraina, ha mandato al fronte anche i suoi due figli ancora minorenni. (p. 119)
  • Kadyrov ha ricostruito la capitale, ma ha anche spento qualsiasi sogno indipendentista ceceno con una politica di autentico terrore. (p. 119)
  • [Sulla battaglia di Groznyj] Era la fine di febbraio del 2000, al culmine di un lunghissimo inverno di bombardamenti aerei che avevano raso al suolo la città, con un'intensità che non si conosceva dai tempi dell'ultimo conflitto mondiale. In una Groznyj diventata una città fantasma si aggiravano pochi civili emersi dagli scantinati, poche migliaia di sopravvissuti dei seicentomila che abitavano la piccola e orgogliosa capitale cecena. Tutti gli altri o erano fuggiti o erano morti. I russi accusavano indiscriminatamente i ceceni di essere dei terroristi. E avevano risposto con il terrorismo sistematico, istituzionale. Avevano disseminato il terrore in ogni villaggio e città della Cecenia, colpevole soltanto di non voler rinunciare alla propria vocazione autonomista. (p. 120)
  • L'intervento armato esalta il patriottismo e funziona perfettamente per compattare il consenso su Putin, facendo dimenticare le tante lacune della democrazia russa. Il conflitto conosce una fase di brutalità mai vista prima. Putin aveva promesso la «soluzione finale» della questione cecena, quando si accingeva a soppiantare El'cin e a diventare l'interlocutore privilegiato dell'Occidente nella nuova Russia del libero mercato e della guerra globalizzata. E in Cecenia proprio di guerra totale e spietata si tratta. A danno dei civili, soprattutto. (pp. 121-122)
  • [Sulla battaglia di Groznyj] Nell'inverno del 2000, la capitale, Groznyj, viene bombardata a tappeto, senza alcuna distinzione tra obiettivi militari e civili. Sotto le bombe finiscono anche ospedali, scuole, centri commerciali, tutta l'ossatura economica e vitale del paese. Per mesi la vita si riduce a una lotta per la sopravvivenza, in quello che è ormai diventato un inferno da «day after». Centinaia di migliaia di profughi prendono la via delle montagne per l'Inguscezia e la Georgia. Mancano all'appello almeno duecentomila persone, vittime della guerra. Ed è ormai definitivamente sepolto anche il sogno indipendentista. (p. 122)
  • La non-interferenza dell'Occidente nell'offensiva russa – denunciano con forza i ceceni – è stato il premio al via libera concesso pochi mesi prima da El'cin ai raid aerei della Nato contro la Serbia. E non poco hanno contato la fame di gas e petrolio russo dell'Unione europea e l'interesse americano nell'equilibrio della paura nucleare. Dopo l'11 settembre, Putin è riuscito a trovare un nuovo alibi alla sua politico di fare terra bruciata in Cecenia. Ha convinto l'Occidente che i raid in Cecenia sono la versione russa della guerra al terrorismo islamico cavalcata da Bush e Blair. E che la sua è una nuova crociata contro l'integralismo. Perfino molti pacifisti occidentali si sono lasciati imbrogliare da questo gioco di illusionismo. (p. 122)
  • Sono tornato più volte sul fronte di questa guerra sporca a dimenticata. Sono uno dei pochi giornalisti che ha potuto testimoniare il prezzo pagato dalla città e dall'intero popolo ceceno al pugno duro di Putin e al silenzio del mondo. Dopo l'11 settembre 2001, l'equivalenza tra guerriglia indipendentista e terrorismo di matrice islamica sostenuta dalla nomenklatura russa ha trovato nuove ragioni. E l'offensiva contro i separatisti ceceni è stata ancora più ignorata, giustificata politicamente e coperta, nei media internazionali, dall'offensiva militare degli Stati Uniti contro l'Afghanistan e l'Iraq. (pp. 122-123)
  • C'è da chiedersi il perché di una sorta di censura internazionale sull'informazione dalla Cecenia. Non è vero che non si possa lavorare come giornalisti. Certo è difficile e pericoloso, ma in realtà nei miei viaggi ho incontrato tanti giovani reporter coraggiosi e con la voglia di raccontare ciò che ognuno può vedere sul posto. Il problema semmai è che ben pochi giornali e ancora meno network televisivi sono disposti a pubblicare le loro foto e i loro reportage. Evidentemente, parlare di ciò che succede in Cecenia è troppo scomodo, urta contro gli interessi della globalizzazione e contro l'ipocrita simpatia per Putin. (p. 126)
  • Ufficialmente, in Cecenia non è in corso una guerra, ma quella che i comandi russi definiscono un'«operazione antiterrorismo», in risposta agli attentati del settembre 1999 nel centro di Mosca e alle stragi del teatro Dubrovka e di Beslan, che hanno inaugurato il nuovo millennio. Ma la verità è che i russi hanno messo in campo i professionisti delle migliori unità speciali. E i crimini commessi ai danni dei civili hanno scatenato l'odio dei ceceni. La loro vera colpa è forse quella di non avere mai accettato la dominazione russa. Era così al tempo degli zar. Tra le due guerre mondiali, la Cecenia fu vittima delle purghe di Stalin e di un biblico esodo di popolazione. E la storia continua oggi, con quello che appare sempre più come un genocidio etnico-culturale ai danni di una popolazione che ha il torto di essere terra di frontiera tra due mondi apparentemente inconciliabili come l'Europa e l'Asia. Il prezzo pagato dalla piccola repubblica del Caucaso è stato altissimo e forse è ancora impossibile tradurlo nelle aride cifre della statistica. (p. 127)
  • Basta girare tra le tende dell'Inguscezia o nei campi profughi della valle del Pankisi, dove sono tornato nel 2003, per ascoltare testimonianze da brivido sulle atrocità dei russi a danno dei civili ceceni. Denunce, è il caso di gridarlo forte, che non hanno mai trovato eco e sostegno nemmeno all'interno delle Nazioni Unite e delle grandi agenzie umanitarie internazionali. (p. 129)
  • «Le tecniche del terrore sono le più diverse» mi confessa un ufficiale, anche lui con preghiera di anonimato. «Questa non è una guerra di generali, ma di colonnelli, visto che la sorte delle persone dipende dall'ufficiale che comanda la divisione. È lui che di fatto ha poteri di vita e di morte.» Il militare continua raccontando che i soldati russi tendono a considerare tutti i ceceni come dei nemici. Per questo è facile commettere crimini ai danni della popolazione civile. «Ti porto un esempio. Fermano un'autobotte per il trasporto di benzina, uccidono il conducente, ceceno, lo fanno saltare per aria, poi si dividono i soldi che gli hanno trovato addosso. È successo varie volte, non fa nemmeno più discutere nessuno.» (pp. 130-131)
  • [Su Antonio Russo] Era stato l'unico occidentale rimasto a Pristina durante i bombardamenti della Nato, venne barbaramente ucciso in Georgia, con il torace sfondato. Per rapina, si disse subito. Ma in realtà la tecnica usata è quella tipica dei killer del Kgb. E molti sono oggi convinti che Russo avesse le prove dell'uso di armi non convenzionali contro i civili ceceni da parte dei russi. Sarebbe stata questa la ragione della sua condanna a morte. (pp. 132-133)
  • [Sulla crisi del teatro Dubrovka] Molti dei terroristi-kamikaze, uccisi con il gas, erano donne. Volevo capire cosa spinge una donna, anche molto giovane, a imbottirsi di esplosivo e sedersi in mezzo al pubblico di un teatro, pronta a farsi saltare in aria. Ho scoperto così un lugubre mondo di vedove, sorelle e madri private dei propri figli. La vera ragione, forse, di quella strada senza futuro, alimentata dall'odio e dalla vendetta, che conduce alla scelta del terrorismo più disumano e brutale. [...] Anche tra gli uomini destinati alla morte da kamikaze, le motivazioni sembrano le stesse. Si sa che molti dei terroristi uccisi erano bambini all'epoca dei bombardamenti di Groznyj del 1994 e 1996, spesso gli unici sopravvissuti delle loro famiglie. La motivazione religiosa di matrice islamica, ben viva nel contesto palestinese e iracheno, qui non sembra entrarci per nulla. (pp. 133-134)
  • Riparto da Mosca con la sensazione che i crimini che sono stati commessi ai danni dei civili ceceni, territorio ufficialmente sotto il controllo dell'armata federale russa, non siano nemmeno paragonabili a ciò che ha fatto Milošević in Kosovo, che motivò l'intervento armato della Nato contro la Serbia. Confrontando il numero delle vittime civili, si potrebbe anzi concludere che il potere di Putin ne ha provocate probabilmente di più, adottando una politica che è più che giustificato definire «terroristica» ai danni della popolazione civile. (p. 136)

Note modifica

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Bibliografia modifica

  • Giorgio Fornoni, Putinstan. Come la Russia è diventata uno stato canaglia, Garzanti S. r. l., Milano, 2014, ISBN 978-88-3296-622-0

Altri progetti modifica

  1. a b Da Politkovskaja, la ferocia ritratta come in fotografia, L'eco di Bergamo, 19 settembre 2023.