Franco Basaglia

psichiatra e neurologo italiano (1924-1980)

Franco Basaglia (1924 – 1980), psichiatra e neurologo italiano.

Franco Basaglia (1979)

Citazioni di Franco Basaglia modifica

  • Aprire l'Istituzione non è aprire una porta, ma la nostra testa di fronte a "questo" malato...[1]
  • Ci sono sempre falsi profeti. Ma nel caso della psichiatria è la profezia stessa ad essere falsa, nel suo impedire, con lo schema delle definizioni e classificazioni dei comportamenti e con la violenza con cui li reprime, la comprensione della sofferenza, delle sue origini, del suo rapporto con la realtà della vita e con la possibilità di espressione che l'uomo in essa trova o non trova.[2]
  • Dal momento in cui oltrepassa il muro dell'internamento, il malato entra in una nuova dimensione di vuoto emozionale ([...]); viene immesso, cioè, in uno spazio che, originariamente nato per renderlo inoffensivo ed insieme curarlo, appare in pratica come un luogo paradossalmente costruito per il completo annientamento della sua individualità, come luogo della sua totale oggettivazione. Se la malattia mentale è, alla sua stessa origine, perdita dell'individualità, della libertà, nel manicomio il malato non trova altro che il luogo dove sarà definitivamente perduto, reso oggetto della malattia e del ritmo dell'internamento. L'assenza di ogni progetto, la perdita del futuro, l'essere costantemente in balia degli altri senza la minima spinta personale, l'aver scandita e organizzata la propria giornata su tempi dettati solo da esigenze organizzative che – proprio in quanto tali – non possono tenere conto del singolo individuo e delle particolari circostanze di ognuno: questo è lo schema istituzionalizzante su cui si articola la vita dell'asilo.[3]
  • È nel silenzio di questi sguardi che egli si sente posseduto, perduto nel suo corpo, alienato, ristretto nelle sue strutture temporali, impedito di ogni coscienza intenzionale. Egli non ha più in sé alcun intervallo: non c'è distanza fra lui e lo sguardo d'altri, egli è oggetto per altri tanto da arrivare ad essere una composizione a più piani di sé, posseduto dall'altro "in tutti i piani possibili del suo volto e in tutte le possibili immagini che di volta in volta possono derivare dai vari atteggiamenti che si possono cogliere". Il corpo perché sia vissuto è dunque nella relazione di una particolare distanza dagli altri, distanza che può essere annullata o aumentata a seconda della nostra capacità di opporsi. Noi desideriamo che il nostro corpo sia rispettato; tracciamo dei limiti che corrispondono alle nostre esigenze, costruiamo un'abitazione al nostro corpo.[4]
  • [La chiusura dei manicomi in tutta Italia] «È un fatto urgentemente necessario, se non semplicemente ovvio.[5]
  • In medicina, l'incontro tra medico e paziente si attua nel corpo stesso del malato. Questo corpo che si offre al medico per essere curato, non corrisponde al "corpo vissuto", al "corpo proprio", con tutte le modalità e le implicazioni soggettive ad esso inerenti, ma viene considerato dal medico nella sua nuda materialità ed oggettualità. Che il corpo visitato dal medico appartenga al soggetto specifico che lo vive e lo significa, ciò esula dalla finalità del rapporto che viene ad instaurarsi. Il soggetto, che pur è il significato di quel corpo sofferente, non viene preso in causa in questa relazione particolare, come se fosse mantenuto ad una certa distanza. In questo senso l'incontro tra medico e malato si attua attraverso un corpo anatomico che serve, contemporaneamente, come soggetto di indagine e come secondo polo del rapporto; si tratta cioè, di un incontro tra un soggetto ed un corpo cui non viene data altra alternativa oltre essere oggetto agli occhi di chi lo esamina. Estraneo dunque a quest'ultimo quanto al soggetto che lo significa, pur essendo insieme il momento cruciale e la finalità stessa della relazione.[6]
  • Io ho detto che non so che cosa sia la follia. Può essere tutto o niente. È una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia. Invece questa società riconosce la follia come parte della ragione, e la riduce alla ragione nel momento in cui esiste una scienza che si incarica di eliminarla. Il manicomio ha la sua ragione di essere, perché fa diventare razionale l'irrazionale. Quando qualcuno è folle ed entra in un manicomio, smette di essere folle per trasformarsi in malato. Diventa razionale in quanto malato. Il problema è come sciogliere questo nodo, superare la follia istituzionale e riconoscere la follia là dove essa ha origine, come dire, nella vita.[7]
  • ...l'istituzione manicomiale ha in sé, nel suo carattere violento coercitivo discriminante, una più nascosta funzione sociale e politica: il malato mentale, ricoverato e distrutto nei nostri manicomi, non si rivela soltanto l'oggetto della violenza di un'istituzione deputata a difendere i sani dalla follia; né soltanto l'oggetto della violenza di una società che rifiuta la malattia mentale; ma è insieme, il povero, il diseredato che, proprio in quanto privo di forza contrattuale da opporre a queste violenze, cade definitivamente in balia dell'istituto deputato a controllarlo. Di fronte a questa presa di coscienza, ogni discorso puramente tecnico si ferma. Che significato può avere costruire una nuova ideologia scientifica in campo psichiatrico se, esaminando la malattia, si continua a cozzare contro il carattere classista della scienza che dovrebbe studiarla e guarirla? L'irrecuperabilità del malato è spesso implicita nella natura del luogo che lo ospita. Ma questa natura non dipende direttamente dalla malattia: la recuperabilità ha un prezzo, spesso molto alto, ed è quindi un fatto economico- sociale più che tecnico-scientifico.[8]
  • La follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia, invece incarica una scienza, la psichiatria, di tradurre la follia in malattia allo scopo di eliminarla. Il manicomio ha qui la sua ragion d'essere.[9]
  • La nostra azione di rovesciamento ha avuto inizialmente questo significato: smascherare la violenza dell'istituzione psichiatrica, dimostrare la gratuità ed il carattere puramente difensivo delle misure repressive manicomiali, attraverso l'edificazione di una dimensione istituzionale diversa, dove il malato potesse gradualmente ritrovare un ruolo che lo togliesse dalla passività in cui la malattia, prima, e l'azione distruttiva dell'istituto, poi, lo avevano fissato. In questo senso l'avvio ad una nuova dimensione terapeutica doveva passare attraverso la distruzione della realtà manicomiale in quanto autoritario-gerarchico-repressivo-punitiva, per giungere a costituire un'istituzione dove la libera comunicazione fra malati, infermieri e medici avrebbe sostituito le mura e le sbarre, nell'azione di sostegno e di protezione per i malati.[6]
  • Nel nostro mestiere la finalità è quella di affrontare, – trovare la maniera di affrontare la contraddizione che noi siamo: oppressori ed oppressi, e che dinanzi a noi abbiamo una persona che si vorrebbe opprimere. Bisogna fare in modo che questo non avvenga. L'uomo ha sempre questo impulso, di dominare l'altro; è naturale che sia così. È innaturale quando si istituzionalizza questo fenomeno oppressivo. Quando c'è un'organizzazione che, approfittando dei problemi contraddittori, crea un circuito di controllo per distruggere la contraddizione, assolutizzando i due poli della contraddizione ora in un modo ora nell'altro. Noi rifiutiamo questo discorso. Noi diciamo di affrontare la vita, perché la vita contiene salute e malattia, e affrontando la vita noi pensiamo di fare la prevenzione. Pensiamo di fare il nostro mestiere: di infermieri, di sanitari, di medici.[10]
  • Per poter veramente affrontare la "malattia", dovremmo poterla incontrare fuori dalle istituzioni, intendendo con ciò non soltanto fuori dall'istituzione psichiatrica, ma fuori da ogni altra istituzione la cui funzione è quella di etichettare, codificare e fissare in ruoli congelati coloro che vi appartengono. Ma esiste veramente un fuori sul quale e dal quale si possa agire prima che le istituzioni ci distruggano?[11]
  • Quando entrai per la prima volta in una prigione, ero studente in medicina. Lottavo contro il fascismo e fui incarcerato. Mi ricordo della situazione allucinante che mi trovai a vivere. Era l'ora in cui venivano portati fuori i buglioli dalle varie celle. Vi era un odore terribile, un odore di morte. Mi ricordo di aver avuto la sensazione di essere in una sala di anatomia dove si dissezionano i cadaveri. Quattro o cinque anni dopo la laurea, divenni direttore di un manicomio e, quando entrai là per la prima volta, sentii quella medesima sensazione. Non vi era l'odore di merda, ma vi era un odore simbolico di merda. Mi trovai in una situazione analoga, una intenzione ferma di distruggere quella istituzione. Non era un problema personale, era la certezza che l'istituzione era completamente assurda, che serviva solamente allo psichiatra che lì lavorava per percepire lo stipendio alla fine del mese.[7]
  • Una favola orientale racconta di un uomo cui strisciò in bocca, mentre dormiva, un serpente. Il serpente gli scivolò nello stomaco e vi si stabilì e di là impose all'uomo la sua volontà, così da privarlo della libertà. L'uomo era alla mercé del serpente: non apparteneva più a se stesso. Finché un mattino l'uomo sentì che il serpente se n'era andato e lui era di nuovo libero. Ma allora si accorse di non saper cosa fare della sua libertà: "nel lungo periodo del dominio assoluto del serpente egli si era talmente abituato a sottomettere la sua propria volontà alla volontà di questo, i suoi propri desideri ai desideri di questo, i suoi propri impulsi agli impulsi di questo che aveva perso la capacità di desiderare, di tendere a qualcosa, di agire autonomamente. In luogo della libertà aveva trovato il vuoto, perché la sua nuova essenza acquistata nella cattività se ne era andata insieme col serpente, e a lui non restava che riconquistare a poco a poco il precedente contenuto umano della sua vita". L'analogia di questa favola con la condizione istituzionale del malato mentale è addirittura sorprendente, dato che sembra la parabola fantastica dell'incorporazione da parte del malato di un nemico che lo distrugge, con gli stessi atti di prevaricazione e di forza con cui l'uomo della favola è stato dominato e distrutto dal serpente. Il malato, che già soffre di una perdita di libertà quale può essere interpretata la malattia, si trova costretto ad aderire ad un nuovo corpo che è quello dell'istituzione, negando ogni desiderio, ogni azione, ogni aspirazione autonoma che lo farebbero sentire ancora vivo e ancora se stesso. Egli diventa un corpo vissuto nell'istituzione, per l'istituzione, tanto da essere considerato come parte integrante delle sue stesse strutture fisiche.[12]
  • Uno schizofrenico abbiente, ricoverato in una casa di cura privata, avrà una prognosi diversa da quella dello schizofrenico povero, ricoverato con l'ordinanza in ospedale psichiatrico. Ciò che caratterizzerà il ricovero del primo, non sarà soltanto il fatto di non venire automaticamente etichettato come un malato mentale "pericoloso a sé e agli altri e di pubblico scandalo", ma il tipo di ricovero di cui gode lo tutelerà dal venire destorificato, separato dalla propria realtà.[13]
  • Voce confusa con la miseria, l'indigenza e la delinquenza, parola resa muta dal linguaggio razionale della malattia, messaggio stroncato dall'internamento e reso indecifrabile dalla definizione di pericolosità e dalla necessità sociale dell'invalidazione, la follia non viene mai ascoltata per ciò che dice o che vorrebbe dire. La psichiatria non è stata che il segno del sovrapporsi della razionalità dominante su questa parola che le sfuggiva e la conferma – necessaria a questa razionalità – di una comunicazione impossibile. Dal razionalismo illuminista al positivismo si tratta sempre di una razionalità che definisce, suddivide e controlla ciò che non comprende e non può comprendere, perché lo ha oggettivato nel linguaggio della malattia, che è il linguaggio di una razionalità che "constata".[2]

Attribuite modifica

  • La malattia mentale non esiste.

[Citazione errata] Si tratta invece di una teoria di Thomas Szasz.[14]

Introduzione generale ed esposizione riassuntiva dei vari gruppi di lavori, corso di aggiornamento per operatori psichiatrici modifica

  • Dato il livello ridottissimo delle nostre conoscenze nel campo della malattia mentale (in particolare la schizofrenia, di cui conosciamo le diverse modalità di espressione, ma quasi nulla di ciò che riguarda l'eziologia), non possiamo continuare ad "accantonare" i malati in attesa di raggiungere una più approfondita comprensione di ciò di cui soffrono, aumentandone la sofferenza attraverso la reclusione e la segregazione; tentiamo invece di "accantonare" la malattia come vuota definizione e semplice etichettamento, cercando di creare una possibilità di vita e di comunicazione, tale da consentire insieme l'affiorare e il liberarsi di elementi in grado di darci qualche indicazione per l'indagine futura. Se la malattia resta coperta dalla malattia istituzionale, non si riuscirà ad uscire da questa totale identificazione che ci impedisce ogni possibilità di comprensione.
  • Ho chiesto vergognandomi, ad un mio collega inglese: – Cosa vuol dire istituzione?- Lui non sapeva darmi una risposta, si meravigliava molto della mia scarsa eleganza concettuale, in quanto gli inglesi pensano che gli occidentali siano molto più concettuali, molto più precisi nelle definizioni, mentre loro sono molto pragmatici, e guardandomi mi rispose in maniera pragmatica: "L'istituzione è …- guardandosi intorno – … Questa" indicandomi con le mani. Eravamo in una stanza di un manicomio. E così ho avuto l'illuminazione per cui ho capito che l'istituzione in quel momento eravamo noi due, là, in quel posto che era il manicomio, e quindi ho cominciato a capire che tutti quei discorsi che noi facevamo in quel momento erano discorsi che aprivano o chiudevano quest'istituzione, che eravamo noi due. Se noi facevamo dei discorsi di apertura, l'istituzione era una situazione aperta; se noi facevamo dei discorsi di chiusura l'istituzione era un'istituzione chiusa. Questo era il parlare, ma poi c'era anche il fare; cioè se il personale dell'istituzione la gestisce in maniera chiusa, mentalmente e praticamente, questa è un'istituzione chiusa; se fa il contrario è un'istituzione aperta.
  • S'inaugura un capitolo che porta ad una visione estremamente dialettica tra il dentro ed il fuori, dove il dentro non è riferito al dentro di un'istituzione chiusa, ma al dentro di noi; e il fuori al fuori di noi.

Citazioni su Franco Basaglia modifica

  • Non sembrava uno studente brillante. Nessuno dei suoi amici immaginava cosa avrebbe fatto nella vita. Mostrava timidezza nel parlare ma, al tempo stesso, aveva un modo bellissimo di ridere. Ricordo che all'università di Padova un giorno mi disse: sai, mi piacerebbe occuparmi dell'acqua. Come dell'acqua, dissi io. Sì, della cosa più elementare che conosca, replicò. Poi si iscrisse a medicina. (Alberto Ongaro)

Note modifica

  1. Da Lezione agli infermieri, Trieste 1979; citato in Salute mentale, altervista.org.
  2. a b Da Follia/Delirio in Scritti, 1982.
  3. Da La distruzione dell'ospedale psichiatrico come luogo di istituzionalizzazione, 1964.
  4. Da Corpo, sguardo e silenzio, 1965.
  5. 1° Congresso mondiale di psichiatria sociale, Londra, 1964. Citato in Daniele Zaccaria, Franco Basaglia, il medico, filosofo, umanista e rivoluzionario che ha abbattuto i muri dell’esclusione, Ildubbio.news, 18 marzo 2024
  6. a b Da Le contraddizioni della comunità terapeutica, 1970.
  7. a b Da Conferenze brasiliane, 1979.
  8. Da Morire di classe, 1969.
  9. Da Che cos'è la Psichiatria, 1967. Ristampa: Piccola biblioteca Einaudi, Torino, Einaudi, 1973.
  10. Da Lezione/conversazione con gli infermieri nel congedo da Trieste, 1979.
  11. Da Il problema della gestione, 1968.
  12. Da Corpo e istituzione, 1967.
  13. Da L'istituzione negata, 1968, Ristampa: Collana I Nani, Milano, Baldini Castoldi Dalai, 1998.
  14. Intervista di Sergio Dalla Val, in La Città del Secondo Rinascimento, aprile 2004; citato in Stefano Lorenzetto, Chi (non) l'ha detto, Marsilio Editori, 2019. ISBN 9788829703241

Bibliografia modifica

  • Franco Basaglia, Introduzione generale ed esposizione riassuntiva dei vari gruppi di lavori, corso di aggiornamento per operatori psichiatrici, Trieste, 1974.

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