Ettore Mo

giornalista, scrittore e viaggiatore italiano (1932-2023)

Ettore Mo (1932 – 2023), giornalista italiano.

Citazioni di Ettore Mo modifica

  Citazioni in ordine temporale.

  • [In riferimento alla vita come giornalista di guerra] Se tu vai avanti su questo itinerario della disperazione collettiva, diventa una tua disperazione personale. Io mi sono messo su una strada dalla quale, in qualche modo, non posso più uscire.[1]
  • Come si può riuscire a fermare un uomo disposto ad ammazzarsi?[2]
  • Sarebbe un guaio se l'inviato divenisse una razza in estinzione. L'alternativa è quella di schiacciare un bottone per ottenere tutte le informazioni. Ma è un'illusione quella di poter fare un reportage stando a tavolino, perché non senti l'odore delle cose.[2]
  • [In riferimento al proprio lavoro di giornalista di guerra] Visto il mestiere che faccio, dovrei finire all'inferno, dove troverei certamente storie particolari da raccontare.[3]
  • Non c'è niente di più di una guerra per raccontare il dolore e la crudeltà del genere umano. Nella guerra succede davvero di tutto, tutta la natura umana si rivela. Buona o cattiva che sia.[4]
  • [Sul giornalismo di guerra] Voi siete stati travolti da questa ondata di mezzi tecnologici che a un certo punto vi impediscono, nonostante tutta la vostra buona volontà di fare questo mestiere, vi impediscono, perché dite: basta schiacciare un bottone e hai tutta la storia, non so, dell'Etiopia o dell'Afghanistan nel giro di un paio di minuti.
    Ma se tu non vai, se non senti l'odore, anche di questo fiume[5], se tu non vai, la gente non ti crederà mai più, non sei credibile. La gente capisce se tu ci sei lì o non ci sei, basta alle volte un aggettivo, basta qualcosa, basta un particolare che non avresti potuto avere se non eri lì in quel momento. E allora adagio adagio il nostro giornalismo si svilisce. Diventa una cosa altamente tecnica, specializzatissima ma senza cuore, senza anima.[6]
  • Un giornalista deve essere prima di tutto un cronista, assolutamente un cronista.[4]

Da Il Leone (Gentile) del Panshir prima vittima del Terrore

Su Aḥmad Shāh Masʿūd, Corriere.it, 11 settembre 2001.

  • Una belva tutto sommato mansueta, il nostro eroe, che si aggirava nella valle natia, teatro di tutte le sue imprese, e poteva affermare poco prima di morire di «non aver mai giustiziato un prigioniero né aver mai dato ordine di farlo». Massud rimaneva perennemente inchiodato sui monti e nelle trincee del suo Panshir. Ed era proprio lassù che dovevi andare, se volevi incontrarlo.
  • Ricordo un giovane piuttosto schivo e taciturno, un volto pallido affilato, gli occhi grandi e scuri quasi sempre offuscati da un velo di malinconia. Niente di altero o d'autoritario nella sua persona, sapeva imporsi grazie alla sua forza interiore, impartiva ordini quasi senza parlare, gli bastavano gli occhi e un gesto sbrigativo nella mano per dire ai suoi ragazzi cosa fare, dove andare.
  • Diversamente da Osama bin Laden e da Gulbuddin Hekmatyar che continuano a sognare la restaurazione di una teocrazia islamica che giustifica, anzi incoraggia i kamikaze a immolarsi per la «causa di Allah», Ahmad Shah Massud non ha mai assecondato questo genere di esaltazioni mistiche. Pur facendo parte di un partito fondamentalista – lo Jamiat-i-Islami, che fa capo a Rabbani – è rimasto per indole nel solco della moderazione, dove la ragione ha il predominio. Non si faceva scrupolo nell'ammettere che nel suo eventuale governo si sarebbe fatto spazio alle donne e avversava apertamente i talebani che le volevano mummificare nel chador e nel burqa. Visitando il santuario di Sareeka, un anno dopo la sua morte, ho avuto l'impressione che benché s'inginocchiasse cinque volte al giorno come vuole la tradizione islamica, il suo sguardo si rivolgesse più alle cose terrene che a quelle celesti.

Note modifica

  1. Citato in Milena Gabanelli, Professione Reporter, 1996; in Indro Montanelli - Gli anni della televisione 4: Io sono soltanto un giornalista, a cura di Nevio Casadio, Rai Sat, 2009.
  2. a b Dall'intervista di Maria Antonietta Trupia, Una camicia macchiata di sangue, Italialiberi.net, 28 giugno 2004.
  3. Dall'intervista di Antonio Gregolin, Mo: Ottant'anni da inviato speciale, Storie Credibili.it, 2012.
  4. a b Dall'intervista di Luigi Baldelli, Il Reportage, n. 24, 1º dicembre 2015.
  5. Il fiume Kabul. Cfr. Il cane Patàn e altre storie, p. 57.
  6. Citato in Angelo Figorilli, Il cane Patàn e altre storie, prefazione di Luigi Celli, Edizioni interculturali, Roma, 2005, p. 58. ISBN 88-88375-85-6

Altri progetti modifica