Ernesto Ferrero

scrittore, critico letterario e traduttore italiano (1938-2023)

Ernesto Ferrero (1938 – 2023), scrittore e critico letterario italiano.

Ernesto Ferrero nel 2017

Citazioni di Ernesto Ferrero

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La Stampa, 9 aprile 1977.

  • Proprio perché «datato» il romanzo offre una quantità di dati preziosi sulla cultura vittoriana, e si apre generosamente ad analisi strutturali e psicoanalitiche di qualche utilità.
  • Dracula non è soltanto una ininterrotta serie di metafore sessuali, complesse quanto i rapporti laboriosi che intercorrono tra i vari personaggi; ma anche la metafora dell'atteggiamento della nuova psichiatria nei confronti della follia e del «diverso». Non a caso uno dei protagonisti del romanzo è il direttore di un ospedale psichiatrico, il dottor Seward, e il regista della crociata contro Dracula è un neurologo, il dottor van Helsing. Non a caso tra le «comparse» più autenticamente inquietanti c'è un malato proclamato folle che si comporta, dal suo punto di vista, con estrema coerenza. Le misure che i personaggi «buoni» prendono nei confronti del vampiro e dei suoi adepti, a partire dall'impalamento di Lucy, sono gli stessi violenti sistemi coercitivi della psichiatria ufficiale che, pretendendo di razionalizzare il sistema manicomiale, finiva per migliorarne soltanto la qualità repressiva e custodialistica.
  • Lungi dall'incutere orrore, il conte vampiro incarna il personaggio patetico e disperato di un «deviante» abbastanza innocuo, la cui unica cattiveria consiste nell'approfittare della distratta disponibilità di vittime che vogliono essere tali. Il vero orrore sta dall'altra parte, nell'ipocrisia degli inibiti, negli psichiatri che maneggiano l'aglio, il paletto e il crocifisso.

La Stampa, 10 marzo 1979.

  • [Su Nosferatu, il principe della notte] Alle trascrizioni filmiche Dracula è abituato, Herzog lo tratta meglio di tanti altri, rifacendosi al leggendario film espressionista di Murnau, lavorando il vampiro con i filtri dell'ironia, ma anche riconoscendogli una sua dolente dignità di dannato, e inventando un finale che è una interpretazione acuta e legittima di un testo tutt'altro che acuto: Dracula non può morire perché non ha mai amato, non si è mai realizzato attraverso l'amore. Offrendosi a lui sino all'alba, Mina consuma l'annientamento, fa trionfare le ragioni della società civile, e insieme restituisce il mostro a una sorta di dolorosa compiutezza di uomo.
  • Dracula attende ancora il suo Foucault o il suo Barthes, e continua a funzionare come un trovarobato di effettacci per sceneggiatori a corto di idee.
  • Il fatto è che Dracula non è un gran romanzo, e non è nemmeno, ad onta delle apparenze e della materia neoromantica e cimiteriale di cui tratta, un romanzo «nero» e «gotico», che richiede ben altre cattiverie e suggestioni. Ma non per questo il libro è meno interessante, ché anzi si presenta come un gigantesco lapsus freudiano. Stoker è un tipico narratore positivista: non evoca, ma dettaglia dimostra quantifica; non esplora gli abissi dell'inconscio, non si abbandona ai pericoli di un viaggio che può anche essere senza ritorno, ma mette in atto astuzie da impresario teatrale che conosce da tanti anni il mestiere.
  • Come un eroe di Bataille, Dracula non fa che anticipare un'equazione quella tra Eros e Thanatos, che nel Novecento sarebbe diventata ovvia; porta alle estreme conseguenze la violenza che è implicita nell'erotismo, e ci obbliga a riconoscere – come i libertini filosofi di Sade – che i vertici del piacere coincidono con i rituali della violazione.
  • Le misure che i «buoni» prendono contro Dracula e i suoi adepti portano sul piano simbolico i violenti sistemi della psichiatria ufficiale, lanciata a «razionalizzare» il sistema manicomiale: paletti nel cuore, taglio della testa e aglio in bocca. Avesse potuto, il dottor Van Helsing avrebbe sottoposto volentieri quel paranoico patetico e disperato che è il vampiro all'elettroshock. Tutto gli sarebbe passato per la mente, meno che andarsi a leggere un'operetta uscita quasi insieme alla storia di Dracula: L'interpretazione dei sogni, opera di un giovane e ambizioso collega ebreo che lavorava a Vienna.

La Stampa, 3 gennaio 1997.

  • Come la Creatura del dottor Frankenstein, [il Conte Dracula] è un ibrido nato in laboratorio, dopo una notte d'incubo (pare che Stoker avesse fatto indigestione di una zuppa di gamberi all'ungherese). I Carpazi non c'entrano, con buona pace di Ceausescu e dei romeni, che hanno cercato di trasformare il conte in attrazione turistica: resta un personaggio rigorosamente e inconfondibilmente made in England, come il whisky, il tweed, le pipe Dunhill e tutte le buone cose che si comperano da Harrod's.
  • Personaggio umbratile e complesso, Dracula è figlio della repressione vittoriana e della presunzione positivista, il simbolo in cui si intrecciano Eros e Thanatos, Trasgressione e Controllo Sociale, Libido e Sublimazione, Immortalità e Necrofilia, Desiderio e Paura, Scientismo e Irrazionalità.
  • Vero artista post-moderno, [Bram Stoker] ha giocato con una quantità di materiali abbondanti, ma al contrario dei post-moderni, sempre un po' freddi e gratuiti, ha toccato qualcosa di vero e profondo, se è vero che da un secolo alimenta un fiume di film, libri, fumetti, gadgets, convegni, studi specialistici e divulgazioni di grana grossa. Perché è chiaro che c'è un Dracula in ognuno di noi.
  • Vlad l'Impalatore è un macellaio sadico, Dracula è un artista. A fine millenio, è lui a dirci che la Letteratura è ancora una cosa seria anche quando sembra voglia soltanto divertire.

Incipit di alcune opere

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I migliori anni della nostra vita

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"È l'uomo più intelligente che abbia mai conosciuto. Un genio. Un capitalista di tipo speciale. Non accumula profìtti. Accumula qualcosa di più importante, di più duraturo. Accumula prestigio." Il treno correva nella notte verso Roma. Dopo Livorno, verso Castiglioncello, brandelli di mare nero e ciuffi di pini, corolle di luci tremule schizzavano all'improvviso fuori delle gallerie. Stavamo in piedi nel corridoio, a parlare. Ascoltavo con devozione la voce di Giulio Bollati che mi svelava i se-greti dell'Olimpo di via Biancamano, in cui ero stato appena ammesso. Era la primavera del 1963.

[Ernesto Ferrero – I migliori anni della nostra vita – Edizioni Feltrinelli]

L'anno dell'indiano

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Rideva. Rideva con tutto se stesso, il petto, i muscoli, le viscere, ogni intima fibra. Rideva della contentezza di esistere e di essere amato. Rideva per conto del mondo, anche di quelli che al riso non vogliono abbandonarsi. Era un riso d'artista e d'atleta, insieme convulsivo e armonico, animale e filosofico, spontaneo e riflessivo. Ogni volta sembrava che eseguisse la sua risata come il trapezista il salto mortale, o il discobolo il lancio dell'attrezzo. Dopo ogni risata si guardava in giro per controllare se il suo numero aveva avuto successo.
Adesso è facile capire che era teatro, lo spettacolo messo in scena per noi, gli italiani del 1924, il suo pubblico adorante. Che importa? Possiamo rinunciare a tutto, non alla nostra antica fame di favola, d'incantamento. Il burattinaio americano ci ha nutrito per un anno intero. Ci ha divertito, rallegrato, esaltato. Cos'altro dobbiamo chiedergli? Quanti altri sono stati altrettanto generosi con noi?

[Ernesto Ferrero – L'anno dell'indiano – Giulio Einaudi Editore]

Lezioni napoleoniche

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Il busto di marmo candidissimo di Napoleone troneggiava nel giardino della villa di mio nonno, a Diano Marina, sotto l'alto ombrello dei pini, tra le siepi di mortella e di pittosforo. Era il volto di un dio greco, composto e rilassato. Libero dalle servitù del tempo e dalle miserie degli uomini comuni, spirava bellezza, serenità, fermezza. L'anonimo scultore aveva fatto un buon lavoro. L'imperatore ne sarebbe rimasto contento, anche se diceva di non amare i ritratti troppo stilizzati o abbelliti. Gli occhi di marmo guardavano lontano, sollecitavano l'ammirazione e il rispetto. Anche un bambino poteva capire che a quell'uomo misterioso nulla riusciva impossibile, che il miracolo era il suo mestiere.

[Ernesto Ferrero – Lezioni napoleoniche – Arnoldo Mondadori Editore]

Stava seduto al tavolo dello studiolo, di traverso. Sprimacciava con irritazione le carte che il generale Drouot gli aveva passato, il budget del 1815, come se tra quelle si fosse nascosto uno scarabeo o un cerambice, entrato per caso dalla finestra in cerca di tepore. S'è lamentato tra i denti che il costo delle divise era eccessivo. Controllava che il totale delle singole voci fosse giusto, perché non si fidava di nessuno. «Portate le candele», ha detto seccamente. Fuori della Villa dei Mulini la tela del cielo, azzurro chiara, s'era mutata in grigio cenere nel giro di pochi minuti. Il signor Rathéry, il segretario particolare, era passato nella saletta degli ufficiali della guardia a cercare il generale Cambronne. Tra mezz'ora sarebbe venuto il mamelucco Alí ad annunciare la cena.

[Ernesto Ferrero, N., Einaudi, 2000]

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