Enrico Ghezzi

critico cinematografico e scrittore italiano (1952-)

Enrico Ghezzi (1952 – vivente), critico cinematografico italiano.

Enrico Ghezzi

Citazioni di Enrico Ghezzi

modifica
  • A mio avviso, il senso della rete può essere quello di un orizzonte e soprattutto una zona di linguaggio dei linguaggi, quello, cioè, di mettere il linguaggio come vogliamo, oltre la pubblicità, oltre il visivo; anche se adesso ci si riprecipita, con Internet, dentro con tutto il visivo, con tutto il televisivo, con tutto il filmico, con tutte le forme di scrittura possibili, dovremmo, comunque, dubitare di tutto il linguaggio che abbiamo potuto parlare fino ad oggi, in una sorta di azzeramento, più ancora che di superamento, appunto, dell'illusione di nuovi valori, di nuove libertà, nuove comunità.[1]
  • Basta sapere che esiste la televisione e già sai che c'è un mondo che va avanti da sè. Quindi per i Lumière il cinema è senza futuro, il cinema è già il segno di una morte, potremmo dire da Hegel dalle pagine della sua Estetica in cui descrive esattamente quello che è il cinema come casella finale della storia delle arti, quella che coincide con la morte dell'arte, il diventare oggettivo del puramente soggettivo. Il cinema è questo tecnicamente. Molto più spinto in questo della fotografia, il cinema rende oggettivo il movimento più soggettivo, quello del soggetto stesso.[2]
  • [I Simpson] Ci hanno influenzato, hanno sintetizzato due familismi: quello amorale tipico italiano e quello americano. I Simpson sono un museo del mondo, uno spazio cimiteriale di tutto quello che ci passa davanti agli occhi, implacabili in un realismo puro, dove realtà e irrealtà sembrano fatte della stessa materia.[3]
  • Credo che Matrix vada letto, interpretato, come snodo di processi futuri e non come un traguardo. C'è l'idea di spirito come misteriosa forza interiore, atteggiamento irrazionale, pulsione magica o mistica nella cultura del XX secolo. Il Novecento ha segnato la fine del monopolio della spiritualità religiosa per affacciarsi al mondo di un'articolazione delle spiritualità.[4]
  • Dalla prima volta che ho letto Tristam Shandy, o dieci dei racconti, quelli brevissimi di Kafka, è come se avessi letto tutto e avessi smesso di aver voglia di leggere tutto, ormai è diventata una cosa retroattiva. C'è un momento in cui avrei avuto voglia di leggere tutto; adesso per me ci sono sette, otto libri mediante i quali si può capire che in realtà tutto è scritto in un solo libro, non in quello che stai leggendo, magari, ma anche nel più banale dei polizieschi. Forse non riesci a capirlo, ti manca il codice, in realtà c'è scritto tutto...[5]
  • Da una parte con internet puoi realizzare quello che è la tv non stop con soluzioni di continuità. La tv ininterrotta. Non vedi più lo spezzettamento, la tv senza confini mentre il cinema, se parliamo del cinema dei film è morto da sempre. Internet è una forma ancor arretrata di quello che è e vuole essere. Mentre l’orizzonte del cinema è il ci siamo.[6]
  • Di fronte a L'Atalante ho provato la sensazione di essere arrivato davanti al culmine di cosa è cinema.[7]
  • [Hermitage] è, fin dall'inizio, lo scontro con se stesso, specialmente nello specchio, come nemico, come altro, come irraggiungibile; è lo scontro con la separazione dello spettacolo.[8]
  • Il destino dell'uomo visto moltissimi pensatori è alla fine quello di riconoscersi nell'immagine, ma il senso è saper vedere. Certo è una cosa interessante dato che non sappiamo cos'è. È un concetto che siamo costretti di volta in volta a far valere in un modo o nell'altro. Non a caso è stato uno dei grandi terreni di lotta nel medioevo: penso all'iconoclastia, al concilio di Nicea. Un' immagine che è sempre troppo in bilico tra ciò di cui sarebbe immagine (una sorta di trompe l'oeil) e tra un'immagine troppo lontana quindi sgranata e indistinta. L'immagine è una nostra forma simbolica che è puro pensiero. È un orizzonte. Un destino che ci provoca e ci attende.[9]
  • Il pulp per Tarantino è una sorta di stato mentale, prima corpuscolare, poi però in Pulp Fiction diventa straordinariamente formato. È questa l'eccezionalità di Pulp Fiction, mica le storie che non a caso sono state raccontate migliaia di volte. Tarantino ha fatto un film con tutte le scorie del cinema di serie Z, giustamente amandole e capendone l'automaticità e poi ha fatto anche un cinema che sembra il cinema di Minnelli, o di Henry Ford degli anni Cinquanta, illuminato in maniera straordinaria, tutto il contrario del minimalismo.[10]
  • Il ventesimo secolo non ha una forma d’arte ideale, però è il primo secolo che in sé è un’opera d’arte. Un’opera d’arte totale che non so se ci uccide o ci lascia vivere, anziché vomitarci come Kronos. Ma una cosa è certa: il ventesimo secolo non ha una forma d’arte, è l’informale assoluto.[11]
  • [Sulla scena subacquea de L'Atalante] In quella sovraimpressione amorosa c'è tutto il cinema. Il puro amore per il cinema, con il suo potere di farti perdere, portarti in un altro spazio.[12]
  • Io credo che il pubblico principale di Carmelo Bene sia Carmelo Bene. E questo è molto evidente soprattutto nella televisione. È grazie alla televisione che Carmelo Bene manifesta la sua distanza, la sua assenza, perché, intanto è uno che ha capito benissimo il senso televisivo, cioè il sesto senso televisivo. Nella diretta televisiva, reale o virtuale, diciamo, o semi-diretta, si esperimenta appunto il "non essere in diretta" che è il senso più forte di tutto il lavoro di Bene. Cioè il non essere mai spiaccicato su sé stesso, non essere mai la pura performance d'attore, la pura performance di regista...[13]
  • L'accusa dei democratici occidentali è che i Grande fratello abbiano scritto un elogio della mediocrità, spettacolarizzando il non sapere niente e incitando al fannullismo. Eppure, in questi programmi ci troviamo di fronte all'avanguardia di un'utopia, l'utopia della liberazione dal lavoro. Come dire: "Grande fratello di tutto il mondo, unitevi!". Il non essere più occupati da un lavoro non non è una maledizione: potrebbe essere una conquista.[14]
  • La storia dell’umanità, del pianeta, è la storia della sua erosione. Quello che a noi resta è sempre quello che resta, raramente resta il costruito, il voluto.[15]
  • L'esercizio del dubbio è diventato già qualcosa di criminalizzabile, o quasi.[16]
  • La società dello spettacolo è solo una piccola crosticina della vera natura della società in cui viviamo, che è la società della registrazione. Dalla fine dell'Ottocento a oggi, l'uomo non ha fatto altro che registrare: ha registrato i propri sogni attraverso la psicoanalisi, grazie ai raggi x ha registrato la struttura del suo corpo e di ciò che c'era dentro, ha registrato i suoni, ha registrato le immagini, in un immenso movimento teso a fermare ogni cosa. [17]
  • La Tv è una grande enciclopedia in cui puoi trovare di tutto. L'alto e il basso. Lo sprofondo e il sublime. Un'arca massacrante in cui ti puoi anche divertire a patto di essere dotato di cinismo estremo. In tv l'unico modo di essere estrosi è aiutare quelli provvisti di talento a tirarlo fuori. Altro non c'è.[18]
  • Lo spreco riempie tutte le caselle del nostro mondo senza lasciare spazi vuoti nei quali ci si possa muovere e incontrare. Con l'aumento del livello tecnologico cresce parimenti il livello dello spreco fino alla gadgetizzazione del necessario.[19]
  • Ma nella vita quotidiana secondo me si può, non so se si debba ma si può prendere seriamente tutto per gioco e a quel punto - non per giocare il gioco, perché prendere il gioco e poi giocare il gioco facendo finta di essere superiori al gioco è il modo più normale per cadere in tutte le situazioni più... i tranelli spettacolari, autopubblicitari, ideologici... è orrendo, proprio è il modo più fasulllo, perché poi appunto sembra riposare su una coscienza di sprezzatura che resta superiore - a questo punto possono farlo e l'hanno fatto Debord, in parte Carmelo Bene... cioè non è per niente facile fare i dottori in nulla e, come dire, non farei venditori di nulla, cioè di tutto quello che si riesce a vendere. Quindi diciamo che secondo me la possibilità c'è, ma è una possibilità che verifichi subito cioè questa possibilità viene a sua volta venduta, esibita. Le persone possono essere simpatiche, uno può essere un grande musicista o perfino un grande scrittore o persino... però sicuramente non sta uscendo di lì, cioè è ben contento, anche tragicamente, anche laceratamente, è ben contento di occupare una scena, di essere in scena, di riempire la scena con sé o con le proprie immaginazioni [...]. Possiamo benissimo dire che non c'è niente di male, ma sicuramente non è in quell'altra cosa.[20]
  • Mi piacerebbe che lo scrivere fosse un atto contemporaneo a quello del pensare. E credo anche che l'invecchiamento nella prassi della scrittura dipenda dall'allontanamento fra questi due atti. Se davvero devi ripensare la tua scrittura allora costruisci un romanzo, una cattedrale di parole. Ciò che amo di più nell'altrui scrittura è la notazione secca, precisa, su singole cose. Diciamo il modo in cui lavorava un Benjamin o un Wittgenstein. E mi accorgo di aver tentato di esercitare questo gusto per il micrologico su coordinate generalissime. Ma questo è dipeso in massima parte dall'oggetto che indagavo, cioè il cinema. Nel senso che per me il cinema è una piccola macchinetta che mette in gioco tutte le questioni fondamentali. Innanzitutto il tuo rapporto col mondo.[21]
  • Noi siamo dentro a un vortice, a un gorgo in cui si sta sgretolando l'idea stessa del tempo. In questa giungla di segni colgo una fascinazione per il tema della vita oltre la morte, la mutazione in fantasmi, la clonazione, i trapianti illegali di organi. L'unica minaccia che vedo veramente è questo stesso mondo in cui viviamo.[22]
  • Non vedo la differenza tra mi piace ed è uno stato mentale. È uno stato mentale di dissociazione psicotica. Secondo me se appena ci si pensa una persona non può non sentirsi come minimo Jackill e Hyde. È un gioco comodo. L'ho fatto davvero come un gioco comodo: montavamo a diversi chilometri di distanza, telefonavo con una mano e con l'altra montavo Blob. Mi piaceva l'idea di contrappormi alla comunicazione televisiva. È quasi un monologo interiore che diventa esteriore. Certo bisogna fare uno sforzo per capire...[23]
  • Persona è forse il capolavoro assoluto di Bergman. Gioco di parole attraverso i volti, sovrimpressioni di volti. Non di occhi, la sovrimpressione degli occhi dà un unico occhio, la sovrimpressione dei volti produce due volti: accostati, una nuova figura. Sovrimpressioni mentali. Storia scritta da volti. Soggetto che guarda e che nel mentre guarda si accorge di essere guardato e nel mentre è guardato non si rende conto da chi e da cosa è guardato e alla fine capisce che rendersene conto non è che una piccolissima cosa.[24]
  • Presto i soggetti in gioco saranno ognuno troppo ricco di dati e di informazioni e insieme troppo poco atto a decifrarle. Non solo quelle che riceve, a decifrare quelle stesse che può a sua volta rimettere in gioco. E non parlo solo di informazioni e comunicazione culturale, culturalizzata, parlo anzi proprio dell’informazione, e anche, delle informazioni e dei dati in qualche modo sbobinabili, cioè considerare i soggetti come bobine che senza più darsi e avere il tempo di riflettere, trascrivere, produrre testualmente istanze di comunicazione si danno come in comunicazione, letteralmente si sbobinano, si offrono... in modo davvero incontrollato, incontrollato da loro stessi. Non incontrollato da chi poi avrà questa sbobinatura di fronte, tra le mani, davanti agli occhi, tra le dita, ma per loro stessi. Credo che la rete delle reti sia questo, invece che la illusorietà della comunicazione, sia la certezza di non aver luogo, la certezza di non avere nulla da comunicare se non il fatto di esser fatti, se non il fatto di essere lì, quindi di avere qualcosa in termini di spazio-tempo da... da essere - io uso il termine “sbobinato”...più che tecnicamente, dando un senso mentale, proprio di iniettarsi, farsi iniettare in un circuito dove a sua volta chiunque acceda tutto avrà fuorché il tempo di rielaborare questo afflusso, questa iniezione. Potrà avere solo istantaneamente... Faccio per ridere, “istantaneamente” non esiste... Istantaneamente, istante, istantaneo è il... in realtà è una tragedia questa situazione di comunicazione... non “che viviamo”... che non viviamo.[25]
  • Secondo me, una delle cose più belle che abbiamo fatto, dal punto di vista filmico, sono i girati del primo viaggio di Kennedy in Italia: due ore di ripresa, noiosissime. Oppure quella parata stupenda per i cinquant'anni della Rivoluzione d'ottobre sulla piazza Rossa, una notizia di TG da un minuto e mezzo, immagini che erano state gonfiate, quasi slabbrate, come le riprese della luna dei primi astronauti, quasi sgretolate. E, per due ore e mezza, questo passaggio di tutti i reggimenti, gli altoparlanti del Cremlino, quei momenti lì diventano cinema, cinema come quello di John Ford.[26]
  • Suspense continua dei volti degli occhi dei sentimenti, di una grammatica sentimentale di gesti e sguardi che sfugge al controllo manipolatorio del regista stesso. Ecco, il fascino estremo bergmaniano è la scoperta che col cinema i conti non tornano mai.[27]
  • [...] una specie di fine; di fine anticipata del cinema di Carmelo Bene, anche se poi sono venuti altri film, che è questo "non voglio più vedere nulla", questo "Basta", questa fine della luce, questa fine della visione.[28]
  • Visionari lo siamo di certo, e dico “siamo” non come plurale ma come attesa di plurali che arriveranno... solo troppo tardi. Soprattutto troppo tardi.[29]
  • Welles è molto più tragico o d'altro lato molto più comico, molto più leggero, molto truffatore o assolutamente vero, è una dicotomia, è un ossimoro continuo Welles. Non vedo la perfezione della forma, vedo soprattutto un grandissimo giocatore, che gioca fino alla fine, che usa i soldi per giocare ancora, cioè per fare dei film che non potranno che essere a brandelli, oppure che non potranno che essere dei making. [...] È inventivo, molto teorico e moderno Welles, è uno che davvero ti può bruciare tutto il cinema in un pomeriggio.[30]
  1. Da un'intervista che rilasciò in occasione del Future Show del 1997 uscita su Sentieri Selvaggi, 3 ottobre 2002.
  2. Dall'intervista di Marcello Cella, Incontro con Enrico Ghezzi, Celluloidportraits.com, 13 agosto 2007.
  3. I Simpson siamo noi. di Terry Marocco, Panorama, 18 aprile 2012, pp. 12-13
  4. Citato in Mario Franco, Procida, l'isola di celluloide, la Repubblica, 1º luglio 2004.
  5. Da un'intervista uscita su Caféletterario.it.
  6. Dall'intervista di Geneviève Alberti, Dissolvenze fuori sincrono, CineforumImperia.it.
  7. Citato in Gabriella Gallozzi, Jean Vigo, Patti Smith, Enrico Ghezzi, una storia d’amore Con “L’Atalante” (ora in sala), bookciakmagazine.it, 14 gennaio 2018.
  8. Dal programma televisivo Una videocosa, Rai 3.    data?
  9. Dall'intervista di Massimo Gnoli, Dissolvenze incrociate, Taxidriversmagazine.blogspot.it, 22 ottobre 2006.
  10. Da un'intervista uscita su Caféletterario.it.
  11. Da un'intervista del 2015 di Francesco Sacco.
  12. Citato in Gabriella Gallozzi, Jean Vigo, Patti Smith, Enrico Ghezzi, una storia d’amore Con “L’Atalante” (ora in sala), bookciakmagazine.it, 14 gennaio 2018.
  13. Da La voce che si spense, visibile su Youtube.com.
  14. Da un'intervista di Nicola Mirenzi per HuffpostItalia.it, 24 giugno 2018.
  15. Da un'intervista di Leonardo Gregorio e Marilù Ursi, Enrico Ghezzi e l'insoddisfazione. Intervista al padre di Blob, Ipool.it.
  16. Da un'intervista di Nicola Mirenzi per HuffpostItalia.it, 24 giugno 2018.
  17. Da un'intervista di Nicola Mirenzi per HuffpostItalia.it, 24 giugno 2018.
  18. Dall'intervista di Malcom Pagani, Il Fatto Quotidiano.it; riportata su Dagospia.com, 28 aprile 2014.
  19. Da un'intervista di Paolo Battifora uscita su `IL SECOLO XIX`, 7 giugno 2001.
  20. Intervista a Enrico Ghezzi, [1] su youtube.it, 1 gennaio 2011.
  21. Citato in Antonio Gnoli, Spari nel buio, la Repubblica, 25 giugno 1995.
  22. Da un'intervista di Paolo Battifora uscita su `IL SECOLO XIX`, 7 giugno 2001.
  23. Dall'intervista di Geneviève Alberti, Dissolvenze fuori sincrono, CineforumImperia.it.
  24. Dal programma televisivo Fuori Orario, febbraio 1994.
  25. Dalla conferenza [2] a cura di Tommaso Tozzi e Francesco Galluzzi per il progetto “Arte, Media e Comunicazione”, 1997
  26. Da un'intervista di Leonardo Gregorio e Marilù Ursi, Enrico Ghezzi e l'insoddisfazione. Intervista al padre di Blob, Ipool.it.
  27. Dal quotidiano Libertà, 31 luglio 2007.
  28. Dalla Prima di Salomè nel programma televisivo Fuoriorario, Rai 3, 21-22 gennaio 1994; citato in Carmelo Bene, Opere, con l'Autografia d'un ritratto, p. 1546.
  29. Da un'intervista di Fabio Giusti su Taxidrivers.it, Cose (mai) lette - Intervista a Enrico Ghezzi, 25 novembre 2019.
  30. Dall'intervista di Alessandro Aniballi e Raffaele Meale, Enrico Ghezzi: "La verità è il primo inganno", Quinlan.it, 15 gennaio 2017.

Bibliografia

modifica
  • Carmelo Bene, Opere, con l'Autografia d'un ritratto, Bompiani, Milano, aprile 2002 (1° ed. Classici in brossura aprile 2002). ISBN 88-452-5166-7
  • La voce che si spense, Questa Italia, programma RAI di Daniela Battaglini, commemorante la scomparsa di Carmelo Bene.

Filmografia

modifica

Voci correlate

modifica

Altri progetti

modifica