Alessandro Della Seta

archeologo e storico dell'arte italiano

Alessandro Della Seta (1879 – 1944), archeologo e storico dell'arte italiano.

Alessandro Della Seta

I monumenti dell'antichità classica Grecia e Italia modifica

  • Giustamente l'antichità poteva dire di lui (Plin. XXXIV, 57), che aveva moltiplicato la verità ma che, curioso soprattutto dei corpi, non aveva reso lo stato dell'animo. E così Mirone, mentre è il primo dei grandi scultori dell'antichità, è l'ultimo degli scultori arcaici. Egli aduna in sé ed affina i pregi dell'arte anteriore, chiude grandiosamente un'epoca antica ma non dischiude un'epoca nuova. (I. Grecia, p. XXIV)
  • Sembra che Skopas avesse tratto dalla nativa Paro la passione per il marmo, perché in marmo erano tutte le sue opere di cui è conservato ricordo all'infuori di una in bronzo. E la semplice enumerazione di esse vale già a segnare il carattere dell'arte di Skopas. Non vi si trova infatti nessuna figura di mortale: egli non amò eternare atleti. (I. Grecia, p. XXXVI)
  • In generale egli [Skopas] creò statue di numi e non dei numi austeri e maestosi che erano stati prediletti dal V secolo e soprattutto dall'arte di Fidia come Zeus ed Hera – una sola Athena è di lui menzionata – ma quelli che erano più vicini agli uomini, alle loro passioni e ai loro affanni: Afrodite Pandemos, Dioniso, Apollo, Asclepio, Igiea. E ancor più amò quegli esseri semidivini la cui natura era passione, come le Erinni o le Baccanti, o le personificazioni stesse delle passioni. (I. Grecia, p. XXXVI)
  • [...] di Lisippo la tradizione antica faceva un autodidatta, perché non solo sarebbe sorto da umili origini, cioè sarebbe stato da principio calderaio (Plin. XXXIV, 61), ma avrebbe ascoltato il consiglio del pittore Eupompo, il quale, alla sua domanda quale degli artisti precedenti dovesse seguire, gli avrebbe additato la folla degli uomini, dicendogli che bisognava imitare la natura e non un artista. (I. Grecia, p. XLIII)
  • Lisippo era considerato per la figura umana come il creatore di un canone opposto a quello di Policleto. Egli, pur mantenendosi fedele alla simmetria, cioè ad una regola di proporzioni tra le varie parti del corpo, modificò la statura salda e quadrata del tipo policleteo e, facendo più piccola la testa e più gracile e più secco il corpo, creò figure che apparivano di maggiore snellezza. Tale è l'aspetto dell'Apoxyomenos e dell'Agias. (I. Grecia, p. XLIII)

Italia antica modifica

Incipit modifica

La trama di gioie e di dolori che l'anima degli antichi aveva tessuto intorno alle opere dell'industria e dell'arte non più trattiene noi tra le sue tenui fila. Nella viva luce del sole il nostro sguardo avvolge della sua carezza le scanalate colonne di un tempio senza che esso si rassereni o si attristi al pensiero che gli occhi di altri uomini si alzarono là verso il cielo nella letizia o nella sofferenza per ringraziare o per implorare. Nell'oscurità di un ipogeo la nostra mano fruga senza scrupoli il corredo dei defunti senza che nel nostro cuore abbia più risonanza l'eco del pianto di chi piamente lo dispose, di chi nutrì l'illusione che dovesse servire eterno. Lo schianto della disperazione, il tormento del desiderio sono svaniti nel nulla, come polvere dispersa è la carne di chi pianse e di chi gioì. E di un mondo di ombre noi spegniamo l'ultima ombra.

Citazioni modifica

  • Fenomeno singolare, se l'arte importata da Fenici non ebbe carattere etnico là dove essi operarono come mercanti, non la ebbe neanche là dove i loro successori, i Cartaginesi, si impiantarono saldamente come colonizzatori. È questa una prova della negazione all'arte figurata dei Semiti: prima di essere un divieto religioso è stata un'incapacità dello spirito. La loro anima può scrutare nell'anima degli altri uomini, sa filosofeggiare, ma non ne vede il corpo; la loro intelligenza spazia nell'armonia dei numeri, sa costruire secondo ritmo, possono avere quindi l'architettura e la decorazione, non l'arte figurata. Gli Arabi l'hanno mostrato ancora una volta, dopo gli Ebrei, dopo i Fenici, dopo i Cartaginesi. E una riprova ne è l'arte punica in Malta, in Pantelleria, in Sicilia e in Sardegna. (pp. 84-85)
  • Se la nostra fantasia è carezzata dall'idea che la democrazia greca abbia piantato il suo primo santuario sulle rovine della grande sala dei palazzi principeschi, come il Cristianesimo mutò in chiese gli edifici pubblici dell'impero romano, questo è contraddetto dai dati della poesia omerica, perché là il tempio è solo menzionato in passi recenti, ciò che indica che per secoli, dopo la distruzione dei palazzi cretesi e micenei, i Greci esercitarono il loro culto all'aperto.
    Il movimento spirituale che condusse i Greci a costruirsi il tempio fu in rapporto con quello che li trasse a crearsi il simulacro della divinità. Una volta sorto l'idolo esso doveva avere la sua casa e per questa casa i Greci piuttosto che ricorrere a qualche parte dei palazzi distrutti, e forse da gran tempo seppelliti, di Creta e di Micene devono aver trovato il modello nella loro modesta abitazione, costituita da una stanza rettangolare e da un vestibolo. E così sorse il piccolo tempio a testate, la forma primordiale. (p. 110)
  • Mentre lo spirito semitico nelle pagine austere della Bibbia aveva fatto del vino una maledizione dell'uomo che portava con sé intemperanza, vergogna e irriverenza, la Grecia aveva avvolto il culto della vite nel suo più gaio mito, quello di Dioniso e del suo corteggio folleggiante di Satiri e di Menadi. (p. 118)
  • Se la Grecia dominò con l'intera sua civiltà la Sicilia e l'Italia meridionale, dette anche forme e soggetti all'arte del popolo etrusco. La civiltà etrusca si affaccia alla storia allorquando sui poveri sepolcreti a cremazione del periodo del ferro si distende in Etruria il manto lussuoso dell'arte orientalizzante, accompagnato dal rito dell'inumazione nelle tombe a camera. (p. 159)
  • Pari alle greche le mura etrusche hanno torri e porte con architrave rettilineo: solo in età tarda, nel III-II secolo a. Cr., gli etruschi introdussero per la prima volta la porta ad arco, e si vuole che fosse loro creazione. (p. 167)
  • L'architettura greca è rigida linearità che gravita con l'intero suo peso, è pianta angolare che pare costretta dallo spazio esteriore; l'architettura romana è arco, è volta, è cupola che libera ascende, è pianta centrata che elastica sembra premere contro le mura incurvandole. (p. 280)
  • [L'arco di Costantino] La sua decorazione figurata racimolata da ogni dove è apparsa segno di povertà artistica, ma ciò non vale per la sua architettura, giacché con l'alto fornice centrale e con i ben proporzionati fornici laterali, con la saldezza dell'intera sua costruzione è ancora una degna creazione di Roma: esso è l'arco più imponente di tutta l'antichità. (p. 302)
  • [...] la passione decorativa è qui [nell'arco di Costantino] portata all'estremo limite. Di rilievi sono coperti i basamenti delle colonne e le fiancate dell'arco, i due lati del fornice centrale, le lunette, lo spazio tra le colonne, le facciate dell'attico. E come se la decorazione a rilievo non bastasse, delle statue di barbari prigionieri sono addossati ai pilastri dell'attico. (pp. 302-303)
  • Come della strada, l'architettura romana si fece gloria di un'altra costruzione di utilità pubblica, dell'acquedotto. A servigio di esso pose uno dei suoi elementi caratteristici: l'arco, che nello stesso tempo fu snello sostegno, superò i salti del terreno e regolò la pendenza del decorso. Con la cloaca e con la strada poteva l'acquedotto essere considerato nell'antichità uno dei tre monumenti che manifestavano la potenza e la magnificenza romana. E gli acquedotti di Roma ancor più che una meraviglia della città potevano essere vantati tra le meraviglie del mondo. (p. 306)
  • Ed anche delle terme fu fatta una creazione di grandezza romana. Ancor più di ogni altro monumento esse indicano che non furono decadenza per l'architettura neanche i secoli che si vogliono decadenza per l'impero. Sembra anzi che quanto più l'impero si andava indebolendo tanto più tenesse a porre dinanzi agli occhi dei sudditi monumenti la cui colossalità e la cui magnificenza apparissero espressione di dominio.
    E nelle terme ritroviamo il carattere fondamentale dell'architettura romana, la spazialità interiore. (p. 306)
  • Nel 212 d. Cr. Caracalla costruiva la enorme massa delle sue terme Antoniniane nella valle tra l'Aventino e il Celio. Nessun edificio di Roma ha l'imponenza di questo che sembra all'esterno una fortezza quadrangolare, giacché le terme stesse circondate da vasti cortili e porticati sono chiuse, secondo lo spirito romano, dentro un alto recinto. E in pochi altri edifici la volta e la cupola sono state chiamate a risolvere problemi così ardui di slancio nello spazio. (pp. 306-307)
  • Le terme di Caracalla e di Diocleziano, le sole superstiti dalla distruzione del medio evo e del rinascimento, sono oggi ridotte alla semplice ossatura. Spogliate delle pitture, degli stucchi, dei marmi, del bronzo, depredate delle statue e dei gruppi che ne ornavano le sale, sono solo muraglie e volte, ma come nella basilica e nell'acquedotto è in esse il sugello grandioso di Roma. (p. 307)
  • Ma l'equilibrio tra figura ed elemento architettonico e paesistico fu raggiunto, e non fu mai più superato, nei rilievi della colonna traiana. Non una delle sue scene si svolge fuori della realtà: o è il fiume con le torri di scolta e le capanne degli abitanti sulle sponde o è il porto con la corona dei suoi edifici o è l'accampamento romano con le tende o è la città murata dei Daci o è il ponte o è il bosco o è la fortezza veduta in lontananza o è il tribunale vicino sui cui sta l'imperatore, ma sempre un elemento di architettura o di natura, più spesso dei complessi di questi elementi avvertono che tutte quelle figure sono uomini reali perché in mezzo alla realtà agiscono e parlano. (p. 317)
  • [...], la colonna di Traiano è il primo esempio nella storia dell'arte umana di un tentativo di rappresentazione dell'ambiente reale in prospettiva. Nulla ha con esso a che fare lo scenario parallelo di edifici o di monti o di fiumi, che talvolta solleva al di sopra degli uomini o distende dietro ad essi il rilievo assiro ed ancor meno quelle della palude da pesca o del campo da mietere che il magico desiderio del nutrimento offre al defunto nella pittura e nel rilievo funerario egiziano. (p. 318)

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