Citazioni sul Safari Rally, noto agli albori come East African Safari Rally e più semplicemente come Safari.

Un caratteristico passaggio del Safari Rally (2019)

Citazioni modifica

  • La gara più bella? Non posso dimenticare il Safari Rally dell'88: finalmente ero riuscito ad aggiudicarmi questa sfida terribile e affascinante, non tanto contro gli avversari ma contro la natura. Ho percorso 4.500 km nella savana in 5 giorni, e senza mai un problema alla mia Deltina [Lancia Delta HF Integrale]. (Miki Biasion)
  • [«Perché non ha mai amato il Safari africano?»] Poichè temevo gli insetti e le malattie tropicali e poi perché ritengo che quelle marce lunghissime, estenuanti, non c'entravano molto con un vero rally di velocità. Il Safari non era un rally ma una maratona, un raid, insomma un'altra cosa. In una edizione io e Geistorfer restammo letteralmente prigionieri delle sabbie mobili e della melma. I meccanici urlavano, ci imploravano di venire fuori. Ma io tenni le porte ben chiuse mentre l'auto sprofondava lentamente e dissi alla radio che non sarei mai uscito dall'auto se prima non mi tiravano fuori da quella merda. (Walter Röhrl)

Sandro Munari modifica

  • Durante i vari East African Safari che ho corso, poi divenuto Safari Rally, al di là di andare più forte di tutti, come ovviamente succede anche negli altri rally, qui c'erano anche molti altri fattori collaterali che, se ben sfruttati, potevano contribuire in maniera molto significativa ai fini del raggiungimento dell'obbiettivo primario: "la vittoria". [...] i Safari della mia epoca si correvano nella settimana di Pasqua, e cioè nel bel mezzo della stagione delle grandi piogge (come se le difficoltà che già c'erano non fossero abbastanza). Così spesso e malvolentieri c'era da fare i conti con i numerosissimi guadi (ponti, una rarità) o impantanamenti vari. Da queste situazioni era pressoché impossibile togliersi d'impaccio da soli, se non a costo di grandi perdite di tempo. Ma ecco che appena ti fermavi, non aveva importanza il motivo, a qualsiasi ora del giorno e della notte, in pochi secondi venivi attorniato da un nugolo di teste nere, senza sapere esattamente da dove fossero sbucati, visto che un istante prima non si vedeva anima viva nel raggio di 10 chilometri. "Magia nera", chi lo sa. Ovviamente la loro presenza non era solo un fatto curioso; il nostro inconveniente diventava per loro un business interessante. Subito si apriva una trattativa in scellini (moneta locale, che allora equivaleva a circa 130 lire italiane), e la banconota più richiesta era quella da 100 scellini. Si potevano raggiungere anche cifre minori, ma con ulteriore perdita di tempo. Tuttavia, una volta stabilito il compenso, non era detto che tutto funzionasse per il meglio. Infatti i concorrenti meno esperti pagavano la cifra richiesta convinti di essere tolti dai guai in un batter d'occhio, mentre capitava che gli autoctoni si dileguavano nella savana lasciandoli con un palmo di naso. La tecnica usata dai più esperti era invece quella di dare la metà subito e il resto a "salvataggio" concluso. [...] Eppure non è come pensate, perché anche dando loro 50 scellini subito ti lasciavano impantanato. Il sistema più efficace allora era quello di tagliare in due la banconota e dare loro la prima metà subito e la seconda metà a lavoro fatto. Ma la cosa migliore da fare era comunque organizzarsi fin dalla partenza e portarsi appresso una buona quantità di banconote per ogni evenienza.
  • Era l'anno 1977 e fu l'ultimo Safari che corsi con la [Lancia] Stratos. A condividere con me quell'avventura c'era Piero Sodano, anche lui contagiato dal mal d'Africa. Fu il Safari più bagnato e fangoso delle 10 edizioni alle quali ho partecipato. La pioggia incessante durò quasi tutti i cinque giorni interi di corsa, mettendo a dura prova sia piloti che vetture, trasformando strade e terreni molto insidiosi e pericolosi. [...] eravamo costantemente bagnati fradici ed impantanati fino ai capelli. In queste condizioni diventava anche più faticoso guidare, perché le scarpe infangate scivolavano facilmente sulla pedaliera. Ovviamente non avevamo la possibilità di cambiarci gli indumenti. In questo modo la fatica era doppia, o tripla di quella che si sarebbe fatta in condizioni più umane. Infatti mi ricordo che alla fine della gara, avevo tutta la schiena piagata, causa lo sfregamento della tuta costantemente bagnata sullo schienale del sedile. Ma l'episodio più "divertente", se però lo chiedete a Piero non credo che sia dello stesso parere, ci era capitato, quando nel bel mezzo della notte, eravamo rimasti dentro ad un guado. Per fortuna c'erano i soliti africani che non vedevano l'ora di rendersi utili, non tanto per farci un favore, ma per raggranellare qualche scellino. Così, mentre Piero scendeva per organizzare al meglio la squadra di "volontari", io ovviamente ero rimasto al volante pronto a sfruttare le spinte. [...] Passavano i minuti ma di Piero neanche l'ombra. Impaziente continuavo a guardare lo specchietto retrovisore, ma tra il buio, la pioggia e la scarsa visibilità posteriore che la Stratos offriva, non riuscivo a vedere niente. Così decisi di aprire la portiera urlando: "Piero...ooo, Piero...ooo", ma niente. [...] Finalmente sentii aprire la portiera destra e vidi Piero catapultarsi dentro ansimando come un mantice, mi disse di partire alla svelta. [...] un po' per la mancanza di fiato, un po' perché era ancora scioccato, non riusciva a parlare. [...] Da lì a poco, Piero si riprese e cominciò a raccontarmi: "...è successo che quando ho preso gli scellini dalla tasca per pagare, uno di loro, un tipo alto e grosso, si avvicina e mi appoggia la punta di un lungo coltello sulla pancia, chiedendomi, oltre ai soldi, di dargli il cronometro che avevo al polso! Rimasi pietrificato dalla brutta sorpresa e dalla paura, ma comunque ho reagito cercando di spiegargli che il cronometro era uno strumento indispensabile per il mio lavoro e che avrei avuto dei problemi a finire la gara. Questi parlava solo swailli e non capiva. [...] Così continuava a premere sempre di più la punta del coltello sulla mia pancia. [...] mentre cercavo di pensare a cosa fare, lui con un rapido movimento mi prese il braccio destro dove avevo il cronometro ed, infilata la lama del coltello sotto il cinturino, con un colpo secco lo tagliò. Fulmineo prese il cronometro e si dileguò nel buio della notte". [...] Anche senza il cronometro ce l'eravamo cavata benissimo, anche perché in una gara così dura, i ritardi si calcolavano a ore e non a secondi. Al traguardo arrivarono solo 7 vetture su una settantina partite e noi finimmo terzi assoluti; niente male. La storia del cronometro però non finì lì. Durante la premiazione raccontammo cosa ci era successo; tra le persone che ci ascoltavano c'era anche un pezzo grosso dell'organizzazione, il quale ha voluto sapere esattamente il luogo dove era successo lo spiacevole inconveniente. [...] dopo qualche settimana mi chiamò [Cesare] Florio, dicendomi che un dirigente della Fiat di Nairobi lo aveva informato che, la polizia keniota aveva recuperato il cronometro e che ce l'avrebbe spedito al più presto. La cosa mi aveva alquanto incuriosito, così telefonai a Nairobi per sapere come la polizia fosse riuscita a scovare il ladruncolo in una zona così impervia ed ampia. "È stato molto facile... – mi disse il mio interlocutore... – come puoi immaginare non c'erano tante persone in quel villaggio che indossassero un cronometro sdoppiante Heuer ultima generazione". E siccome la polizia keniota non è per niente tenera, soprattutto con i propri connazionali, lo presero e lo sbatterono dentro.
  • Premetto: il Safari Rally era una gara di circa 6000 chilometri dove bisognava guidare notte e giorno in qualsiasi condizione atmosferica. Voglio raccontarvi un episodio che mi è capitato proprio durante un "Safari Rally", quello del 1975. Un episodio che ancora adesso, a distanza di tanti anni, riesce a farmi rabbrividire. Ebbene, dopo svariate miglia percorse sullo sterrato a bordo della mia Stratos, avevamo finalmente imboccato il lungo rettilineo asfaltato che unisce Nairobi a Mombasa. Erano più o meno le 4 del mattino e guidavo sotto una pioggia battente. Una pioggia che oltre a non accennare a diminuire, permetteva una visibilità di 100 metri al massimo. Con il navigatore mi ero accordato che non appena avessimo incontrato un tratto di strada decente, sarebbe stato bene spingere sull'acceleratore per guadagnare un po' di terreno sugli avversari. E così fu. Filavamo senza particolari problemi a una velocità di circa 180 orari. Nessun rischio di aquaplaning, perché avevamo gomme strette da sterrato. Nessuno in vista. Eravamo noi, la pioggia e i rumori dell'Africa. Tutto sembrava tranquillo, quando improvvisamente intravedo una macchia scura in lontananza, una macchia che però non assomigliava a una pozzanghera. Forse un tratto di pioggia più fitto? Un riflesso? Mentre provo a decelerare un po' per capirci qualcosa, a 100 metri da me, con l'auto che viaggiava a 130 chilometri orari, mi trovo davanti una mandria di bufali – dico una mandria – impegnata paciosamente ad attraversare la strada. Ora non so se avete presente che cosa è un bufalo. Quintali e quintali di carne, ossa e muscoli animati da un carattere particolarmente vendicativo. [...] Che fare? Frenare? Impossibile, troppo tardi. Tentare una sterzata? Non se ne parla nemmeno. Ma dovevo decidere, in gioco c'erano al mia vita e quella del mio compagno. Basta, o la va o la spacca: schiaffo la terza e butto giù a tavoletta. [...] incredibilmente riesco a indovinare uno spazio tra un bufalo e un altro e a centrarlo in pieno. Miracolo. Davanti a noi nuovamente la strada libera; dietro, lo sguardo incuriosito dei bufali attraversati da questo strano oggetto metallico veloce come una gazzella. Io e il mio compagno non sapevamo se ridere o se piangere. Ma per molti chilometri non abbiamo fatto nulla. Nemmeno una parola.
  • Una gara unica nel suo genere, imprevedibile e quindi sfuggente, ma affascinante e ricca di storie incredibili che hanno caratterizzato buona parte della mia vita di pilota e non. Quando sentivo parlare da amici che mi raccontavano di soffrire di mal d'Africa, non capivo cosa volesse dire; lo capii nel 1969 quando ci andai per la prima volta. Allora il rally si chiamava ancora East Africa Safari. [...] Fui subito colpito dalla bellezza di quella parte dell'Africa (per me tra le più belle) con paesaggi stupendi, dove gli spazi immensi ti facevano sentire come l'unico essere vivente a godere di quelle bellezze. Per non parlare del contatto "ravvicinato", a volte fin troppo, che potevi avere con la numerosissima fauna selvatica. Migliaia di animali di specie diverse brulicavano attorno a te, senza che nessuno li controllasse o li obbligasse a stare rinchiusi in un recinto. Tutto questo mi procurava un piacevole senso di libertà che provavo solo in quella terra in parte brulla e arida, ma anche ricca di vegetazione rigogliosa e generosa per gli squisiti frutti tropicali che offriva e che potevi raccogliere senza chiedere niente a nessuno. La stessa sensazione la provavo quando avevo la possibilità di stare a contatto con la gente, soprattutto con coloro che vivevano fuori dai grandi insediamenti, quindi liberi di muoversi e di vivere le loro giornate come meglio credevano. Anche se la vita di queste persone era una continua lotta per la sopravvivenza, vedevi e sentivi in loro l'altera fierezza che può dare solo la libertà.

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