Leah Nora Beloff (1919 – 1997), scrittrice e giornalista britannica.

Tito fuori dalla leggenda modifica

Incipit modifica

La natura oppressiva del sistema comunista jugoslavo non mi permette di ringraziare, citandoli nominalmente, tutti quegli jugoslavi, i giovani in particolare, che mi hanno aiutata nella lunga ricerca dalla quale è nata quest'opera di analisi e di valutazione storica e politica della Jugoslavia passata e presente. Spero, comunque – posto che questo libro possa arrivare loro almeno clandestinamente – che essi vorranno accettare il riconoscimento pubblico del mio debito nei loro confronti, soprattutto perché, aiutandomi, si sono esposti a rischi che io non ho corsi.

Citazioni modifica

  • Nell'attuale contesto statuale e politico europeo la Jugoslavia è un paese utopico, che cioè non si pone da alcuna parte, non appartiene nè all'Est nè all'Ovest, nè al mondo dei paesi neutrali, quali la Svizzera e la Svezia, nè a quello filo-occidentale, nè tantomeno, ufficialmente, a quello filo-sovietico. Posta nel cuore dei Balcani, essa ha una lunga storia: è stata punto d'incontro e di scontro di molte civiltà e di molte fedi religiose – musulmana e cristiana, ortodossa e cattolica romana – che la hanno resa tragicamente affascinante e culturalmente ricca, e oggi è teatro di scontro e di incontro tra una concezione di vita marxista-leninista e quella democratica di modello occidentale. (p. 10)
  • Secondo i censimenti ufficiali, la Jugoslavia è costituita da non meno di 17 diversi gruppi etnici, dotati di propria lingua, dialetto, e cultura peculiari. Per i profani è difficile comprendere ciò che una comunità così differenziata può significare nella realtà quotidiana. Ogni anno milioni di turisti si recano in Jugoslavia per godere del clima, del paesaggio e dei tesori storici e artistici, ma pochi sono coloro che si fanno rovinare le vacanze dalla complicata situazione politica di quel paese. Peraltro, bisogna anche dire che sono pure pochi coloro che riescono ad avere idee chiare su quel problema. (p. 12)
  • Fascino e astuzia hanno permesso a Tito di presentarsi per oltre trent'anni agli occidentali come un amico tormentato ma deciso, e i suoi seguaci e successori sono stati abili nel sostenere e arricchire la tesi secondo cui sarebbero spiacenti ma comunque costretti a tornare all'ovile sovietico se l'occidente non desse loro ciò di cui hanno bisogno. (p. 16)
  • La paura dell'Unione Sovietica e l'ingegnosità diplomatica degli jugoslavi hanno convinto i leader occidentali che la Jugoslavia potesse scegliere solo tra una versione titoista e una sovietica di sistema di dominio monopartitico comunista. Conseguentemente, sia i circoli della destra tradizionale repubblicana statunitense che i vari gruppi conservatori dell'Europa occidentale si sono dimostrati più che disposti a tralasciare ogni riserva sull'incompetenza dei comunisti jugoslavi a governare, e hanno chiuso gli occhi sulle palesi violazioni dei diritti umani che avvengono in Jugoslavia con gravità non diversa da quelle che vengono registrate negli altri paesi dell'Est, e che vengono invece condannate. (p. 17)
  • Il giudizio generale su Tito, suggerito in Jugoslavia dal partito comunista in quarant'anni di monopolio dei mass media e ampiamente diffuso e condiviso all'estero, è che colui che dominò tanto a lungo quel paese fu, pur con colpe ed errori, un grande patriota e un politico visionario. Un esame attento della sua vita smentisce completamente tali valutazioni. Infatti, Tito, come patriota nacque tardi. Egli si identificò con la Jugoslavia solo dopo i 42 anni. Nel 1914, quando scoppiò la prima guerra mondiale, l'idea jugoslavia era già ampiamente diffusa nei Balcani, e Tito aveva ventidue anni. Egli fece allora la sua prima esperienza di guerra come sottufficiale di quell'esercito austro-ungarico che invase la Serbia e, probabilmente, coloro che avrebbero potuto diventare suoi compatrioti furono tra i primi che uccise. (p. 25)
  • Alla vigilia della sua morte, possedeva castelli, palazzi, ville, padiglioni di caccia pieni di oggetti di ogni genere donatigli da coloro che volevano o dovevano fargli un favore. Quando viaggiava nel paese – e accade spesso – preferiva dormire nelle sue proprietà. Però, diversamente dal suo amico rumeno Ceausescu, non fu nepotista, non creò una dinastia e non si preoccupò di ciò che sarebbe stato di quelle ricchezze dopo la sua morte. Come per molti uomini di affari di successo, il lavoro fu più importante delle relazioni umane. Gli infermieri che lo assistettero durante la sua ultima malattia a Lubiana riferirono che, a parte le visite ufficiali dei parenti e dei fedeli, fu molto solo. (pp. 30-31)
  • Tito non permise mai che il suo credo marxista interferisse con il suo desiderio di impressionare non solo i suoi compatriotti, ma anche i rappresentanti esteri. Ma il proletariato, avendo vinto la guerra di classe permise a Tito, suo rappresentante di diritto, di godere e di adornarsi dei paludamenti del potere propri di un re ereditario o di un barone. (p. 31)
  • Il capo degli ustascia, Ante Pavelić, era un pazzo omicida il cui odio ossessivo per i serbi era pari a quello di Hitler per gli ebrei. (p. 74)
  • [...] mentre negli altri paesi dell'Europa orientale da poco sovietizzati la repressione giunse all'apice quando il controllo sovietico era strettissimo, in Jugoslavia il terrorismo toccò il culmine solo dopo la rottura con Stalin. (p. 152)
  • Tito rinunciò agli sforzi fatti per essere uno Stalin jugoslavo solo quando il paese fu sul punto di morire di fame. Allora pensò bene di rivolgersi all'occidente, avendo realizzato di non avere alternative. (p. 153)
  • Contrariamente all'opinione diffusa in occidente, gli jugoslavi non hanno mai specificamente ripudiato la "dottrina Breznev" sulla "sovranità limitata", ovvero il diritto affermato dall'Unione Sovietica di intervenire militarmente in sostegno di un regime comunista la cui esistenza fosse messa in discussione. (p. 180)
  • Una delle ironie della storia contemporanea è che l'occidente ha avallato l'attuale regime jugoslavo proprio per la sua condizione di paese non allineato, mentre, secondo Tito e i suoi successori, le relazioni della Jugoslavia con i paesi in via di sviluppo sono state usate per sostenere un continuo e violento attacco all'occidente. In termini di potenza, il gruppo dei paesi non allineati conta meno di niente; la maggior parte di quei paesi acquista le armi sui mercati mondiali soprattutto per combattersi a vicenda. Però, come gli jugoslavi hanno imparato per esperienza diretta, nelle battaglie propagandistiche all'Onu, all'Unesco e in altre sedi internazionali, il loro numero conta moltissimo. (p. 191)
  • È difficile dire se la Jugoslavia ha mai causato seri inconvenienti ai sovietici. Questo è un problema ancora aperto. I diplomatici e i giornalisti jugoslavi che hanno relazioni con l'occidente tendono, per ovvie ragioni, a esagerare le divergenze che possono esistere tra i due paesi. (p. 193)
  • La regione del Kosovo, storicamente serba ma ora etnicamente albanese, costituirebbe un problema per qualunque regime. Ma i problemi di quella regione sono stati quasi certamente esasperati dagli sforzi fatti dai comunisti jugoslavi per risolverli, prima con una politica di regressione staliniana, quindi con una munifica politica economica e finanziaria, e ora con un po' di entrambe. (p. 220)
  • L'esperienza del Kosovo può servire di monito ai paladini del Nuovo ordine economico europeo che incoraggiano la concessione incondizionata di aiuti ai leader irresponsabili dei paesi in via di sviluppo. (p. 221)
  • La relativa povertà della Jugoslavia, se paragonata alle condizioni di altri paesi mediterranei, spesso viene attribuita dagli stessi jugoslavi a certe caratteristiche nazionali, all'assenza di qualsiasi tradizione industriale, all'usanza ben radicata della mancia o alla preferenza per il lavoro impiegatizio a quello manuale. Ma il fatto è che tutto ciò viene smentito dalla grande reputazione che i lavoratori jugoslavi hanno in Europa occidentale. È solo nel loro paese, dove tutto e niente appartiene a tutti e a nessuno, e nessuno è responsabile di niente, che tendono ad assentarsi dal lavoro o a indirizzare le loro energie verso attività non socializzate. (p. 255)
  • Normalmente, quasi tutti i politici di successo dicono una cosa e ne fanno un'altra, ma anche in questo Tito si distinse tra i contemporanei per le sue virtù ciarlatanesche. (p. 265)
  • L'arcaica dottrina marxista-leninista e di importazione che Tito ha imposto alla Jugoslavia, negli jugoslavi ha causato un vuoto spirituale, e diversi uomini di cultura di quel paese ritengono che, purtroppo, molti loro compatrioti lo abbiano colmato regredendo nella più primitiva forma di uno sciovinismo etnico che li porta a considerare loro rivali come dei subumani. (p. 266)
  • Non per tutta la massa degli jugoslavi il titoismo ha un saldo completamente negativo: non ci sono truppe sovietiche sul territorio jugoslavo, e diversamente dai russi gli jugoslavi non devono far la coda per le provviste alimentari, anche se in tutta la Jugoslavia, articoli come farina, olio, detersivi e caffè scompaiono spesso per finire sul mercato nero.
    I dissidenti restano una piccola minoranza e molti jugoslavi che in privato condividono le loro opinioni temono che un sovvertimento potrebbe peggiorare le cose. La popolazione jugoslava si è adattata a una società priva di libertà, sapendo anche che tra le altre necessità, il lavoro, l'alloggio, la possibilità di istruzione per i loro figli e quella di viaggiare dipendono dai favori del partito, e si comportano di conseguenza. (p. 278)

Bibliografia modifica

  • Nora Beloff, Tito fuori dalla leggenda, traduzione di Antonio Pitamitz, Reverdito editore, 1986, ISBN 88-342-0136-1

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