Mario Stefanile (1910 – 1977), scrittore, critico e giornalista italiano.

Citazioni di Mario Stefanile modifica

  • Chi ha inventato la «sfogliatella», il più sconcertante dolce napoletano?
    Un architetto barocco che ha voluto ripetere in cucina il gioco arricciolato di una modanatura o un estroso pescatore di «vongole» innamorato dei suoi bei frutti di mare fino a ripeterne nella pasta sfoglia la misteriosa geometria a spirale? O una pazientissima, soave monacella che inconsciamente creò un dolce fatto a simiglianza del suo tenerissimo cuore? [...] Certo, quel nastro di pasta sfoglia che si attorce su sé stesso e sul tenero ripieno di finissima ricotta, di zucchero e di pezzettini di cedro, ha una sua ermetica perfezione, si curva e si rassoda, si stende e si conclude proprio come le mille spire di una valva di conchiglia marina e poi è pronto a sciogliersi in bocca, a dissolversi, a non lasciar di sé che un vivo rimpianto, una traccia di fragranza in cui si mescolano fili d'odori diversi, tutti ugualmente lievi e dolci. [...]
    Come innamorati, anche voi entrate in una di queste pasticcerie del secolo passato, abbandonatevi alla conchiglia barocca, allo squisito dolce monacale: e beveteci su un bicchierino di Marsala. Avrete capito tanto più di Napoli, attraverso una sfogliatella che non attraverso mille guide illustrate.[1]
  • La consonanza assoluta della gente napoletana con la città che la tiene stretta è il fatto capitale, che non somiglia a nessun altro fenomeno sociologico di altrove, perché New York o Londra potrebbero mutare a loro piacimento la loro disposizione urbanistica e la gente neviorchese o londinese non muterebbe di un soffio il suo modo di vivere. [...] Ed è proprio dunque da questo costante abbraccio fra la città e la sua gente, da questo rapporto che all'apparenza è anche irrazionale ma che poi si rivela come un preciso equilibrio di forze concomitanti, che nascono tanti aspetti della socialità napoletana. (Citato nella prefazione di Michele Prisco a Vittorio Gleijeses, Feste, Farina e Forca, prefazione alla precedente edizione (1976) di Michele Prisco, Società Editrice Napoletana, Napoli, 19773 riveduta e aggiornata, p. X.)
  • La pittura di Sara Giusti rappresenta un altro, felice incontro fra le ragioni sentimentali che muovono ad ambizioni di linguaggio e le ragioni intellettuali che dispongono all'arte. A un dato momento, nella vita di una creatura umana fin'allora lontana, ma soltanto in apparenza, dall'impegno di narrarsi e trasfigurarsi in un'espressione meno effimera e incerta e utilitaria della parola parlata o del gesto, scoppia come una irremediabile e perentoria necessità d'affidare al gioco di una lnea su un foglio, all'intreccio di due toni, al variare di un colore fondamentale la vocazione di essere sulla terra qualcuno che porta un piccolo o un grande messaggio. Nasce la pittura, cioè, come poesia: anche se a farla, poi, si debba rischiare e sopportare il titolo di dilettante che, come si sa, talvolta è titolo d'alta novità. (dalla prefazione a Mostra di dipinti di Sara Giusti, Napoli 1950)
  • [...] se il cavallo rampante è l'araldico emblema della nobile generosa e lirica sfrenatezza sentimentale dei napoletani, il domenicale "odor di ragù" è il vaghissimo simbolo della più alta mitologia culinaria. L'odor di ragù festeggia le felici nozze fra il pomodoro, distrutto nel tegame con la cipolla soffritta e il bel "filetto" di carne di manzo, lievemente lardellato, e i maccheroni sui quali pioverà la bianca cascata di pecorino piccante o del parmigiano robusto. Ogni casa napoletana lo esala, quest'odore che si leva come una bandiera, non appena da una comune salsa rossa per condirvi alla meno peggio i maccheroni ma da una raffinatissima, lentissima, perfetta invenzione gastronomica; e a sorvegliare il tegame di creta che su esiguo fuoco sobolle e crepita è chiamato di solito il membro più anziano della famiglia, dalla lunga esperienza e dalla perfettissima calma, chi sa attendere ore e ore che la carne, ben cotta e benissimo insaporita, ceda al suo sugo ogni sua più lieve e segreta fragranza, rosolandosi, braciandosi, cuocendosi fino a diventar tenerissima mentre la salsa si raddensa, si scurisce, perde ogni asprezza e ogni crudezza, si fa ricca, vellutata, morbida, pingue: tale insomma da poter sovranamente condire i maccheroni che ora, appena tolti dall'acqua dove hanno acquistato la loro elastica mollezza, di quel sugo si bagnano, s'intridono, si nutrono e di quel sublime odore – l'odor delle mattinate domenicali di Napoli! – si vestono. Una fogliolina di basilico, tolta appena dal vaso sul balcone, su quel rosso fumante piatto di ragù, sui grossi ziti, sui più esili perciatielli, sui bocconcini soffici che sono gli strozzapreti di quaggiù (non gnocchi, se pure somigliano, ma più lievi e insieme più consistenti, con più semola).
    Son trecento anni, saranno trecento secoli che l'odor di ragù offre e offrirà il benvenuto odoroso di Napoli all'appetito di ogni forestiero. (da Partenope in cucina, Edizione Azienda Soggiorno, Cura e Turismo, Napoli, 1954.[2])
  • Se qui dunque, pullulano i bassi e se ogni casa diventa bottega − come al Lavinaio − è proprio perché da questa economia il napoletano può trarre i mezzi di vita: e non sarà troppo prossimo il giorno, che tuttavia si auspica, di una Napoli pronta a offrire a tutto il milione dei suoi abitanti condizioni perfette di esistenza e di attività. Intanto, qui più che altrove si mostra come la conclamata inerzia napoletana sia invece una geniale attitudine a far diventare ricchezza il talento d'ognuno e come una rete minutissima leghi la grande alla minima industria, il grosso al minutissimo commercio.
    Se un viaggiatore viene qui, tra la lunghissima via Marina e il Rettifilo e va curiosando − con sguardo acuto e cordiale, non distratto e acido − per questa contrada, s'avvederà subito come si tratti proprio di un pullulante fermento economico, come tutto qui risponda a un gioco essenziale della vita. Magari il ricordo di tante tragiche vicende darà un più oscuro colore ai gesti e alle parole di questa parte di Napoli, ma resterà vivo nell'animo di chiunque vi passerà questo «colore locale» che nasconde un significato sociale ben definito, forse anch'esso amabile perché anch'esso necessario alla vita di una grandissima città. (da Aria di Napoli, Azienda Autonoma di Soggiorno e Cura Turismo, Napoli, senza data, p. 50.[3])

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  • Lettera aperta a Mario Stefanile
    Caro Mario
    lettera e non introduzione. Scrivo a te, timoroso del giudizio, come ad ogni amico campano.
    Timoroso (forse – amo la fazione, non ho pregiudizio – la prima volta) del vostro amore che, senza misure, ha il pregio di millenaria giovinezza.
    Strade ne ho corse tante, battuto borghi e vigneti, bevuto vini, assaporato cibi, concupito femmine e chiese, palazzi, luoghi. Mai avevo, così immediato, subìto il fascino di gente e «cose». Mai delirato sùbito per la bellezza esecrata l'idiozia.
    Maggiaiuola la «mia» guida alla «tua» terra, avrei voluto ricordare solo antico canto:
    song' asciute 'i rose 'e maggio
    song' asciute 'i primmavera. [...]
    Ti ho visto attento al bicchiere, pronto a cogliere di vino fortunato intime le suggestioni; lo ami, ne ascolti l'anima.
    Gridala, falla gridare sui giornali, l'anima sconosciuta del Fiano di Lapio, dell'Olivella di Carbonara, del Conca, del'Aglianico di Castelpoto, dell'Ogliastro, della Barbera e del Moscato d'Acquara, dei cento e cento altri solo vogliosi d'essere scoperti e goduti.
    Denunciala la turpe legge che mette fuori giuoco quel mio vino allegro, giovane, brioso, l'Asprino; vino minorenne, vino femmina, lo baci, la baci, ci perdi la testa.
    (Luigi Veronelli)

Note modifica

  1. Da Partenope in cucina, riportato in Pizza e champagne, Prismi, Grandi autori de Il Mattino, 1996, pp. 27-28.
  2. Citato in Vittorio Gleijeses, Feste, Farina e Forca, prefazione (all'edizione del 1976) di Michele Prisco, Società Editrice Napoletana, Napoli, 19773 riveduta e aggiornata, pp. 246-247.
  3. Citato in Vittorio Gleijeses, Feste, Farina e Forca, pp. 327-328.