Mario Pratesi

scrittore italiano

Mario Pratesi (1842 – 1921), scrittore italiano.

Citazioni di Mario Pratesi

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  • [...] la morale della favola [Prometeo di Shelley] è questa: il mondo sarebbe intieramente felice se potesse essere tutto buono; onde il corollario: studiandosi di essere perversi il meno che sia possibile, se non si accresce la somma del bene, si diminuisce almeno quella del male. Il sogno del poeta dunque non è un sogno vano: egli ha sempre ragione.[1]

Figure e paesi d'Italia

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  • La Pianosa m'era di faccia, colà distesa sul mare come una prateria, sì eguale al piano delle acque, da parermi che la dovessero, ad ogni momento, superare e inghiottire. Se non che io la vedevo ingrandirsi, venirmi incontro a occhiate, sicché ben presto mi crebbero le sue rive rocciose, alle quali andavano lentamente a frangersi in poca spuma le onde, come spossate dal moto eterno che le affatica. (p. 68)
  • Non saprei ben ridire quale gradevole impressione mi abbia sempre fatto Firenze, rivedendola dopo aver dimorato alcun tempo in un'altra città, ma specialmente a Roma. L'architettura fiorentina, a paragone della romana, sembra povera e quasi ingenua: nulla ostenta di non proprio, o d'appiccicato, non si presta punto agli scenari teatrali, è la meno accademica di tutte le architetture, ma la più schietta, e ha in sé la grandezza innata del genio democratico e paesano dal quale ella uscì in un tempo in cui questo genio era più spontaneo e potente. Santa Maria del Fiore, Orsanmichele, Palazzo Vecchio, palazzo Strozzi, palazzo Pitti non resultano infine se non da semplici linee, le più nude possibili, ma che bastano perché quegli edifizi ti sorgano innanzi sì urbanamente signorili nella loro magnificenza. (pp. 109-110)
  • San Paolo, con la sua navata centrale larga come una grandissima sala, e con la sua semplice ampiezza, rivestita di tanta sontuosità, mi faceva stranamente pensare a qualche cosa di non reale, alle fantasie greche d'Omero quando descrive le regge quasi olimpiche visitate da Telemaco e da Ulisse. Quei semplici colonnati, riflessi dalla vaghissima trasparenza del pavimento, pei quali mi pareva che aleggiasse un'aura del genio ellenico, suscitavano in me quelle vane e povere fantasie. Unico e mesto ricordo della basilica antica di Valentiniano e Teodosia, quell'impronta dell'oriente barbaro e biblico lassù nei mosaici dell'abside e dell'arco trionfale. (p. 120)
  • Il sole era ancora alto, ma dentro la chiesa [di San Saba] era un'aria quasi crepuscolare. Quella opacità di colore diffusa con varii toni, ma tutti pallidi e smorti, per le colonne, per le muraglie e per l'antico soffitto, non interrotta da niuna cosa che rilucesse, ori, argenti, o lampade accese, contribuiva a dare a quell'interno un senso indefinibile di luogo sacro ai misteri d'un'età spenta e lontana. Nelle pareti superiori della navata mi parve di scorgere alcune tracce d'ingenue pitture, simili alle ultime larve d'un sogno mistico che svanisce. L'unica immagine meno cancellata dal tempo, era, nel centro dell'abside, Gesù redentore, rigidamente ieratico e triste come uscì dall'oscurità delle catacombe, o apparve nelle prime prove della pittura cristiana. (p. 130)
  1. Da L'idea religiosa dopo il 1815 e il «Prometeo» di Shelley, in Nuova Antologia di lettere, scienze ed arti, quarta serie, volume CVII, della raccolta volume CXCI, settembre-ottobre 1903, Direzione della Nuova Antologia, Roma, 1903, p. 43.

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