Marco Ferrari (scrittore)

scrittore italiano

Marco Ferrari (1952 – vivente), giornalista, scrittore e autore televisivo italiano.

Citazioni di Marco Ferrari

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  • Carlo Carcano aveva forgiato il quinquennio d'oro juventino sugli oriundi Monti, Orsi e Cesarini. Si muoveva nel mercato porteño meglio che in quello italiano, aveva i suoi canali informativi, teneva i contatti con i consolati, scriveva ai mediatori argentini di seguire questo o quel calciatore che avesse un cognome italiano, si era abbonato a «El Gráfico» che giungeva a Torino odorando di stiva di transatlantico. Si era portato a casa gente come Luis Monti, Renato Cesarini e Raimundo Orsi, schierati a fianco di Felice Borel II, detto Farfallino per la sua leggerezza nella corsa, Combi, Rosetta e Calligaris. Quei tre oriundi gli avevano regalato la fortuna, ma anche determinato la sua sfortuna. Aveva messo in bacheca quattro scudetti consecutivi, dal 1931 al '34, e tante, troppe invidie. Era finito sotto il tiro dei burocrati fascisti. Lo chiamavano «frocio» e lo schernivano a ogni vittoria consumata ai danni delle altre compagini foraggiate dai gerarchi del potere. Lui mantenne l'eleganza e lo stile di un dandy inglese anche nel fango degli stadi finché il regime non impose alla Juventus di allontanarlo dalla panchina con l'ombra del sospetto aleggiante oltre la giustificazione ufficiale: «Motivi personali indipendenti dalla conduzione tecnica della squadra». Si capiva che dietro a quel provvedimento si celavano questioni private, la pederastia oggetto del pettegolezzo nel mondo sportivo e non solo. Gli altri finiti sotto accusa, Mario Varglien e Luisito Monti, che avrebbero attentato alle virtù del ventenne minorenne Felicino Borel, non furono puniti. Pagò per tutti l'allenatore. Pagò per la frase di Farfallino Borel: «Davanti a lui è proibito togliersi i pantaloncini». Carcano se ne andò all'ottava giornata senza voltarsi, col passo rapido, il vestito grigio, la testa tonda e stempiata, le labbra regolari, il mento prospiciente, le voci che lo rincorrevano in ogni dove. Lasciò il posto all'ingegner Benedetto Gola, dirigente accompagnatore ufficiale della squadra, e a Carlo Bigatto, soprannominato Il Dilettante, i quali riuscirono comunque a conquistare il quinto scudetto consecutivo battendo sul filo di lana l'Ambrosiana-Inter. La decisione riguardante Carcano non fu mai digerita dal presidente Edoardo Agnelli, sapendo benissimo che era l'uomo che aveva guidato la squadra verso la leggenda e che forse avrebbe consentito altri ambiziosi traguardi concludendo un decennio da favola. Ma non andò così. [...] La cacciata di Carcano rovinò la Juventus e aprì il ciclo del Bologna amato da Mussolini che vinse quattro scudetti.[1]
  • [Su Raimundo Orsi] Era un furetto piccolo, ossuto, insignificante, il girovita da segalitico e il naso aquilino. A leggere le notizie sulle Olimpiadi di Amsterdam del '28, dove l'Argentina fu battuta come sempre dall'impavido Uruguay e dove venne giudicato il miglior calciatore della competizione, ci si attendeva [in Italia] un ariete, un peso massimo, un tipo muscoloso, un Carnera d'aria di rigore. Invece sbarcò dal piroscafo quel peso mosca stretto in un soprabito corto che nessuno credette essere l'Orsi atteso dai dirigenti. Quasi stavano per rispedire indietro quel tipo dai capelli lisci, unti di brillantina e la riga centrale, forse un cameriere o un fattorino della nave che voleva spacciarsi per l'ala sinistra della nazionale argentina [...]. Ma la fotografia del passaporto non lasciava dubbi: quell'essere umano di taglia minuta, filiforme ed esigua, magro e denutrito, alto 1,70 per 66 chili, era proprio Raimundo Bibiani Orsi, un'ombra nella sera calata sui moli di Genova. Così i dirigenti juventini lo caricarono senza alcun entusiasmo su una Fiat 508 Balilla e lo trascinarono nelle lande piemontesi, non prima di essersi fermati in un negozio di abbigliamento per sostituire il cappotto che Orsi aveva preso in prestito da un fratello minore temendo, con giusta causa, la rigidità del clima padano. I primi giorni nella capitale sabauda furono angoscianti per il giovane oriundo, poco avvezzo al rigore della blasonata società e alle sconosciute nebbie continentali. Avendo studiato al Conservatorio di Buenos Aires e fatto pratica nell'orchestra di Francisco Canaro, si era portato il suo violino, stava in casa a suonare Mi noche triste di Pascual Contursi oppure a piangere cercando invano di concludere le rime di Mi Buenos Aires querido. [...] Orsi muoveva l'archetto del violino come se muovesse le corde dell'anima e un sussulto di fibre colorava di grigio l'umida stanza torinese. [...] Così conciato – smilzo, affranto, desolato e nostalgico –, i dirigenti juventini lo tennero a bagnomaria quasi un anno prima di mostrarlo in pubblico, anche per diverbi economici con la società di provenienza, con il governo argentino che protestava per il "rapimento" dell'eroe olimpico l'anno prima dei Mondiali del 1930 e dovendo lavorare per dimostrare la sua vera identità italiana per ius sanguinis. [...] In quel purgatorio dorato l'aletta dalle quattro ossa riceveva comunque un ingaggio di 100 mila lire, una paga mensile di 8 mila (che lui pretendeva in pesos argentini), più o meno il salario di un generale o un ingegnere, una villa con affitto pagato più il prestito gratuito di una Fiat 509, quelle con la ruota di ricambio appesa sul portabagagli del retro. Lo si poteva incontrare solo agli allenamenti e al termine delle partite interne di campionato, accompagnato da un sussurro di voci e da un alone di scetticismo. Era l'uomo delle nostalgie, era il ragazzo diviso in due, metà di qua dell'oceano, l'altra metà rimasta alla foce del Río de la Plata. Poi un giorno rimise nella custodia il violino e gli spartiti dei tanghi in lunfardo con i versi bizzarri di Antonio Podestá e Lorenzo Juan Traverso, scritti per la parlata colloquiale dei migranti, e iniziò a far vedere davvero come trattava la palla [...][1]
  • Già negli anni Trenta a Buenos Aires e Montevideo gli italiani superavano per numero gli immigrati degli altri paesi e i nativi messi assieme. È il tempo in cui "un argentino è un italiano che parla spagnolo ma pensa di essere inglese". Per arricchire le nascenti metropoli furono invitati, a diversi riprese, maestri architetti e artisti italiani cesellatori di forbite ricchezze urbanistiche e monumentali come Palazzo Barolo a Buenos Aires. Montevideo, poi, è stata forgiata dagli italiani: Carlo Zucchi e il Teatro Solis ideato nel 1841; Luigi Andreoni per l'Ospedale Italiano Umberto Iº del 1890; Giovanni Tosi e il progetto dell'Hotel National del 1885; gli scultori carraresi Giuseppe Livi, Carlo Piccoli e Giuseppe Del Vecchio e le loro marmoree statue al Cimitero Centrale. Oggi solo le fotografie e i documentari in bianco e nero ci descrivono il cambio d'identità di tanti emigrati italiani.[2]
  • Il principale mistero che svelo è quello relativo al primo allenatore italiano che vinse un campionato in Sudamerica: si chiamava Vessillo Bartoli, era nato a Vado Ligure nel 1908 e faceva parte della rosa di quella squadretta operaia di provincia che passò alla storia per essersi aggiudicata la prima Coppa Italia del 1922 battendo in finale l'Udinese. La sua modesta carriera da mediano si svolse tutta nel ponente ligure, toccando come massima quota la serie C, poiché dopo il Vado approdò al Savona e quindi all'Imperia. Appese le scarpe al chiodo, Vessillo si mette a studiare il "metodo" e quindi si fa avvincere dal "sistema" di Chapman. Qualche amico emigrato lo avvisa che il calcio sta esplodendo anche sulle sponde del Paraguay, andò laggiù, nel maggio 1950 venne assunto dallo Sportivo Luqueño. I giornali gli storpiano il nome in "Vessilio Bártoli", confondendolo spesso con l'omonimo Vito Andrés Sabino Bártoli, allenatore argentino di nascita e italiano d'origine. Nel novembre del 1951 la compagine gialloblù conquista il suo primo campionato nazionale totalizzando 29 punti, quattro in più del secondo classificato, il Cerro Porteño, campione in carica.[2]

succedeoggi.it, luglio 2019.

  • João Gilberto viveva a Rio da solo e in rovina. Negli ultimi anni il musicista aveva avuto problemi di salute, problemi familiari e anche economici. Era nato il 10 giugno 1931 a Juazeiro, nello stato di Bahia. Cantante e chitarrista, ha creato uno stile musicale rivoluzionario, tra la fine degli anni '50 e l'inizio degli anni '60 del secolo scorso, la bossa nova, che mischia samba e jazz. Un nuovo modo di cantare e suonare la chitarra che ha fortemente indirizzato la musica brasiliana che ha così conquistato il mondo. Non si era sottratto alle novità producendo nel 1980 Brazil collaborando con Gilberto Gil, Caetano Veloso e Maria Bethânia, che verso la fine degli anni Sessanta avevano fondato il movimento Tropicália che aveva fuso la bossa nova con il rock.
  • Joãozinho, come lo chiamavano gli amici, faceva parte di quel gruppo di cantanti, artisti e registi che aveva forgiato la nuova cultura brasiliana negli anni delle dure dittature militari. Aveva sposato come seconda moglie la sorella di Francisco Buarque de Hollanda e aveva creato un sodalizio durevole con Antônio Carlos Jobim. Il suo ultimo live era stato a Tokio nel 2004 e il suo ultimo album era una registrazione di duetti con Stan Getz uscito nel 2016. Come Vinícius, non scelse la via dell'esilio quando la dittatura si fece tragedia, dal 1964 al 1985, al contrario di Caetano Veloso, Gilberto Gil e Chico Buarque.
  • Tra i suoi successi internazionali la famosissima canzone Desafinado e l'LP João Gilberto, a volte citato come l'Album bianco della bossa nova. Era anche tra i firmatari di Garota de Ipanema, presentata per la prima volta al pubblico nell'agosto del 1962 in occasione della prima esibizione pubblica di Vinícius de Moraes come cantante, durante lo spettacolo Encontro nel ristorante Au Bon Gourmet di Copacabana, insieme con Antônio Carlos Jobim e João Gilberto, in pratica coloro che erano già considerati l'essenza della bossa nova.
  1. a b Da Ahi, Sudamerica! Oriundi, tango e fútbol, Bari; Roma, Laterza, 2021, ISBN 978-88-581-4528-9; citato in "Ahi, Sudamerica!" - L'arrivo di "Mumo" Orsi, glieroidelcalcio.com, 28 agosto 2021.
  2. a b Da Federico Baranello, "Ahi, Sudamerica!", oriundi, Tango e futbol. Intervista con l'autore Marco Ferrari, glieroidelcalcio.com, 7 agosto 2021.

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