Ali Eteraz

scrittore e giornalista pakistano
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Ali Eteraz (1980 – vivente), scrittore e giornalista pakistano.

Il bambino che leggeva il Corano

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Alla Mecca, i padri si sentono pronti a rinunciare ai propri figli. Nel 1980, nel punto in cui un giorno il profeta Ibrahim stava per sacrificare il figlio Ismaele dopo aver ricevuto una rivelazione divina, nello stesso luogo in cui Dio comandò in sogno ad Abdul Muttalib di immolare il figlio Abdullah, il mio futuro padre, allora ventiduenne, poggiò la fronte al suolo e strinse un patto con Allah Azzawajal, l'Esaltato.
«Ya Allah! Se mi concederai un figlio maschio», disse, «prometto che diventerà un grande capo e servitore dell'Islam!»
Questo accordo stipulato prima della mia nascita, chiamato mannat, ha regolato la mia vita, con inflessibile rigore e intransigenza, per tre decenni. Mi ha addestrato a servire l'Islam e ha fatto del servizio all'Islam il presupposto della mia esistenza. Per adempiere al patto, ho studiato nelle madrasse. Ho rifiutato la compagnia dei non musulmani. Ho protestato contro il laicismo. Ho lottato per i diritti dei musulmani oppressi. E nell'epoca del terrorismo, ho cercato di diventare un riformatore dell'Islam.
Dire che ero innamorato dell'Islam non è abbastanza. Ho portato il vessillo della fede dall'Asia all'America. Ho studiato le scritture e la dottrina islamica dalla più tenera età. Ho desiderato, con il sudore e le preghiere, di poter un giorno ascendere alle vette più alte della mia religione. Mi sono sforzato di diventare un attivista islamico – di diventare l'incarnazione della religione di Muhammad.

Citazioni

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  • Ricordate, non si può emettere una fatwa di condanna a morte contro una risata.[1]
  • La Casa di Dio. L'ho vista due volte nella mia vita. È la cosa più bella dell'universo. Anche gli astronauti te lo diranno, che il mondo sta al centro esatto dell'universo, e la Mecca sta al centro esatto del mondo, e la Ka'ba sta nel centro esatto della Mecca! (Beyji)
  • Il Corano era un codice, una sequenza di 77.701 parole, composte di 323.671 lettere, che ammontavano a più di tre milioni di benedizioni. Ecco perché la ripetizione meccanica dell'intero Corano era tanto popolare. Con tutti i miliardi di benedizioni che accumulava nel corso di una vita, un hafiz si assicurava l'ingresso nel Paradiso. E proprio di questo si trattava: l'aldilà era la cosa più importante della vita.
    Oltre a garantirsi il Paradiso, c'era un altro vantaggio nell'essere un hafiz. Nel Giorno del Giudizio, al hafiz era concesso salvare settantadue persone dai fuochi infernali di Dozakh. Con qualche hafiz ogni tot generazioni, intere famiglie potevano essere risparmiate da un simile tormento. L'unico altro genere di persona a cui Allah concedeva di intercedere per settantadue persone era il martire: ma per diventare tali bisognava morire, un compito assai più doloroso.
  • La vicinanza di quelle ragazze che non potevo toccare, né avvicinare, nemmeno scegliere come amiche, mi turbava. Perché passavo la mia vita a conformarmi all'Islam? Non era forse per avere più cose in comune con gli altri musulmani? Per far parte di una comunità? E dunque, perché la mia fedeltà alla religione, ai precetti dell'Islam, la mia presenza costante a ogni sermone del venerdì e a ogni preghiera di Eid, la mia osservanza del Ramadan, non mi consentivano di avvicinarmi ai fedeli di sesso femminile? Allah, non volevo mica violentarle: volevo semplicemente eliminare l'abisso di anonimato che mi separava da loro. Volevo conoscerle. Salutarle. Volevo dare e avere un nome. Il bisogno di nomi non era forse sancito dalla divinità? Il Corano non diceva forse che la prima cosa che Allah aveva insegnato a Adam erano «i nomi delle cose»? Eppure tra i musulmani dei due sessi quel bisogno non solo non era soddisfatto, ma era considerato opera di Iblis, il diavolo.
    In quel momento mi fu chiaro che per poter vivere la mia vita come volevo dovevo andarmene dall'Allahbama.
    Per farlo, dovevo diventare qualcun altro.
  • Tutto ciò che riguardava l'altro sesso mi era vietato.
    Ammi aveva due mantra per inculcarmi l'immoralità dei rapporti con le femmine. Il primo era basato su un hadith. «Quando un uomo e una donna sono da soli», diceva spesso, «il diavolo è il terzo». Significava che ogni momento trascorso in compagnia di una ragazza equivaleva a adorare Satana.
    L'altro ritornello, «L'uomo è come il burro e la donna è un forno caldo, e il fuoco scioglie sempre il burro», era di incerta origine e di significato altrettanto incerto. Tuttavia, questa frase evocava in me le immagini di vari tormenti infernali – chiaramente descritti dall'imamdella moschea e che prevedevano l'immersione in un calderone di pus – ed era dunque efficace malgrado la sua apparente assurdità.
    Ogni volta che sentivo anche la minima eccitazione, ero colto dal timore. Poi, per prevenire il castigo che Allah e gli angeli mi stavano indubbiamente preparando nell'aldilà, cercavo un modo per punirmi da solo in questa vita. Il mio comportamento da un punto di vista islamico era logico: una volta in Pakistan un imam aveva detto che il motivo per cui le autorità islamiche punivano tanto severamente in questa vita era perché non fossimo puniti per lo stesso peccato nell'aldilà. Immaginavo che, vivendo in America, dove non c'erano autorità islamiche a fustigarmi per penitenza, tanto valeva che lo facessi io al posto loro.
  • Dovevo rendere manifesto il mio amore per l'Islam, ogni religione ha bisogno di segni concreti e tangibili che la rappresentino.
    Mi lasciai crescere la barba affinché si capisse da subito che tenevo all'Islam. Cominciai a portare i pantaloni arrotolati sopra le caviglie perché tutti vedessero che praticavo l'umiltà prescritta dall'Islam. Cominciai a inserire alhamdulillah e subhanhallah quasi in ogni frase. Parlavo inglese con un lieve accento arabo deliberatamente coltivato, perché consideravo gli arabi i migliori musulmani. Feci sapere a tutti che mi stavo per sbarazzare della mia collezione di dischi e che l'avrei sostituita con delle registrazioni di brani del Corano. Citavo spesso il proverbio di Ibn Taymiyya che diceva: «Meglio mille giorni di dispotismo che un solo giorno di anarchia», quando un musulmano vicino a me invocava dei cambiamenti.
    Inoltre, cosa sarebbe stato il mio amore per l'Islam, la religione della pietà, il messaggio finale di Dio, la prova della verità definitiva, se non avessi guidato i non musulmani di tutto il mondo verso la sua ombra benedetta?
  • Il segno più evidente che un immigrato pakistano aveva avuto successo in America era ritornare con una linea straniera, ma poiché noi non avevamo avuto successo, finimmo per tornare a Karachi con la Pakistan International Airlines. [...] Eravamo quelli che erano andati negli Stati Uniti per guadagnare e per trovare una patria, e avevamo scoperto che in America incassare un assegno era molto più facile che sentirsi integrati. Ora, senza essere pienamente americani né pienamente pakistani, ci chiamavamo musulmani e speravamo che la religione fosse sufficiente a identificarci in un mondo fatto di nazioni.
  • Pensai all'idea del Pakistan. Aveva qualcosa che ispirava grandezza. In un mondo in cui c'erano pochissimi esempi di vere imprese musulmane, la creazione di uno Stato nazionale, estratto dalle macerie fumanti del colonialismo e di due guerre mondiali, strappato a forza all'Impero britannico e all'India a maggioranza indù, fondato in nome dell'Islam e santificato da una migrazione simile a quella del Profeta, sembrava un'impresa immane. Il Pakistan era un atto di sovranità compiuto affinché i musulmani potessero raggiungere il loro scopo nella vita: venerare Dio.
  • Ali Eteraz – che significava "Nobile Protesta" – era la mia ultima incarnazione, una nuova fase del mio tentativo di soddisfare il patto congenito con l'Islam. Ali Eteraz era la forza che infrangeva l'incantesimo del silenzio che mi aveva avvolto come un bozzolo dopo che le Torri erano crollate a New York, e che aveva fatto da cuscinetto tra me e la realtà durante i molti anni alla facoltà di legge a Philadelphia. Ali Eteraz era colui che mi aveva fatto alzare la testa e affrontare il mondo in un periodo in cui mi accontentavo semplicemente di giocare ai videogame, guadagnare soldi e tentare di mettere su famiglia. Era Ali Eteraz che mi aveva fatto appassionare alla riforma dell'Islam – un movimento sommerso di milioni di musulmani in tutto il mondo, che sfidavano i teocrati e i terroristi che si erano impossessati della religione.
    Ali aveva cominciato a manifestarsi ancor prima della sua nascita. Poco dopo l'undici settembre, c'era stato qualche fugace istante – alla notizia di un attentato suicida a Madrid, per esempio, o di una decapitazione in Iraq, o di una scuola femminile fatta esplodere in Pakistan – in cui la mia coscienza aveva minacciato di infiammarsi. La combustione però, non si era mai alimentata a sufficienza.
    La situazione era cambiata nel gennaio del 2006 con il disastro delle vignette satiriche danesi. [...] Che questa assurdità potesse produrre tale violenza fu l'ultima goccia. «Basta!», disse a quel punto Ali Eteraz. «L'Islam non appartiene agli idioti».
  • Quando mi resi conto che il mondo aveva fame di qualcuno che si schierasse [...] mi calai nel mio nuovo personaggio. Presi carta e penna e scrissi dei saggi infiammati che denunciavano i «signori dei serpenti» che manipolavano l'Islam per scopi politici e militari, i musulmani che sostenevano la pena di morte per gli apostati, i musulmani incapaci di accettare che l'Islam promettesse l'uguaglianza di tutti, i musulmani che soffocavano la libertà di parola in nome della religione – erano questi musulmani il bersaglio dei miei attacchi.
    La questione dell'apostasia, l'abbandono della propria fede, erano importanti per me quanto per i riformisti. Troppi musulmani in disaccordo con il terrorismo e con la teocrazia erano accusati di apostasia e aggrediti, sfigurati e uccisi. Misi in fila una serie di citazioni dalle scritture islamiche per dimostrare che gli apostati non dovevano essere puniti. Studiai le opere dei saggi del passato e dei contemporanei. Iniziai una corrispondenza con studenti e pensatori in tutto il mondo, e insieme analizzavamo singoli versetti del Corano, perfino singole parole, e innumerevoli hadith per dimostrare ai nostri "co-religionari" estremisti che l'Islam non forniva una base per l'uccisione degli apostati.
  • «È repressivo. Dobbiamo liberare le donne come loro. Le donne con il velo allevano dei fondamentalisti: il velo è la "droga di passaggio" all'estremismo».
    Ziad rise. Sorseggiò il tè e ci pensò un attimo prima di rispondere.
    «Un velo non è una bomba», disse. «Inoltre, liberarle da cosa? Il velo è un simbolo culturale che ha una storia lunga. Se vivi nel Qatar per un bel po', prima o poi ti troverai in una tempesta di sabbia. Le particelle di sabbia sono finissime, e ti entrano negli occhi, nel naso e nella gola e ti tappano tutto. Ti assicuro che quando ne arriverà una, ti coprirai il naso e la bocca anche tu. Probabilmente è così che la gente di questa parte del mondo ha iniziato a portare il velo migliaia di anni fa. In ogni caso, comunque, se vogliono portare il velo, sono libere di farlo. Perché non rilassarsi e compiacersi della varietà del mondo? Mi piace pensare al mondo come a un film di fantascienza. Ci sono tutte queste creature che si trovano vicendevolmente bizzarre, e anche se qualcuno non ci piace dobbiamo comunque rivolgergli la parola».
    «Ma in questo mondo ci sono anche persone – musulmani – che vogliono imporre il velo a tutti. Sono queste le persone che la riforma dell'Islam cerca di fermare».
    «Questa però non è una riforma islamica», rispose Ziad. «Per "imporre" qualcosa a qualcuno, si deve stare al governo. Ogni volta che un governo ti impone qualcosa e tu ti opponi, quella è un'opposizione al governo e basta. Perché devi tirare in ballo l'Islam?»
    «Perché sono loro a dire che è tutta una questione di Islam».
    «Il fatto che lo dicano non vuol dire che sia vero. Sta a te vedere al di là. Ascolta, se il governo americano dice che una parte della popolazione va messa in prigione in nome dei Pokémon, ti trasformi in un esperto di Pokémon per cercare di dimostrargli che mai e poi mai i Pokémon farebbero una cosa del genere?»
  • Devi chiederti per cosa stai lottando, Ali. Sei nemico del fondamentalismo islamico semplicemente perché ti fa rabbia, o perché sei davvero un sostenitore della libertà? E nel secondo caso, perché devi parlare tutto il giorno dell'Islam? Nel primo caso, invece, devi chiederti perché permetti alla rabbia di controllare la tua vita. Oppure... no, lascia stare. Oppure hai solo un bisogno disperato di sentirti importante. (Ziad)
  • Secondo me, poiché molte delle riforme nel mondo musulmano – come la legge sulla protezione delle donne – richiedevano la modifica di leggi derivate da un'interpretazione scorretta dell'Islam, la cosa più utile per gli attivisti sarebbe stata avere un luogo dove poter lavorare con dotti che potessero dare un imprimatur religioso alle conquiste del progresso sociale. In altre parole, volevo assicurarmi che la vita dei musulmani venisse migliorata, ma volevo anche che il merito di quei miglioramenti andasse all'Islam.
  • La preghiera dissennata è per i deboli | Col digiuno stupidamente chi è senza pane risparmia il pane | Solo chi ha cattive intenzioni proclama sempre a gran voce la religione | Solo chi scansa le fatiche domestiche compie il pellegrinaggio alla Mecca | Puoi celebrare riti a milioni | Ma non è questa la vita dell'Amato | Finché il tuo cuore non è puro | Le tue prosternazioni sono vane | Finché non rinunci all'idolatria | Sarai un estraneo per l'Amato (Bulleh Shah)
  • Sto cercando di mettere insieme un gruppo di esperti. Voglio creare un sistema di monitoraggio legislativo per essere al corrente della modernizzazione della legge islamica nei vari Paesi a maggioranza musulmana. Voglio attaccare la teocrazia e il terrorismo da una prospettiva islamica. Voglio creare una fabbrica di editti liberali. Voglio promuovere la creazione di immagini affinché l'Islam abbia un rinascimento artistico come quello europeo.
  • «Da quanto tempo vivi in un Paese musulmano?», chiesi a un tratto.
    «Da due terzi della mia vita».
    «Eppure non sei mai diventato un riformista?».
    «No».
    «E non sei mai diventato un fondamentalista?»
    «No».
    «E non hai mai voluto diventare un capo dell'Islam?»«No».
    Alzai le sopracciglia. «Lo trovo stupefacente».
    Ziad rallentò e mi lanciò un'occhiata. Si passò la mano sopra il sopracciglio sinistro, facendosi piovere granelli di polvere sulle gambe.
    «Voglio farti io una domanda», disse.
    «Cosa?»
    «Da quanto tempo sei al mondo?»
    «Scusa?»
    «Da quanto tempo sei vivo?»
    «Da tutta la vita, direi».
    «Quando è stata l'ultima volta che hai fatto volare un aquilone in montagna?»
    «Mai».
    «Quando è stata l'ultima volta che ti sei sdraiato a terra e hai scattato foto agli insetti?»
    «Mai».
    «Quando è stata l'ultima volta che hai salvato dei ragazzi beduini nel deserto?»
    «Mai».
    «Be', amico, questo io lo trovo stupefacente».
    Non dissi nulla. Mi sentivo come se fossi sepolto fino al collo nella sabbia e qualcuno stesse scagliando pietre alla mia essenza. Eppure le pietre non mi mandarono in frantumi, si rivelarono essere globi di luce. Mi scesero nella gola e si raccolsero nel mio stomaco. Divennero una pozza di luce brillante che si fuse e cominciò a ribollire. Poi un immenso getto di risate sgorgò dal mio ombelico e il raggio di luce si poté vedere fino a Damasco.
    Ridemmo a crepapelle.
  • Quel versetto si riferisce al patto di A lastu. L'alleanza originaria. Quella che stabilisce l'idea di un "Noi" umano. Dio ci ha radunati – tutti noi: tu, io, i tuoi antenati, la tua progenie, l'umanità passata, presente, futura – e ci ha fatto una domanda molto semplice, e noi – insieme, all'unisono, in quanto razza umana – abbiamo fatto un'affermazione. Lui ci ha chiesto "Sono Io?", noi abbiamo risposto "Sì, sei tu". Abbiamo affermato Dio. Abbiamo dato il nostro consenso, stabilito che dio era Dio. Quell'affermazione ha stabilito anche che noi eravamo Noi. È stato necessario che diventassimo tutti Uno per poter affermare Dio. Ek nuqte vich gul muqdi e, "Tutto è contenuto in Uno". Noi siamo colui che è Dio. È questo che diceva Bulleh Shah. È per questo che ho pieanto quella notte che hai tradotto la sua poesia, perché non avevo mai sentito l'idea espressa così perfettamente. Nella letteratura mistica, l'affermazione del patto di A lastu è chiamata la Prima Testimonianza. È primordiale. È originaria. C'è anche una Seconda Testimonianza, ma viene molto più tardi. È quando ognuno di noi, nella sua esistenza individuale, afferma le sue varie religioni o ideologie o filosofie. Tu, amico mio, metti la Seconda Testimonianza prima e al di sopra della Prima. È sbagliato. È sbagliato perché il vero patto che guida la tua esistenza, quello da cui dovresti essere ossessionato, è al servizio dell'umanità. È per il "Noi". È per Dio. Invece tu te ne vai in giro con il tuo patto – il falso patto – che è al servizio dei soli musulmani, credendoti impegnato nell'opera di Dio. Hai fatto di Dio un socio. L'Islam è il tuo idolo. (Ziad)
  1. Forse.

Bibliografia

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  • Ali Eteraz, Il bambino che leggeva il Corano, traduzione di F. Graziosi, Newton Compton Editori, 2009. ISBN 978-88-541-1654-2