Heinrich Harrer

alpinista, esploratore e scrittore austriaco

Heinrich Harrer (1912 – 2006), alpinista, esploratore, sciatore e scrittore austriaco.

Heinrich Harrer, 1997

Sette anni nel Tibet

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Tutti i nostri sogni cominciano in gioventù...
Da bambino le imprese degli eroi dei nostri giorni mi entusiasmavano molto di più delle materie scolastiche. Gli uomini che erano andati a esplorare nuove terre o che con fatica e abnegazione si erano preparati a diventare campioni di qualche sport, i conquistatori delle grandi vette: questi erano i miei modelli, e imitarli era lo scopo che mi prefiggevo. Mi mancavano però i suggerimenti e la guida di consiglieri esperti, così persi molti anni prima di rendermi conto che non si devono inseguire più obiettivi nello stesso momento. Tentai di praticare diversi sport senza raggiungere quel successo che mi avrebbe potuto appagare. Alla fine decisi di concentrarmi sui due che ho sempre amato per il loro stretto legame con la natura: lo sci e l'alpinismo.

  • C'era ancora un precipizio invitto, il più alto e il più pericoloso di tutti: la parete settentrionale dell'Eiger. Questi 2063 metri di roccia a picco non erano mai stati scalati fino in cima. Tutti i tentativi erano falliti, e molti uomini avevano perso la vita nel provarci. Un bel po' di leggende erano cresciute attorno a questa mostruosa parete montana, e alla fine il governo svizzero aveva proibito agli alpinisti di scalarla. (p. 4)
  • Non c'è dubbio che questa fosse l'avventura che andavo cercando. Se fossi riuscito ad aprirmi un varco attraverso le difese vergini della parete settentrionale dell'Eiger, avrei avuto il legittimo diritto, per come stavano le cose, di essere scelto per una spedizione nell'Himalaia. Come nel 1938, insieme con i miei amici Fritz Kasparek, Anderl Heckmaier e Wiggerl Wörg, io sia riuscito a scalare la terribile parete è stato descritto in molti libri. (pp. 4-5)
  • Peter Aufschnaiter, il leader della spedizione tedesca nel Nanga Parbat [...] (p. 5)
  • [Sul Nanga Parbat] Fino a quel momento c'erano stati quattro tentativi di scalare quella montagna di 8125 metri, tutti falliti. Erano costati molte vite umane, così si era deciso di cercare una nuova via per salire. Questo sarebbe stato il nostro compito, mentre la scalata vera e propria era prevista per l'anno successivo. (p. 5)
  • Nel corso della spedizione nel Nanga Parbat cedetti alla magia dell'Himalaia. La bellezza mozzafiato di queste gigantesche montagne, l'immensità di terre che dominano dall'alto, la singolarità della popolazione dell'India: tutto ciò creò come un incantesimo nella mia mente. (p. 5)
  • A Karachi rimase soltanto Peter Aufschnaiter, che aveva preso parte al primo conflitto mondiale e si rifiutava di credere allo scoppio di un secondo. (p. 6)
  • Qui incontrai per la prima volta i veri nomadi tibetani, che con le loro greggi di pecore portano sale in India, ricevendo in cambio orzo. Qui mi fu offerto il tè tibetano al burro con tsampa, una sorta di farina d'orzo arrostito che costituisce l'alimento principale di questo popolo, del quale più tardi anch'io mi sarei nutrito per anni. Quella volta però il mio stomaco quanto il mio intestino protestarono energicamente contro tale cibo. (p. 22)
  • Fui costretto a scalare il Nag Tibba, una montagna di oltre 3000 metri che nella sua parte superiore è completamente spopolata e coperta di fitti boschi. (p. 26)
  • Peter Aufschnaiter sciorinò invano tutte le sue conoscenze linguistiche, acquisite con uno studio assiduo di anni. (p. 33)
  • La contrada da noi attraversata era priva d'acqua e arida, senza tracce di vita. Il suo centro, la piccola città di Tsaparang, era abitato soltanto nei mesi invernali, e quando ci recammo dal governatore ci fu detto che stava facendo i bagagli, essendo in procinto di trasferirsi a Shangtse, sua residenza estiva. (p. 33)
  • Tsaparang era davvero una «curiosità». Dai libri, studiati al campo, avevo appreso che qui era stata fondata la prima missione cattolica del Tibet. Il padre gesuita portoghese Antonio de Andrade aveva dato vita nel 1634 a una comunità cattolica e sembra che avesse costruito qui anche una chiesa. Cercammo le tracce o i resti di questo edificio cristiano, ma non scoprimmo nulla: soltanto innumerevoli grotte testimoniavano l'antica grandezza di Tsaparang. (p. 34)
  • Allorché mi recai dal funzionario per pregarlo di prolungare il permesso di soggiorno, si mostrò più scortese che mai. Scoppiò una violenta discussione, e alla fine ottenni soltanto che mettesse a nostra disposizione un cavallo per Aufschnaiter oltre a due yak per il trasporto bagagli. In tale occasione venni per la prima volta a contatto con uno yak. È la tipica bestia da soma tibetana, e può vivere soltanto a questa altitudine. È una specie di bove dal pelo lungo, il cui addomesticamento richiede molta abilità. Le femmine sono molto più piccole del maschio e danno ottimo latte. (p. 36)
  • Poi, mentre mettevamo ad asciugare le nostre cose al sole, scorgemmo all'improvviso due figure. Riconoscemmo subito la prima dal suo passo regolare e lento da alpinista: era Peter Aufschnaiter, accompagnato da un portatore. (p. 41)
  • Dopo calorosi saluti, Aufschnaiter cominciò a raccontare le sue avventure. Si era separato il 17 giugno da Treipel, con il denaro rimastogli aveva acquistato un cavallo, sul quale da «inglese» si era diretto verso l'India. Aufschnaiter si era nel frattempo ammalato, e dopo essersi stabilito aveva seguito il nostro itinerario. Per strada aveva appreso gli ultimi avvenimenti della guerra, e benché in questo angolo remoto vivessimo come in un altro mondo, ascoltammo con grande interesse le novità. (p. 41)
  • Alto svettava il Gurla Mandhata, di 7782 metri; meno appariscente, ma tanto più famoso, il sacro monte Kailash, di circa 6714 metri, solitario nella sua maestosa belllezza e isolato dalla rimanente catena dell'Himalaia. Alla sua vista i nostri tibetano si gettarono a terra e pregarono. Questo monte è l'alta sede degli dei secondo i buddhisti e gli induisti, il cui più grande desiderio è di recarsi i pellegrinaggio almeno una volta nella vita. (p. 48)
  • Attraversando passi poco elevati arrivammo alla regione delle sorgenti del Brahmaputra che i tibetani chiamano Tsangpo. [...] Per i quattordici giorni seguenti ci fu di guida lo Tsangpo. Alimentato da forti corsi d'acqua provenienti dal vicino Transimalaia e Himalaia, questo fiume si gonfia a vista d'occhio, e quanto maggiore è il suo volume d'acqua, tanto più calmo è il suo corso. (p. 50)
  • Come nei paesi cattolici, anche qui le campagne vengono benedette dai sacerdoti. Una lunga processione di monaci, seguiti dalla popolazione, fece il giro del villaggio, portando sulle braccia i centootto volumi della Bibbia tibetana, accompagnati da preghiere e musica sacra. (p. 69)
  • In quel momento fu invece qualcosa d'altro ad attrarre la nostra attenzione: un gigantesco chörten, alto più di venti metri, testimoniava la santità particolare del luogo. Intorno a questo una quantità di mulini di preghiere – riuscii a contarne ottocento –, i cui tamburi giravano incessantemente: vi erano applicate le strisce con le formule delle orazioni, che senza posa impetravano la benedizione degli dei. (p. 86)
  • [Sulle ruote delle preghiere] Era importante che rimanessero sempre in movimento, e a tale scopo vidi un monaco che aveva il compito di controllare e ungere gli assi intorno ai quali ruotavano. Nessun fedele che passasse faceva a meno di muoverli. Vecchietti e vecchiette sedevano spesso tutto il giorno davanti a questi tamburi giganteschi, alti parecchi metri: li facevano girare con devozione e supplicavano gli dei di concedere a loro e a chi li manteneva un più alto grado di reincarnazione. (pp. 86-87)
  • Altri fedeli portavano con sé piccoli mulini portatili quando si recavano in pellegrinaggio. Non mancavano mulini girati dal vento sui tetti, e anche l'acqua veniva messa spesso a servizio della devozione religiosa. (p. 87)
  • Questi mulini di preghiere e l'ingenuo modo di pensare che attestano sono tipici del Tibet tanto quanto i mucchi di pietre e le banderuole sacre che avevamo incontrato sui passi montani. (p. 87)
  • Dovevamo ancora coprire migliaia di chilometri prima di raggiungere la Cina. Ma fino a Lhasa i nostri soldi sarebbero stati sufficienti. Ecco di nuovo il fascinoso nome della «città proibita». E la possibilità di raggiungere l'oggetto dei nostri sogni era ormai a portata di mano. Un irresistbile desiderio si impadronì di noi, e la nuova meta ci parve meritare ogni sacrificio. (p. 88)
  • Già al campo di prigionia avevamo letto tutti i libri su Lhasa che eravamo riusciti a trovare. Non erano molti, e tutti erano stati scritti da inglesi. Apprendemmo che nel 1904 una spedizione punitiva britannica, costituita da un piccolo esercito, aveva raggiunto la capitale, e che negli ultimi vent'anni molti europei l'avevano visitata. Da allora il mondo ha conosciuto solo superficialmente Lhasa, e per gli esploratori nessuna meta è più attraente della casa del Dalai Lama. (p. 88)
  • Stavamo attraversando una regione pittoresca oltre ogni dire. Incontrammo anche uno dei più grandi laghi del mondo, il Nam, o Tengri Nor. Per farne il giro sembra che ci vogliano undici giorni. Quasi quasi neppure lo vedemmo. Avevamo sempre desiderato vedere uno dei grandi laghi emissari del Changtang. Ora stava davanti a noi, e nulla riusciva a scuoterci dalla nostra apatia. (p. 112)
  • Di nuovo trovammo i tipici mucchi di pietre, sopra i quali ondeggiavano le più variopinte banderuole sacre che avessi mai visto. (p. 112)
  • Quante volte questa strada avrà udito i pellegrini mormorare senza posa la più usuale formula mistica buddhista, «Om mani padme hum», per mezzo della quale essi chiedono protezione dai gas velenosi, come chiamano i tibetani la mancanza di ossigeno. (p. 112)
  • I tibetani, come tutti i mongoli, non hanno quasi peli sul corpo. Noi invece portavamo una barba incolta, come un bosco selvaggiamente cresciuto. Perciò eravamo spesso considerati dei kazaki, una razza dell'Asia centrale, i cui appartenenti erano emigrati a frotte, durante la guerra, dall'Unione Sovietica nel Tibet. Avevano attraversato con famiglie e greggi, predando, il paese, e l'esercito tibetano aveva cercato di spingerli quanto più rapidamente possibile verso l'India. I kazaki sono spesso di pelle piuttosto bianca, hanno occhi chiari e una barba normale. Non c'era quindi da meravigliarsi se ci avevano creduti di tale razza, respingendoci molte volte quando chiedevamo asilo sotto le tende. (p. 119)
  • Il 15 gennaio 1946 partimmo per l'ultima tappa. Dalla regione di Tolung sfociammo nella larga valle del Kyi Chu. Doppiammo un angolo e vedemmo brillare in lontananza i tetti dorati del Potala, la residenza invernale del Dalai Lama, il più famoso monumento di Lhasa. Questo momento ci compensò di tutto ciò che avevamo passato. Per l'emozione ci saremmo inginocchiati e come pellegrini avremmo toccato con la fronte la terra. Da Kyirong avevamo percorso quasi mille chilometri, avendo sempre davanti agli occhi la visione di questa città favolosa. La marcia era durata settanta giorni, con cinque soli giorni di sosta. Ne risultava una media di circa quindici chilometri al giorno. Quarantacinque giorni del nostro viaggio erano stati spesi nell'attraversamento del Changtang, sostenendo fatiche improbe, lottando con la fame, il freddo e i pericoli. Che importanza aveva tutto ciò di fronte alla vista dei pinnacoli dorati? Paure e strapazzi erano ormai dimenticati. (p. 120; 1998, p. 153)
  • E qui davanti a noi Drepung, il più grande monastero del mondo, dove vivono circa diecimila monaci. (p. 121)
  • Le donne nomadi non sono meno esigenti, quando scelgono stoffe di cotone per nuove banderuole sacre. (p. 136)
  • Particolare interesse suscitò il fatto che Aufschnaiter fosse un agronomo. In questo campo nel Tibet non c'erano esperti. E che possibilità c'erano in questo grande paese! (p. 139)
  • Nel frattempo aveva fatto la sua comparsa la primavera, benché fossimo ancora ai primi di febbraio. Lhasa è situata a sud del Cairo, e ad alta quota i raggi del sole sembrano notevolmente più forti. (p. 142)
  • [Sul monastero di Tashilhunpo] Durante il mio breve soggiorno a Shigatse visitai anche questo monastero. Si trattava di nuovo di una vera città, nella quale vivevano migliaia di monaci. Di nascosto scattai anche qualche fotografia. Rimasi particolarmente impressionato da una statua d'oro in un tempio, rappresentante un dio, che era alta nove piani. (p. 307)
  • La città di Shigatse, non lontana dal monastero, è situata nei pressi dello Tsangpo e ricorda un po' Lhasa. Ha diecimila abitanti, ed è nota perché vi si trovano i migliori artigiani del Tibet. Si lavora soprattutto la lana, trasportata dal Changtang per mezzo di interminabili carovane. È rinomata anche per la sua tessitura di tappeti, benché quelli di Gyantse siano più pregiati. È a un'altitudine maggiore di Lhasa, ed è più fredda. Ciò nonostante cresce qui il miglior grano del paese, tanto che il Dalai Lama e molti nobili si riforniscono di farina proprio a Shigatse. (p. 307)

Voci correlate

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Bibliografia

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  • Heinrich Harrer, Sette anni nel Tibet, traduzione di Guido Gentilli, Mondadori, 1997. ISBN 8804421452
  • Heinrich Harrer, Sette anni nel Tibet, traduzione di Guido Gentilli, Mondadori, 1998. ISBN 88-04-45307-9

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