Guido Manacorda

germanista e scrittore italiano (1879-1965)

Guido Manacorda (1879 – 1965), germanista e scrittore italiano.

Studi e saggi

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  • Appena Wagner si persuase, che la realtà dell'arte non è la verità storica, quotidiana, contingente, superficiale, individuale, cosciente, ma la menzogna mitica lontana, eterna, profonda, creata dal popolo, parve a lui che solo i tedeschi fossero di cotesta menzogna sterminatamente ricchi. (p. 66)
  • [...] nel suo smisurato orgoglio tedesco, Wagner giunge fino al mostruoso, fino all'assurdo. – V'è per lui un solo popolo al mondo predestinato al dominio, in possesso anzi di cotesto dominio, nella duplice forma spirituale e politica: il popolo franco; tanto vale: il fiore della germanità. (p. 68)
  • Egli, Wagner, sì ha indagato e riconosciuto se stesso; ed a cotesto riconoscimento appunto deve quella «rinascita dall'interno», che egli auspica al proprio popolo. C'è forse qualche disegnatore o pittore, che abbia saputo fermare con tratti indelebili l'espressione vera del suo spirito? Non certo il Kietz, e neppure il Willich, e neppure lo Stocker-Escher e tanto meno il Lenbach. Ma la sua figura balza viva e parlante dai suoi scritti [...]. (p. 71)
  • Hugo von Hofmannsthal è giovane di anni, ma vecchio di gloria. Nato in un tempo in cui il naturalismo ed il verismo – due brutte parole che stanno a indicare due bruttissime scuole od orientamenti letterari – erano presso al loro apogeo, fiorì nel momento in cui essi inclinavano al tramonto, o meglio, a precipitosa rovina; nel momento in cui dall'immondezzaio e dal ciarpame rovistato in tutti i modi, si emanava ormai tale lezzo da fare arretrare anche gli animi più coraggiosi. (p. 149)
  • La gente per bene ne parla sottovoce; i professori dalla cattedra glissent, n'appuient pas, gli amatori di cose grassocce ed i collezionisti di bibliotechine pornografiche gli riservano un posto di onore fra il Satiricon di Petronio e i Dialoghi dell'Aretino. Povero Villon! Se il suo spirito travagliato vivesse ancora tra noi, chi gli farebbe perdere peggio le staffe: questi col loro inintelligente entusiasmo, o quelli col loro presuntuoso dispregio? (pp. 167-168)
  • Non è un Apollo, Villon, siamo d'accordo. Più magro «d'una chimera», più nero «d'uno scovone da forno», i denti più lunghi di quelli d'un rastrello, raso il capo, la barba, i cigli; malato, avariato, vecchio a trent'anni. Non lo dico io, lo dice lui, a chi vuol sentire ed a chi non vuol sentire, con quella sua lingua che taglia e che cuce. Una figura «tra l'orso e il porco», col peggio dell'uno e dell'altro. Pure raggia dai suoi occhi – questo non lo dice, ma possiamo bene figurarcelo senza tema d'errare – un divini aliquid, come raggio di sole tra piovaschi. (p. 171)
  • [Commentando un giudizio di Paul Bourget] Veramente «serissimo e profondissimo» Barrès? L'affermazione mi sembra in verità tra le più arrischiate. (p. 197)
  • Henri Barbusse è un avversario rispettabile. Si può, credo io si deve, fortemente combattere; ma è un avversario a cui fa piacere stendere la mano, prima e dopo lo scontro. La sua buona fede e la rettitudine dei suoi propositi sono fuori discussione. Il ricordo delle fierissime sofferenze di guerra lo perseguita, lo esaspera, lo ossessiona: è vero. Ma solo chi non le abbia provate potrà fargliene colpa. (p. 225)

Bibliografia

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  • Guido Manacorda, Studi e saggi, Felice Le Monnier, Firenze, 1922.

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