Giuseppe La Farina
patriota e scrittore italiano (1815-1863)
Giuseppe La Farina (1815 – 1863), patriota, scrittore e politico italiano.
Citazioni di Giuseppe la Farina
modifica- Vero egli è, che le rivoluzioni sono iniziate dalle minoranze; ma le rivoluzioni cadono miseramente, se non sono accettate e ordinate dalle maggioranze.[1]
L'Italia dai tempi più antichi fino ai nostri giorni
modifica- [...] ben presto il nuovo imperio [di Claudio] si guastò. Dicono per le libidini di Messalina moglie del principe e per le insolenze e male arti di Narciso suo liberto; come se i Narcisi e le Messaline viver potessero e governare un imperio, se non in tempi e luogo di tanta bruttura capaci. Né Claudio era sì buono d'indole, se, come è scritto nelle storie, tanto deliziavasi de' giuochi gladiatorii, se gran numero di schiavi e liberti faceva gittare alle fiere, se sgozzar faceva gladiatori, pel piacere di vederli in viso trafelanti, E da' plebei passò subito a' nobili, e il primo a cadere fu Caio Appio Silano, reggente la Spagna. (vol. II, cap. III, pp. 114-115)
- In Messalina cupidità di denaro, ambizione di dominio e bestiale libidine si congiungevano; ond'ella, d'accordo co' liberti, le prefetture degli eserciti e delle provincie e i più alti uffici dell'imperio sfacciatamente vendea, e le sue medesime lascivie, ne' lupanari, all'insaputa del marito, i più nobili e belli de' due sessi stimolando, favorendoli se cedeano, spegnendoli se ripugnavano: lo che tutta Roma sapeva, meno Claudio[2], [...]. (vol. II, cap. III, p. 116)
- Dicono che in fine degli spettacoli [nell'Anfiteatro Flavio] Tito spargesse gran pianto, non per compassione di tanta gente sbranata, e trucidata, ma per sentimento o della propria, o della comune fralezza[3]; e andò poi in Sabina, attristato, non pel sangue fatto spargere, ma per non so quali tristi presagi. Alla prima posta fu preso da febbre. Indi tratto in lettiga, levata la cortina, mirò in cielo, e molto si dolse che, nol meritando, sì tosto morir dovesse. Portato in quella medesima villa, ove il padre suo era morto, s'aggravò il male. Dicono alcuni che [il fratello minore] Domiziano, schivo d'indugi, a titolo di rimedio, lo abbia fatto mettere in bagno di neve e lasciarvelo: altri affermano gli facesse propinar veleno. (vol. II, cap. IV, p. 195)
- Morì Tito di anni quarantuno, dopo due anni e due mesi d'imperio. Fu detto allora, e forse con ragione, essere stato a lui fortuna il morir giovine, come ad Augusto il morir vecchio. Questi che moltissime atrocità commise nel principio del principato, ebbe necessità di lunga vita e grande industria per farle obliare; quegli, ch'era in possesso del pubblico amore, se fosse più vissuto correva pericolo di perderlo, non potendo mantenere que' diportamenti che glielo avevano procurato. (vol. II, cap. IV, p. 195)
- Nel principio Domiziano era solito ogni giorno di starsi un'ora appartato e solo in un luogo segreto, né ad altro attendeva che a pigliar mosche, e di poi infilzarle in uno stiletto bene aguzzo che aveva; ma di questa follia chi v'era che si dasse pensiero, o ne traesse cattivo augurio? Come dir male di un principe che, oltre all'avere festeggiato il popolo, lo convitava a splendido banchetto; e gli dava tre volte il congiario, cioè un dono di 300 nummi per testa; e gli gittava grandissima quantità di tessere, nelle quali era un segno di qualche regalo, carne, grano, uccelli, vino, che si andava poi a prendere nelle canove del principe? (vol. II, cap. IV, pp. 197-198)
Storia d'Italia narrata al popolo italiano
modifica- Il re Pietro, risaputa in Randazzo la partenza dell'esercito francese, andò a Milazzo, costrinse quel presidio ad arrendersi, e di là mosse verso Messina. Era con lui Macalda di Scaletta, seconda moglie di Alaimo di Lentini. Ell'era vedova di un conte Guglielmo d'Amico, esule al tempo degli Svevi : avea vagato per diversi paesi in veste di frate minore : poi soggiornò in Napoli ed in Messina con non buona riputazione di onestà; riebbe da Carlo i beni che l'erano stati confiscati, e si rimaritò con Alaimo. Nel vespro stando in Catania, tradì i Francesi, che a lei eransi affidati, tolse loro le robe e li consegnò al popolo; ed ella governò quella città in nome del marito occupato nella guerra di Messina. Macalda si presentò a re Pietro in Randazzo: andava coperta di piastre e di maglie di ferro, portava in mano una grossa mazza di argento; ed avvegnaché toccasse già i quarantanni, nondimeno, come scrisse il D'Esclot «ella era molto bella e gentile, e valente del cuore e del corpo, larga nel donare, e, quando ne era luogo e tempo, valea nell'arme al pari di un cavaliero[4]». Il re l'accolse con molta cortesia, la ricondusse egli stesso all'albergo, ma i desiderj della donna o non intese, o dissimulò. Giunti a Santa Lucia, sulla via da Milazzo a Messina, Macalda viene al re, dice non aver trovato ove passar la notte, gli chiede voglia albergarla. Il re le cede le sue stanze e si ritira in altro luogo. Lo siegue Macalda; ed allora il re chiama i suoi cavalieri, s'intrattiene in discorsi senza costrutto, come suole chi annoiasi o voglia prender tempo, e da ultimo si addormenta; offesa che risentì profondamente Macalda, la quale più tardi, per vendicarsene, rovinò sé ed il marito, come a suo luogo sarà discorso.[5] (Vol VI: 1250-1314, Cap. XLVII – Continuazione delle cose di Sicilia, p. 274)
- La grande riputazione acquistatasi da Alaimo non potea non destar sospetti nell' animo dell' infante don Giacomo, precoce mirabilmente nella cattiveria, ed al quale bene appropriava il Muntaner il proverbio catalano: «Spina non punge se non nasce acuta (2)». Certamente contribuiva a renderlo sgradito all' infante e alla corte la superbia della moglie Macalda, la quale pare che molto potesse sull' oramai vecchio marito. Ella niegava di dare a Costanza il nome di regina; chiamavala «la madre di don Giacomo». In corte non andava quasi mai, o se qualche volta mostravasi era per fare sfoggio de' suoi vestiti di porpora e de' suoi ricchi adornamenti (3). Essendo incinta, come maggiore ad ogni legge, volle far soggiorno nel convento de Frati minori, che piacevale per l'amenità del luogo, e quivi partorì. Costanza andò a visitarla e fa sgarbatamenie ricevuta: si profferì col figlio a tenere al fonte battesimale il fanciullo: rispose la madre che temea il freddo dell' acqua gli nuocesse così piccino; e tre dì dopo lo fece battezzare dandolo a tenere ad uomini del popolo. Un' altra volta fu notato, che essendosi la regina, perché inferma, fatta portare su di una barella da Palermo al santuario di Morreale, l'indomani Macalda, ne inferma ne per cagione di divozione, si fece portare per le vie di Palermo in barella coperta di scarlatto, e di poi viaggiò in quella guisa da quella città fino a Nicosia, il che parve strana e superba cosa in quei tempi. Spiacque anco molto in corte, che viaggiando per l'isola 1 infante don Giacomo con iscorta di trenta cavalli, ella, che volle accompagnarlo, ne menasse seco trecento, e si arrogasse l'autorità di maestro giustiziere, ufficio stato conceduto al marito. Ne le parole raffrenava, e sappiamo che un dì disse al Loria, uomo alla corte devotissimo, e dell'autorità e fama di Alaimo invido e nemico: «Bel compenso ci rende il vostro re don Pietro! Noi lo chiamammo compagno e non re, ed egli, assumendo il dominio del regno, noi che siamo compagni tratta come servi (d)». Aggiungono gli storici a questi fatti palesi e certi altri oscuri e forse finti, cioè che Macalda facesse giurare il marito non darebbe consigli contro i Francesi, procurerebbe il loro ritorno in Sicilia (2). Queste femminili vanità ed intemperanze, se non cagionarono, sollecitarono la rovina di Alaimo, il quale avendo molto contribuito ad assicurare la corona di Sicilia a' reali di Aragona, dovea da costoro essere odiato, perché somiglianti beneficj si pagan sempre colla ingratitudine. Giacomo raduna segretamente in Trapani tutti i suoi fedeli e tutti i Catalani eh' erano ne' dintorni. Quivi egli chiama a sé Alaimo, gli espone i pericoli del regno se il padre non mandi solleciti aiuti : egli solo potrebbe ottener tutto: vada in Catalogna; le galere sono nel porto apparecchiate: salvi alla patria la libertà e al re la corona. Allora tutti i cortigiani circondano Alaimo, e lo priegano con grave istanza e lo sollecitano a partirsi. È li fissa in viso, comprende il suo stato, non vede scampo, risponde che andrà, e nel medesimo dì monta in nave e naviga verso Barcellona, ove Pietro lo accoglie onorevolmente, loda, promette e lo ritiene seco con segni di affetto non sì bene simulati che Alaimo dell' infingimento non s'accorgesse (4). (Vol VI: 1250-1314, Cap. LV Della rovina di Alaimo di Lentini e di sua moglie Macalda, pp. 303-304)
Citazioni su Giuseppe la Farina
modifica- La Farina era linguacciuto e vanaglorioso, non godeva nessun credito presso i suoi compaesani, e Garibaldi e Crispi lo detestavano. (Indro Montanelli e Marco Nozza)
Note
modifica- ↑ Da una lettera a Mazzini, fine del 1851, ripr. in G. La Farina, Epistolario, a cura di A. Franchi, Milano 1869, vol. I, pp. 422-23; citato in Denis Mack Smith, Il Risorgimento italiano. Storia e testi, Gius. Laterza & Figli, 1968; edizione Club del Libro, 1981, p. 247.
- ↑ L'imperatore Claudio, suo marito.
- ↑ fragilità.
- ↑ Cronaca Catalana, c. 96
- ↑ l D'Esclot, che in tutto il racconto si mostra favorevole a Macalda, dice : Quando la donna vide il re, ne rimase innamorata come di colui ch'era valente e piacevole signore, non già per cattiva intenzione». Ma Bartolommeo di Neocastro concittadino di Macalda la descrive come una Messalina.
Bibliografia
modifica- Giuseppe La Farina, L'Italia dai tempi più antichi fino ai nostri giorni, vol. II, Società editrice italiana di M. Guigosi, Torino, 1856.
- Giuseppe la Farina, Storia d'Italia narrata al popolo italiano, (568-1815).
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