Giuseppe Campori

letterato, politico e storico dell'arte italiano

Marchese Giuseppe Campori (1821 – 1887), letterato, politico e storico dell'arte italiano.

Citazioni di Giuseppe Campori modifica

  • Tra le molte false idee che a nostra vergogna furono sparse in Italia dalla straniera malignità e da noi accolte e tenute in conto di verità dimostrate, non è ultima quella che ci fa considerare il napoletano siccome imbelle e poco atto alla milizia. Molte cagioni hanno cospirato a darle ombra di verità. Primo, la mollezza del clima che suole eccitare negli animi un forte amore alla vita e un odio non meno tenace alle fatiche e ai perigli. Poi la sventura che per tanti secoli oppresse il paese di Napoli facile preda a tutti i conquistatori, sicché non respirò mai al pensiero dell'indipendenza ma perpetuamente passò di servaggio in servaggio, finalmente gli ultimi casi della duplice conquista francese, della infelice spedizione di Murat e della incruenta invasione austriaca nel 1821.[1]

Memorie biografiche degli scultori, architetti, pittori ec. nativi di Carrara modifica

  • Fornito non meno d'ingegno che di onoratezza egli [Benedetto Cacciatori] poneva ad ogni minima cosa quello studio e quella diligenza che alle maggiori e di più lucro. Visse per l'arte tutta la vita lunga ed operosissima e nessuno meglio di lui era atto a disimpegnare l'ufficio d'insegnante affidatogli dall'Accademia di Brera dopo la morte di Pompeo Marchesi, come ne fanno dimostrazione gli eccellenti allievi da lui formati, sebbene non tutti siano rimasti fedeli ai suoi precetti. (p. 42)
  • Se il Cacciatori non giunse al segno de' suoi concittadini Finelli[2] e Tenerani[3], acquistò pero molta e meritata riputazione e i difetti che pure si riscontrano nelle sue opere, non sono tanto gravi da oscurare i pregi universalmente riconosciuti. (p. 42)
  • Andrea Calamec visse in tempi in cui l'arte declinava al basso ed ebbe l'educazione da chi ne aiutò la caduta. Non poteva quindi tenersi immune dai principii e dagli esempi del suo maestro Ammanati, e come accade nei periodi di decadenza, li peggiorò. (p. 50)
  • [...] l'ingegno suo lo fa sovrastare a molti de' suoi contemporanei e nell'architettura particolarmente [Andrea Calamec] diede saggio di profonda cognizione dell'arte e di fantasia originale. Egli aiutato dai nipoti tenne infin che visse il campo dell'arte in Messina, e lungamente rimasero le traccie della influenza dei suoi precetti e del suo stile. (p. 50)
  • Ma forse la inclinazione ch'egli [Danese Cattaneo] ebbe alle lettere e alla poesia, e il tempo ch'egli impiegò in quella maniera di studi, lo impedirono dal levarsi a quel supremo grado nella scoltura, a cui sarebbe salito ove a quella soltanto, anziché a due cose in un tempo avesse applicato. (p. 66)
  • Ma nessuna più onorevole memoria per Danese [Cattaneo] potrà uguagliarsi a quella dell'amicizia ch'egli strinse in Padova col giovinetto Torquato Tasso, e degli incoraggiamenti e degli aiuti che gli diede nei primi passi di lui mossi nel giardino delle Muse. (p. 67)
  • Giuliano Finelli visse in tempi poco felici per l'arte e non poté quindi pervenire a quel grado di eccellenza che l'ingegno suo gli avrebbe fatto conseguire un secolo innanzi. Se si può convenire nel giudizio del Cicognara[4] che le opere in bronzo siano le migliori delle sue produzioni, non si può d'altra parte accettare quella sua sentenza, che il Finelli non si levasse sopra la mediocrità[5]. Imperrocché le statue della Cappella del Tesoro, quella di S. Gennaro, i leoni nella chiesa dei SS. Apostoli e il busto del Buonarroti contengono tali pregi che un artista mediocre non saprebbe creare. (p. 97)
  • Il nome di Carlo Finelli è destinato a rimaner vivo e duraturo nella storia della scoltura italiana del nostro secolo. Il Finelli venuto a Roma in un tempo in cui quell'arte mercé l'ingegno del Canova era entrata in un periodo di rinnovamento, mostrossi devoto alle idee e alla maniera dello scultore di Possagno[6], ma non ne subì interamente l'influenza e seppe tenersi immune dalla servilità di chi ne interpretava falsamente il pensiero, immaginandosi d'imitarlo fedelmente. (p. 103)
  • Soleva egli [Carlo Finelli] dire, scrive il Checchetelli[7] «doversi educare l'occhio e la mano alla norma degli antichi, la nostra mente e il cuor nostro allo spirito degli autori del risorgimento.» Fedele a questo principio si guardò il Finelli dal cadere nell'esagerazione delle due scuole, serbando la giusta misura fra il naturalesimo e l'idealismo, imitando senza apparire imitatore anzi mostrandosi originale. (p. 103)
  • [...] devesi notare a lode del vero, che il grande artefice [Carlo Finelli] non fu sempre uguale a se stesso e che perfino le opere sue più lodate e più universalmente ammirate, non poterono in alcune parti sfuggire agli appunti dei critici più severi. (p. 103)
  • Poche furono le opere da lui [Carlo Finelli] eseguite rispetto al tempo della sua vita non breve, tra per la consuetudine che tenne di passare quasi metà dell'anno in Carrara poco meno che inoperoso, e per quella sua naturale incontentabilità che gli faceva moltiplicare le prove e guastare più modelli, avanti di trovar quello che gli soddisfacesse. E di questo dispregio per le sue creazioni, volle dar prova perfino nell'atto di sua ultima volontà, disponendo che all'infuori dei gruppi del S. Michele e delle Danzatrici da esso destinati in dono all'Accademia di Carrara, si spezzassero tutti i suoi modelli così delle opere già condotte in marmo, come delle altre che restavano a condursi. (p. 104)
  • Egli [lo scultore Pietro Fontana] valse più nella teoria che nella pratica e certamente non avverò le speranze che nella sua prima giovinezza aveva fatto concepire di se. (pp. 105-106)
  • Il Pascoli[8] ci dipinge il Guidi siccome uomo di bello aspetto, d'animo gentile, generoso fino alla prodigalità a tal segno che, senza la vendita dei suoi libri e i soccorsi del Pontefice, non avrebbe potuto passare gli ultimi anni della sua vita con la sua consueta splendidezza. (p. 138)
  • Fu [Domenico Guidi] uomo di buoni costumi, amante della lettura, versato nello studio della storia, e amico dei letterati dei quali frequentava la società in casa di Mons. Ciampini. Allegro di natura, loquace ma poco amico degli artisti dei quali soleva sparlare. (p. 138)
  • La quantità e la qualità dei lavori commessi a Domenico Guidi dall'Italia e da oltremonte e la elezione di lui fatta da Luigi XIV fra tanti scultori che allora fiorivano, formano una prova non dubbia della grande riputazione ch'egli aveva saputo acquistarsi. (p. 139)
  • Dotato di fantasia fervida, d'ingegno non ordinario, valentissimo nella esecuzione, il Guidi si abbandonò al gusto del tempo in cui si esageravano le licenze Berninesche e per nausea del bello si andava in traccia del difficile, del bizzarro del falso. Però non tutte le opere del Guidi debbono giudicarsi ad una misura ed alcune sono degne di lode [...]. (p. 139)
  • La memoria di Giuseppe Pisani assai più che per le opere in marmo, deve essere onorata per la savia direzione ch'egli tenne dell'Accademia e per l'impulso che diede alle arti in Modena e ai giovani più promettenti d'ingegno che le coltivavano. (p. 183)
  • Il Ratti[9] ci dipinge il Ponzanelli per uomo di naturale allegro, arguto e faceto nel conversare, inclinato alla satira, di buoni costumi e di soda pietà. [...]. Egli seguì il gusto del tempo in tutta la sua stranezza e il merito della esecuzione e certa novità e bizzarria d'invenzione non furono sufficienti a conservare al nome suo quella riputazione di cui furono larghi i contemporanei. (p. 187)
  • Gli scrittori d'arte riconoscono il merito particolare del Porta nell'aver saputo accoppiare la buona maniera del disegno propria delle scuole fiorentina e romana, al colorire dei veneziani, nella qual cosa non ebbe chi lo precedesse o lo imitasse, cosicché fece scuola da se. Ma i tempi che volgevano a decadenza non gli consentirono di levarsi ai primi onori, così di disegnatore come di coloritore. (p. 207)
  • [Giuseppe Porta] [...] il suo colorire rispetto ai veneti non può dirsi perfetto e nel disegno appare alquanto studiato, e seguendo il vezzo dei tempi, segna con soverchia efficacia i muscoli e i movimenti del corpo. Anche nelle invenzioni, sebbene copioso e originale, non mostra però nell'insieme altrettanta felicità come nelle singole disposizioni delle figure. (p. 207)
  • Ebbe il Tenerani una singolare felicità nelle invenzioni di monumenti funebri, tanto più notevole e rara quanto il campo sembra ormai esaurito dopo i copiosi prodotti che ne lasciarono gli scultori antichi e moderni. E non solo da ogni parte di Europa, ma perfino dall'America fu egli ricercato di cotali operazioni, le quali gli procacciarono lode e fama grandissime. (p. 245)
  • Il Tenerani artista di alta mente e di coscienza soda applicava con grande diligenza anche a quelle opere minori, che molti scultori sacrificano alle maggiori e di più riputazione. Cosi i ritratti in busto eseguiti dal nostro scultore sono condotti con quella stessa cura, con quello stesso amore ch'egli poneva nei lavori che gli procacciavano lucro e onoranza di gran lunga maggiori. (p. 249)
  • Il Tenerani ebbe onori quanti volle, e quanto uomo poteva desiderare in quei tempi. Fu insignito di undici ordini cavallereschi; scritto a ventiquattro Accademie italiane e straniere; direttore delle Gallerie e dei Musei di Roma; Cattedratico di scultura e Presidente dell'Accademia di S. Luca; amico e famigliare di Pontefici, di Principi, d'illustri personaggi di ogni paese. Tanta grandezza non lo invanì, né lo distolse dal lavorare a cui attese assiduo, infaticabile, senza che potesse bastare a soddisfare i numerosi committenti, dei quali più volte dovette rifiutare le richieste, essendo egli d'altra parte lento nell'operare, né facile a contentarsi dell'operato; cosicché non lasciava escire dallo studio cosa, da lui fatta, se non era ridotta a quel grado di perfezionamento che per lui si poteva maggiore. Imperocché in quell'animo nobilissimo la dignità, la riputazione, la coscienza, prevalevano ad ogni altra considerazione. (pp. 251-252)
  • Il Desmairais amatore e dilettante di pittura, s'era dato a professare l'arte allorquando la rivoluzione gli tolse l'ufficio di segretario della Legazione francese in Isvezia; ma il merito ch'egli si acquistò nell'insegnamento e nella direzione degli studii dell'Accademia [di Carrara], sopravvanza d'assai il merito dei suoi dipinti. (pp. 308-309)

Note modifica

  1. Da Studi e ricordi italiani. L'esercito napoletano nel 1845, [s.i.], [s.n.], 1848, pp. 1-2.
  2. Due sono gli scultori carraresi con questo cognome: Giuliano Finelli (1602 – 1653), scultore barocco della scuola di Gian Lorenzo Bernini e Carlo Finelli (1785 – 1853).
  3. Pietro Tenerani (1789 – 1869), scultore nativo di Carrara, tra i più noti interpreti del purismo ottocentesco.
  4. Francesco Leopoldo Cicognara (1767 – 1834), storico dell'arte e bibliografo italiano.
  5. Storia della scultura, VI, 180. [N.d.A.]
  6. Luogo di nascita di Antonio Canova.
  7. Giuseppe Checchetelli (1823 – 1879), letterato e patriota italiano.
  8. Lione Pascoli (1674 – 1744), scrittore e collezionista d'arte italiano, autore di Vite de' pittori, scultori ed architetti moderni, 2 voll., 1730.
  9. Carlo Giuseppe Ratti (1737 – 1795), pittore e scrittore d'arte.

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