Attentato di via Rasella
azione partigiana da parte della resistenza romana
Citazioni sull'attentato di via Rasella.
Citazioni
modifica- Avevo bisogno di ritrovare tutte le ragioni che mi portavano a compiere quell'attacco. Ripensai al bombardamento di San Lorenzo, a quella guerra ingiusta e terribile, alle voci dei bambini del brefotrofio imprigionati dal crollo, allo strazio delle distruzioni che si vedevano ovunque e di cui avevamo notizia ogni giorno; ai nostri compagni fucilati, torturati a via Tasso; a tutti i deportati di cui non avevamo più notizia; ai duemila ebrei nei lager; a tutti i paesi oltralpe sconvolti dalla devastazione. A quanti tra i miei amici erano già morti: sul fronte russo, in Grecia, in Iugoslavia, a mio cugino Amleto Tamburri morto a El Alamein, lui, figlio di un socialista. [...] Ma a poco a poco mi convinsi che non preparavo un agguato a innocenti: quegli uomini erano stati educati, abituati a uccidere; l'operazione di "selezione della razza" (l'attuale pulizia etnica) era per loro un risanamento della società. [...] Così, recuperai la visione esatta della realtà che stavo vivendo: per tutti coloro che avevano sofferto ed erano morti ingiustamente, che erano ingiustamente perseguitati, per loro dovevo battermi. (Carla Capponi)
- Fu in via Rasella che portammo a termine la più importante azione di guerra che i partigiani abbiano condotto a Roma, senza dubbio una delle più importanti d'Europa.
- Un giorno Mario Fiorentini e Lucia invitarono Carla e me a mangiare qualcosa in una bottiglieria all'angolo di via del Lavatore, che dall'altra parte di via del Traforo fronteggia via Rasella. Mentre mangiavamo, egli mi fece vedere dalla porta della bottiglieria i tedeschi che passavano. Cantavano. Le loro canzoni, la loro voce, il loro passo cadenzato, l'orgoglio del nazismo, il loro incedere da occupatori sprezzanti, suscitavano in chiunque si trovasse a passare di lì un brivido di paura. «Bisogna colpirli, quelli lì» dissi a Mario. Egli sorrise. Aveva una sua aria sorniona di ridere: con gli occhi stretti, si umettava un paio di volte le labbra con la lingua e rovesciava un poco la testa all'indietro. «Per questo siamo qui» mi disse.
- Venivano su cantando, nella loro lingua che non era più quella di Goethe, le canzoni di Hitler. Centosessanta uomini della polizia nazista con le insegne dell'esercito nazista, i rappresentanti di coloro che rastrellavano i cittadini inermi, degli assassini di Teresa Gullace e Giorgio Labò. Le divise, le armi puntate, il passo cadenzato, perfino la carretta su cui era piazzata la mitragliatrice, le voci straniere, tutto era un oltraggio al cielo azzurro di Roma, agli intonachi, ai sampietrini, al verde che il parco di palazzo Barberini riverberava dolce sulla via Rasella. Era un oltraggio che si ripeteva, dai millenni e nei millenni; e il Vae victis di Kesselring non aveva di fronte, a rintuzzarlo, che le armi e il coraggio dei partigiani. Oggi il nostro tritolo. Venivano su cantando, macabri e ridicoli e i segni di morte che avevano indosso erano, stavolta, i segni della loro condanna. [...] Si avvicinarono a me, ebbri di sicurezza e di un sole usurpato, che non era il loro. Non erano loro quella primavera, quei colori. Erano loro il terrore, la morte che avevano seminato per le vie deserte di Roma, la guerra che avevano portato dentro le case e nelle scuole, ma anche la morte che era in agguato sulle montagne e dietro gli angoli delle nostre strade, cui non servivano da freno il coprifuoco e la fame, le rappresaglie e le torture, la morte che li colpiva improvvisa, che li terrorizzava e dava l'avviso di una giustizia che non avrebbe tardato troppo a sopraggiungere.
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