Antonio Capizzi

filosofo e storico italiano (1926-2003)

Antonio Capizzi (1926 – 2003), filosofo e storico italiano.

I sofisti ad Atene

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Chi sono i sofisti, e perché ad Atene? Questi i due punti che vanno chiariti subito per evitare equivoci. Come vedremo più dettagliatamente, e come tutti sanno, «sofista» aveva per i Greci a partire dal quinto secolo un significato più ampio («maestro di una tecnica») e uno più ristretto («maestro pagato di discorso»); e spesso lo stesso autore usava il termine ora in un senso e ora in un altro.

Citazioni

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  • La convivenza delle due religioni, delle due morali, delle due logiche non è, ad Atene, conciliazione, né sintesi, né comunque scioglimento del conflitto: il pubblico della tragedia è il popolo di una città molteplice, ma dilaniata dalla propria molteplicità, e, in armonia col pubblico, i personaggi che ad esso si presentano sono uomini e donne che hanno assorbito le opposte tradizioni senza mediarle, e anzi introiettandone la contradditorietà. I personaggi tragici vivono la contraddizione, non la superano; credono in due morali opposte ma, lungi dal trovare un punto intermedio, ne accettano l'inconciliabilità e la soffrono fino alla catastrofe; hanno due anime in lotta tra loro, ma due anime di pari dignità, non il cavallo bianco e il cavallo nero del Fedro platonico; e dalla lotta escono non col compromesso, ma con lo straziante sacrificio di un'anima perché l'altra possa sopravvivere. Anche gli eroi che non arrivano alla morte uccidono metà di se stessi e vivono con la ferita perennemente aperta. La tragedia è la nemica della pace. (pp. 50-51)
  • L'asserzione che Platone fa fare a Socrate nel Protagora con una durezza non attenuata dall'ironia, che cioè il maestro di Abdera sarebbe stato il primo sia a definirsi sofista, sia ad esibirsi come maestro di educazione e virtù, sia infine a pretendere un compenso, ci risulta assai lontana dalla verità storica: su questi aspetti l'innovazione era assai esigua. (p. 88)
  • Il termine scelto da Protagora («sofista») era largamente usato fin dagli inizi del quinto secolo, ed era in effetti uno dei molti figli e nipoti di sophós e sophía: queste parole indicavano all'inizio una «saggezza» pratica e tecnica, cosicché sophízesthai da essi derivato significava «praticare una qualche tecnica», al punto che sesophisménos venne usato da Esiodo per l'esperto di nautica e sophizómenos da Ippocrate per il medico. Allorché sophós cominciò ad assumere significati meno tecnici, il suo posto venne preso da sophistés, derivato da sophízesthai e, a quanto sembra, sinonimo di sesophisménos: il termine-nipote seguì esattamente la via del termine-nonno sophós, dato che indicò un qualsiasi esperto o maestro in una tecnica, dal poeta-musico-citaredo all'astronomo, al medico, all'indovino, all'inventore, fino ad applicarsi, dal quarto secolo, ad artigiani più modesti, quali il cuoco, il cavallaro e perfino il lamentatore dei funerali. (pp. 88-90)
  • La novità è dunque questa, che ad Atene è sorto un nuovo tipo di sofista pagato per migliorare la perizia verbale dei suoi discepoli, e non l'abilità manuale: essenziale è la lingua, non i contenuti del discorso; e se per caso tra questi contenuti compaiono nozioni scientifiche, ciò non avviene per «filosofia», amore del sapere, ma per «filologia», amore del discorso, inteso come grammatica, retorica e argomentazione. (pp. 94-95)
  • [...] Aristotele aveva ben compreso che i sofisti, diversamente dai retori del suo tempo, non miravano al miglioramento della tecnica, ma ai risultati di essa. Si trattava non di «parlare di», ma di «parlare a»; di vincere le resistenze dell'ascoltatore trasformando la persuasione in costrizione, in violenza; di ottenere la credibilità e, attraverso essa, il successo. In regime democratico il successo era sulle folle per ottenere voti e sui giudici per vincere i processi: successo giudiziario e soprattutto politico, al punto che ormai il politico era detto «retore»; e gradualmente l'uso poetico del linguaggio cede il posto a quello politico, e i sofisti (pur non impegnati personalmente in una fazione piuttosto che in un'altra) forniscono agli uomini di tutte le fazioni una terminologia politica che, collocandosi alla base dei frequenti dibattiti sullo Stato e sulle sue possibili costituzioni, incrementa la lotta tra le classi. In questo senso, formalmente e non contenutisticamente politico, nel senso cioè di una puntuale educazione dei giovani a un inserimento politico, non importa di quale fazione, vanno lette le pagine del Protagora in cui il protosofista si proclama educatore politico. (pp. 101-102)
  • Lo stretto rapporto dei primi sofisti con Pericle non poteva non produrre un interscambio tra il loro legame con la prassi democratica [...]; ma di nuovo va dissipato l'equivoco che vuole un'adesione dei sofisti alla fazione periclea. Zenone e Protagora non erano uomini di parte democratica, il loro nesso con la democrazia (che non può certo essere negato) era puramente metodologico: essi educavano a quella libera discussione (isegoría) che della democrazia era parte integrante, all'efficace uso del lógos che (sempre in armonia coi canoni della democrazia) è la forza del debole; cosicché si potrebbe dire al massimo che essi apportassero, non solo al partito di Pericle ma ad ogni tendenza politica, quella che oggi chiamiamo «educazione civica». (pp- 117-118)
  • In Eschilo le due voci in conflitto sono esterne, e l'eroe sceglie, oltre che tra due azioni, tra due persone [...]. La regola comincia a incrinarsi nel teatro di Sofocle, dove la voce esterna è una sola, e la scelta consiste nel darle ragione o torto; l'altra voce viene evidentemente dall'interno del personaggio cui tocca scegliere, cosicché l'alternativa è tra mondo interiore e mondo esterno [...]. Tocca ad Euripide scoprire il conflitto, destinato a prevalere nel teatro senecano e moderno, tra due voci entrambe interiori [...]. Ma, a prescindere dalla «modernità» di Euripide, la scelta difficile, lacerante, personale, fonte comunque di mali e rimorsi, resta il cuore della tragedia, conseguenza diretta dello scontro tra morali opposte da cui essa nasce. Il tragico è il mondo in cui due morali si dilaniano; ma non il mondo in cui l'eroe fa apparire l'una migliore dell'altra, bensì il mondo in cui l'eroe stesso, senza minimamente dissimulare la pari validità di entrambe, deve scegliere un comportamento che è comunque bene per l'una e male per l'altra, e sceglierlo con immensa sofferenza e con totale sincerità. (pp. 141-143)
  • [...] il lettore mi consenta, eccezionalmente, una notazione personale. Qualche caporale dell'esercito «conservatore» (quello, per intenderci, che vede sfavillare di metafisica aristotelico-hegeliana ogni pagina dei presocratici) muove dall'«antologia» di Ippia e dai papiri di Derveni per dedurre che «dei presocratici (o almeno dei filosofi della Ionia) scrissero per primi non Aristotele nella Metafisica e Platone qua e là nei suoi dialoghi, bensì, con qualche decennio di ulteriore anticipo, Ippia e l'autore di Derveni» (il che, se prescindiamo dalla parola «filosofi», è inoppugnabile, una volta che Ippia menziona Talete e l'anonimo fa il nome di Eraclito); ma poi, intonando la marcia trionfale dell'Aida, proclama che «questa conclusione, apparentemente obbligata, è tale da rimettere in discussione il Leit-motiv di un recente libro di A. Capizzi, La repubblica cosmica, [...] in cui si sostiene che Platone ed Aristotele attribuirono per primi e del tutto a torto lo status di filosofi a personaggi (quali appunto Talete ed Eraclito) che tali non si considerarono e non furono».[1] A me veramente risulta: a) che il sunnominato Capizzi nel libro citato attribuisce al solo Aristotele la mistificazione in oggetto, mettendo invece in evidenza [...] come Platone non chiami mai «filosofo» nessun sapiente presocratico e legga correttamente l'intera scienza pre-periclea come una serie di miti a sfondo politico; b) che né Ippia né il papiro definiscono mai «filosofo» l'autore citato; c) che, se davvero Talete è nominato nel contesto dell'antologia, e se l'antologia è una raccolta di miti, la citazione dà ragione a Platone e torto ad Aristotele, mostrandoci come prima della metà del quarto secolo la sapienza ionica venisse considerata mitica e non filosofica. E allora? E allora, «lasciamo che i morti seppelliscano i loro morti». (pp. 167-168)

Come ha ben visto Nietzsche, il socratismo trionfante uccise, in Attica, la tragedia; e con essa l'antologia sofistica che ne era una diramazione: da Platone a Cartesio, da Aristotele ad Hegel, la filosofia fu sempre, con scarse e poco ascoltate eccezioni, pensiero «comico», e cioè contraddizione da cui si esce logicamente o con la confutazione di uno dei due contrari, o con la sintesi che li media entrambi in unità onnicomprensiva. L'uscita pratica dei tragici e l'uscita retorica dei sofisti furono dimenticate, ad Atene e in occidente, in tutti i secoli successivi, fino al nostro tempo. (pp. 216-217)

La repubblica cosmica

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  • Chi guarda nel cannocchiale e vede cose diverse da quelle che vedo io è sempre uno che può insegnarmi molte cose, e lo leggerò con l'atteggiamento del discepolo che vuole capire ciò che ancora non gli è chiaro; se poi discuterò le sue conclusioni, lo farò col rispetto e con la riconoscenza che dobbiamo a quelli che hanno aperto la strada sulla quale ci prepariamo ad andare oltre, valutando il suo procedimento a posteriori sulla base degli argomenti, non a priori confrontando le sue conclusioni con le mie. È l'atteggiamento che il mio maestro Guido Calogero mi ha insegnato a chiamare «volontà di capire» o «spirito del dialogo». Ma al dialogo tra chi guarda nel cannocchiale e chi si rifiuta di guardarci non ho mai creduto: non è in nessun caso proficua una discussione tra uno storico che fonda su una serie di argomenti una nuova prospettiva e uno storico che, solo perché la nuova prospettiva non è ortodossa, si ritiene dispensato dalla fatica di saggiare ad uno ad uno gli argomenti e se la cava dicendo che il tutto «non è convincente»; né tra chi si pone come unico problema la verificabilità di una lettura storica e chi si preoccupa delle conseguenze che tale lettura porterà al quadro tradizionale della Geistesgeschichte; né tampoco tra chi ricostruisce un antico pensiero con la pazienza da formica del raccogliere instancabilmente nuovi elementi e chi deduce il pensiero di Parmenide dall'Eleatismo, l'Eleatismo dal Naturalismo Presocratico e il Naturalismo Presocratico dalla Spiritualità Greca; né, soprattutto, tra lo scrittore che lavora a inserire il «filosofo» in una prospettiva sincronica, che è poi sempre costituita dalla cultura e dalla società in cui quel «filosofo» visse e respirò, e il suo collega disposto a chiarirne i punti oscuri sempre e soltanto attraverso la rilettura di altri «filosofi», rifuggendo con disgusto dal contaminare il Puro Pensiero con l'utilizzazione dei poeti, degli oratori e degli storici. (pp. 13-14)
  • [...] Non posso dare torto a quegli storici che hanno visto nella definizione aristotelica dell'uomo come «animale naturalmente politico» un riferimento più al carattere greco che all'umanità in generale. (p. 130)
  • Le ricerche sulla letteratura classica hanno da tempo abbandonato il "paese della bellezza pura": nessun poeta o prosatore greco viene più letto sub specie aeternitatis, né estraniato dal contesto socio-politico della città in cui visse e dell'uditorio per il quale compose. Nel campo della storia della filosofia antica, e soprattutto della più antica (da Talete al giovane Empedocle), il passo è stato fatto a metà, e non da tutti, gli studiosi più illuminati sono arrivati a mettere i presocratici arcaici in rapporto con la polis in generale, ma molto raramente con le singole poleis nelle quali quei sapienti non solo vissero, ma (come attestano fonti indiscusse) ebbero posizioni politiche di primissimo piano; e quasi mai si sono domandati in qual misura l'uditorio cittadino (così determinante in età pre-letteraria) condizionasse i contenuti del loro discorso.

Citazioni su Antonio Capizzi

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  • Antonio Capizzi ha insegnato per oltre quarant'anni – prima da assistente, poi come professore incaricato e infine come professore associato – Filosofia teoretica III presso l'Università di Roma "La Sapienza" (sede di Villa Mirafiori). La sua lezione umana e intellettuale, di metodo e di merito, ha segnato la cultura universitaria, non solo italiana, degli ultimi decenni del secolo scorso.[2] (Paolo Quintili)
  • Chi ha familiarità con le opere [di Antonio Capizzi], nota subito la caratteristica del vero ricercatore: una continua e profonda investigazione dell'oggetto, senza domandarsi quanto tempo richieda. La passione ha portato Capizzi a destinare la sua vita all'apprendimento dell'intera cultura umana. Quaranta anni di ricerche assidue, ininterrotte, volte a scandagliare l'umano scibile fino alle radici più profonde [...]. A cinque anni dalla scomparsa resta il personale ricordo di un uomo gracile e magro, ma sempre immerso nel suo lavoro, lontano dalle passerelle tanto amate dai pensatori contemporanei, e intellettualmente irreprensibile. Nelle sue lezioni mostrava con orgoglio un profondo antifascismo, per cui provava un forte disgusto non solamente per ragioni storico- morali, ma soprattutto – credo – per quell'amore sviscerato per la libera ricerca, unica risposta possibile ai tentativi scomposti di dittatori passati e presenti di renderci tutti fatalmente omologati.[3] (Andrea Comincini)
  1. Cfr. Livio Rossetti, La Filosofia Greca da Omero a Teofrasto negli studi recenti, estratto da AA.VV., Grande antologia filosofica. Aggiornamento bibliografico, vol. XXXII, Milano s.d. 1987, p. 81.
  2. Citato in Profilo di Antonio Capizzi (1926-2003), Uniba.it.
  3. Citato in Tributo ad Antonio Capizzi, YorickLibri.it.

Bibliografia

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  • Antonio Capizzi, La repubblica cosmica. Appunti per una storia non peripatetica della nascita della filosofia in Grecia, Edizioni dell'Ateneo, Roma, 1982.
  • Antonio Capizzi, I sofisti ad Atene. L'uscita retorica dal dilemma tragico, Levante editori, Bari, 1990.

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