Albio Tibullo

poeta romano
(Reindirizzamento da Tibullo)

Albio Tibullo (Albius Tibullus; 54 a.C. circa – 19 a.C. circa), poeta latino.

Tibullo

Elegie modifica

Incipit modifica

Originale modifica

Divitias alius fulvo sibi congerat auro,
Et teneat culti iugera multa soli,
Quem labor adsiduus vicino terreat hoste,
Martia cui somnos classica pulsa fugent:
Me mea paupertas vita traducat inerti,
Dum meus adsiduo luceat igne focus.

G. Franceschi modifica

Altri accumuli per sé ricchezze di biondo oro,
e possegga molti iugeri di terreno coltivato,
e costui l'agitazione continua per il vicino nemico atterrisce,
e a lui le marziali trombe squillanti impediscano i sonni,
me il mio modesto stato guidi a vita tranquilla,
purché il mio focolare risplenda di fuoco ininterrotto.

[Albio Tibullo, Elegie, a cura di G. Franceschi, Edizioni Sormani, 1947]

Guido Vitali modifica

Altri vada radunandosi ricchezze
d'oro fulgente e iugeri infiniti
di ben colto terreno anche possegga,
ma lo travagli assiduo terrore
di giungenti nemici, e la squillante
tromba di guerra da lui cacci il sonno.
Una vita modesta a me conceda
questa mia povertà, pur che mi splenda
perenne il fuoco sopra il focolare.

[Albio Tibullo, Elegie, traduzione di Guido Vitali, Zanichelli, 1956]

Citazioni modifica

Parva seges satis est.
  • Chi fu il primo che inventò le spaventose armi? | [...] | Da quel momento furono stragi, guerre. | Si aprì la via più breve alla crudele morte. | Tuttavia il misero non ne ha colpa. Siamo noi che usiamo malamente | quel che egli ci diede per difenderci dalle feroci belve.[2]
Quis fuit, horrendos primus qui protulit enses? | [...] | Tum caedes hominum generi, tum proelia nata, | tum brevior dirae mortis aperta via est. | An nihil ille miser meruit, nos ad mala nostra | vertimus, in saevas quod dedit ille feras? (I, 10, 1-6)
  • Giove si fa gioco delle false promesse degli amanti. (III, 6, 49)
Periuria ridet amantum Iuppiter.

Citato in Giosuè Carducci, Opere, vol. XXIX modifica

  • Non io rimpiango le ricchezze de' miei padri né i beni che all'avo producea la messe ammucchiata ne' granai. Mi basta una piccola raccolta; mi basta un letto da riposarmi, s'io possa, nel sonno, e l'ordinario sedile per posarvi e rinfrancare le membra. Com'è dolce udire dal letto l'infuriare dei venti e stringersi al petto amoroso la sua donna; o quando l'austro d'inverno riversa le gelide piogge, seguitar sicuri i lunghi sonni allo scrosciar della pioggia. Ciò mi avvenga; e arricchisca pure, ché ne ha il diritto, chi può sopportar le furie del mare e le tristi ire dei nembi. Oh perisca quanto v'è al mondo d'oro e di smeraldi, più tosto che un'amante pianga la mia dipartita! (Libro I, Elegia I, p. 152-153)
  • A te sta bene, o Messalla, portar la guerra per terra e per mare, sì che la tua casa ostenti le spoglie de' nemici. Io rimango prigioniero nei lacci d'una bella fanciulla, e veglio, come uno schiavo incatenato alla guardia, dinanzi alla porta inesorabile. Che importa a me, Delia mia, della gloria? Sia teco; e mi chiamino pure poltrone e da poco. Oh che in te possa io fissar gli occhi, quando mi sopravverrà l'ora suprema; ch'io possa stringerti morendo con la mano mancante. Tu piangerai, posto che m'abbi, o Delia, sul letto del rogo, e mescolerai alle amare lacrime i baci. Piangerai: tu non hai cinte le viscere d'insensibile ferro, non hai nel tenero cuore una selce. (Libro I, Elegia I, p. 153)
  • Chi serve ad Amore, vada securo per tutto: egli è sacro, né gli conviene temere d'insidie. A me non fa nulla il freddo d'una notte pigra d'inverno, né la pioggia che cade a rovesci; tutto questo a me non fa male, pur che Delia mi apra la porta e zitta mi chiami a sé con uno scocco delle dita. Guardia agli occhi, o uomini o donne che siate sulla mia strada: Venere vuole per i suoi furti il silenzio. Non mi date timore col rumore dei passi, non domandatemi il nome, non avvicinate l'indiscreto chiaror delle fiaccole. E se qualcuno, pur senza volerlo, mi ha scòrto e riconosciuto, taccia e neghi per tutti gli dèi di ricordarsene; perché l'indiscreto, chiunque siasi, proverà che Venere è nata dal sangue, è nata dal mare in tempesta. (Libro I, Elegia II, pp. 155-156)
  • Come vivevano bene quando regnava Saturno, prima che la terra fosse aperta in immensi viaggi! Il pino non aveva ancora sfidato le cerule onde, né spiegato al soffio dei venti il seno delle vele; né ancor vagando in cerca di guadagni per terre ignote il nocchiero aveva caricato di merce straniera il vascello. Allora il vigoroso toro non subiva il giogo, non il cavallo mordeva con bocca domata il freno: non c'era casa che avesse porte; non c'era piantato nei campi un sasso che determinasse confini certi ai terreni coltivati. Le querce davano mèle di per sé, spontanee venivano le pecore a offrire le mammelle piene di latte ai tranquilli uomini. Non eserciti, non furori, non guerre; né un rozzo fabbro aveva ancora con feroce arte temprata una spada. Ora sotto il regno di Giove sangue sempre e strage; ora i pericoli del mare; ora aperte d'un tratto mille vie alla morte. (Libro I, Elegia III, pp. 159-160)
  • Un lungo andar di giorni insegnò a' leoni ubbidire l'uomo, un lungo andar di giorni col picciol gocciolar d'un'acqua scavò le rocce: l'anno matura le uve su' colli aprici, l'anno rimena con ferma vicenda i lucidi segni del cielo. Ma il tardare sarebbe errore. Passerà la giovinezza, oh come presto! il giorno non s'arresta né ritorna. Come presto perde la terra i purpurei colori, come presto il bianco pioppo le belle chiome! Come langue, quando sopravvennero i fati dell'inferma vecchiezza, il cavallo che un giorno balzò primo dal carcere eleo! E già vidi un giovine, incalzato oramai dall'età più tarda, a piangere i bei giorni stoltamente passati. Dèi crudeli! il serpente spoglia gli anni e rinnovasi, alla bellezza i fati non concessero indugio. (Libro I, Elegia IV, pp. 162-163)
  • Quegli cui cantin le Muse vivrà fin che la terra avrà querci, stelle il cielo, il fiume acque. Ma chi è sordo alla voce delle Muse, chi vende l'amore, quegli séguiti su l'Ida il carro di Cibele e percorra né suoi errori trecento citàà, e taglisi al suono de' flauti frigi gli osceni pesi.[3]Ciascuno ha la sua gloria: la mia è d'essere il consultore degli amanti disprezzati: la mia porta è loro aperta a tutti. (Libro I, Elegia IV, pp. 164-165)
  • E che vita felice, tornata tu fossi in salute, io m'immaginava: pazzo! iddio nol volle. Coltiverò i miei campi, e sarà meco Delia a guardare al frumento, mentre l'aia sotto il sole ardente risuona al batter del grano; o vero mi guarderà nei tini ricolmi le uve e il mosto bianco pigiato da' piedi agili de' vendemmiatori. Ella s'avvezzerà a contare il bestiame, e il bambino della schiava nato in casa si avvezzerà a scherzare cianciando nel grembo della padrona che l'amerà. Ella imparerà ad offrire al dio della villa un po' d'uve per i frutti venuti bene, delle spighe per la prosperosa raccolta, un agnelletto pe 'l conservato bestiame. Tutti dipendano da lei, ella abbia cura di tutto: io avrò caro di non essere nulla in tutta la casa. Verrà il mio Messala, e per lui Delia spiccherà dagli alberi più belli i frutti più squisiti, e, onorando un tant'uomo, gli userà ogni attenzione, gli preparerà di sua mano, gli servirà ella stessa le vivande preparate.
    Tali sogni io mi fingea, che ora Noto ed Euro disperdono traverso la balsamica Armenia. Spesso io mi provai a cacciare via col vino i tristi pensieri, ma il dolore convertiva in lacrime il vino: spesso ebbi un'altra in braccio, ma, sul momento del piacere, Venere mi ricordava la mia signora e venìa meno: allora la trista femmina partendo mi diceva stregato, e (oh vergogna!) va contando che la mia donna sa le arti magiche. Oh non con parole d'incantamento; col bel viso e con le tenere braccia mi strega, mi strega la mia fanciulla con le bionde chiome, tale quale un giorno portata sur un frenato delfino venne in Emonia a Peleo la cerulea Nereide Teti. (Libro I, Elegia V, pp. 166-167)
  • Ma anche tu, Foloe, ricòrdati di non esser crudele a questo giovinetto (Venere punisce i disdegni e i rigori), né chiedere doni: dia doni un amante canuto, acciò tu gli riscaldi le gelide membra contro il molle tuo seno. Assai più caro dell'oro è un giovine a cui splendon liscie le gote e non pungono con aspra barba gli abbracciamenti. Passagli sulle spalle le candide braccia, e disprezza tutti i tesori dei re. (Libro I, Elegia VIII, p. 175)
  • [...] altri sia forte nelle armi, e abbatta col favore di Marte i capitani nemici, sì che un soldato possa poi, mentr'io bevo, raccontarmi le sie belle imprese, e col dito intinto di vino dipingermi sulla mensa gli accampamenti. Che furore è questo di provocare su i campi di battaglia la nera Morte? Pur troppo ella n'è sopra, di soppiatto e senza scalpore. Laggiù non semente, non vigne, ma Cerbero feroce e il brutto nocchiero di Stige: laggiù una pallida turba con gote livide e i capelli bruciacchiati vagola su le rive dei laghi tenebrosi. Quanto è più da lodare quegli, cui la tarda vecchiezza sorprende nella sua casuccia in mezzo la prole che gli cresce attorno! (Libro I, Elegia X, p. 182)

Note modifica

  1. Tibullo rappresenta la sua visione dell'agricoltura, fuga dalla città e quindi simbolo di libertà.
  2. Traduzione riportata nell'incipit del film Il mestiere delle armi (2001).
  3. Mancano i versi 71-76. Cfr. Opere, vol. XXIX, p. 165.

Fonti modifica

  1. Citato in Paola Mastellaro, Il libro delle citazioni latine e greche, Mondadori, Milano, 2012, p. 12. ISBN 978-88-04-47133-2.

Bibliografia modifica

  • Edizione nazionale delle Opere di Giosue Carducci, volume XXIX, Versioni da antichi e moderni, Nicola Zanichelli Editore, 1943.
  • Albio Tibullo, Elegie, a cura di G. Franceschi, Edizioni Sormani, 1947.
  • Albio Tibullo, Elegie, traduzione di Guido Vitali, Zanichelli, 1956.

Collegamenti esterni modifica

Altri progetti modifica