Nadia Murad: differenze tra le versioni

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*Quando Saddam era al potere, la scuola aveva un unico e palese obiettivo: offrendoci un'istruzione statale sperava di sottrarci la nostra identità di yazidi. Emergeva con chiarezza in tutte le lezioni e in tutti i libri di testo, che non accennavano a noi, alle nostre famiglie, alla nostra religione, né ai firman contro il nostro popolo. Anche se moltissimi yazidi erano cresciuti parlando curdo, le lezioni si tenevano in arabo. Il curdo era la lingua della ribellione, e il curdo parlato dagli yazidi poteva apparire ancora più minaccioso per lo Stato. Eppure mi premeva andare a scuola ogni volta che potevo, e imparai in fretta l'arabo. Non avevo la sensazione di sottomettermi a Saddam o di tradire gli yazidi imparando l'arabo o studiando l'incompleta storia irachena; mi sentivo più forte e intelligente. (p. 42)
*Non so cosa avrebbe pensato mio padre dell'invasione americana dell'Iraq e della cacciata dal potere di Saddam, ma vorrei che fosse vissuto abbastanza per veder cambiare il nostro paese. I curdi accolsero i soldati statunitensi aiutandoli a entrare in Iraq, e furono entusiasti della deposizione di Saddam. Il dittatore li aveva presi di mira per decenni, e sul finire degli anni Ottanta la sua aviazione aveva tentato di sterminarli con le armi chimiche in quella che aveva chiamato «campagna di Anfal». I curdi erano rimasti segnati da quel genocidio e avevano reagito proteggendosi dal governo di Baghdad in tutti i modi possibili. La campagna aveva spinto americani, britannici e francesi a stabilire una no-fly zone nel Nord curdo oltre che nelle aree sciite a Sud, e da quel momento i curdi si erano alleati a loro volontariamente. Ancora oggi i curdi definiscono l'invasione statunitense del 2003 una «liberazione» e la considerano l'inizio della loro trasformazione da un insieme di villaggi piccoli e vulnerabili in grandi città moderne piene di alberghi e sedi di compagnie petrolifere.<br>In generale noi yazidi accogliemmo gli americani, ma a differenza dei curdi non eravamo sicuri di come sarebbero state le nostre esistenze dopo Saddam. Le sanzioni ci avevano reso la vita difficile, così come per altri iracheni, e sapevamo che Saddam era un dittatore che governava l'Iraq con la paura. Eravamo poveri, esclusi dall'istruzione e costretti a svolgere i lavori più duri, pericolosi e peggio pagati del paese. Ma allo stesso tempo, con i baathisti al potere, noi di Kocho potevamo praticare la nostra religione, coltivare i campi e mettere su famiglia. Avevamo rapporti stretti con alcuni arabi sunniti, in particolare con i kiriv, che consideravamo legati alle nostre famiglie, e l'isolamento ci aveva insegnato a fare tesoro di questi contatti mentre la povertà ci spingeva a essere soprattutto pragmatici. Baghdad e Erbil, la capitale curda, sembravano lontane anni luce da Kocho. Tra le decisioni prese dai curdi e dagli arabi ricchi e influenti, l'unica che avesse un peso per noi era quella di lasciarci in pace. (pp. 46-47)
*Sono ancora convinta che essere costretto a lasciare la tua casa per paura sia una delle ingiustizie peggiori che un essere umano possa subire. Tutto quello che ami ti viene portato via, e rischi la pelle per vivere in un posto che non ha alcun significato per te e dove non sei benvenuto, dato che vieni da un paese ormai associato alla guerra e al terrorismo. Così passi il resto dei tuoi anni rimpiangendo quello che ti sei lasciato alle spalle e pregando di non essere espulso. (p. 61)
 
==Bibliografia==