Indro Montanelli e Mario Cervi: differenze tra le versioni

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*I sabati del disordine divennero un rito, le devastazioni un suo immancabile corollario. La Statale era infrequentabile per chi non fosse «rosso» o non fingesse d'esserlo, piazza San Babila non era consigliabile, in certe ore, a chi non fosse nero. Gli opposti estremismi avevano perfino una uniforme: l'''eskimo'' per i rossi, il ''loden'' e le scarpe nere a punta in San Babila. I neri erano di solito in minoranza, e ricorsero alle bombe a mano per dimostrarsi capaci d'iniziativa (così fu ucciso nell'aprile del 1973, in uno scontro di strada, l'agente di polizia Antonio Marino tra i cui assalitori era Vittorio Loi, figlio del famoso campione di pugilato [[Duilio Loi|Duilio]]). (p. 192)
*Milano fu la capitale del terrorismo. Non perché solo a Milano, o prevalentemente a Milano, esso abbia infierito. Ma perché a Milano erano presenti tutte le condizioni che potevano favorirne la nascita e lo sviluppo. Una contestazione giovanile in progressione di violenza; frange operaie convinte che la lotta armata fosse l'unica via per cambiare la società; un tessuto industriale potente e quindi con un sindacalismo forte dal quale fuoriuscivano i rivoli incontrollabili della «rivoluzione» redentrice e sanguinaria insieme; una grande stampa spesso imbarazzata e reticente, sempre desiderosa di comprendere i moventi e le sollecitazioni che erano alla base della spietata utopia (proprio uno dei giornalisti che con maggiore intelligenza e penetrazione vollero studiare questo fenomeno, Walter Tobagi, rimase vittima del feroce fanatismo «rosso»); una borghesia riservata o timida o cinica, incapace comunque di trasformarsi in maggioranza silenziosa, tanto che questa etichetta fu lasciata a patetici esponenti della destra nostalgica: una borghesia nei cui salotti – almeno in alcuni di essi – veniva ritenuto elegante atteggiarsi a simpatizzanti dell'estremismo di sinistra. (p. 194)
*[[Walter Tobagi]] non aveva che trentatré anni, ed era forse il miglior prodotto della sua leva, non soltanto professionalmente. Era d'idee (forse anche di tessera) socialiste, ma moderate, in tono col suo carattere fermo ma mite, con la sua solida cultura, con la sua etica di galantuomo. Si era occuptatooccupato, come tutti, di terrorismo, ma facendolo da cronista coscienzioso e maturato qual era, di stile efficacissimo per le sue fresche coloriture, ma sobrio, asciutto e allergico a ogni sensazionalismo. L'unico motivo che può aver richiamato su di lui le pistole dei ''killers'' è la carica, che ricopriva, di presidente dei giornalisti lombardi. O forse nemmeno quella. Probabilmente hanno scelto Tobagi solo perché era uno dei bersagli più indifesi, un tiro a bersaglio fermo e scoperto, com'era nelle preferenze di questi eroi dell'agguato. Tobagi non aveva altra scorta che la sua innocenza. (p. 194)
*Milano aveva paura ma le autorità, locali o nazionali, ostentavano serenità, e da molti pulpiti venivano richieste non di severità ma di maggior garantismo, di maggiori vincoli alla polizia, di svolte sociali. Finché la cattura la prigionia e l'assassinio di [[Aldo Moro]], nella primavera del 1978, provocarono una valanga di conversioni. I fiumi dell'ubriacatura si dissolsero lentamente, e Milano, con il Paese, riacquistò coscienza della realtà. O piuttosto l'aveva sempre avuta: ma essa non riusciva ad esprimersi attraverso le casse di risonanza d'un mondo politico e sindacale che quando evocava cautamente il terrorismo rosso si sentiva il dovere di aggiungere, anche se l'occasione fosse inadatta, il rituale riferimento al terrorismo nero. (p. 195)
*Protagonista di una bancarotta, [[Michele Sindona|Sindona]] fu, dopo il 12 luglio 1979, qualcosa di molto peggio: mandante d'un omicidio. L'accusarono d'aver ingaggiato un ''killer'' professionista, William Joseph Aricò, per eliminare il troppo onesto troppo puntiglioso e troppo fastidioso Ambrosoli. Aricò s'era dimostrato degno della sua truce fama: con quattro colpi di una Magnum 357 aveva abbattuto a Milano in via Morozzo della Rocca la vittima designata. Poco meno di sette anni dopo, il 18 marzo 1986, la Corte d'Assise di Milano dichiarò Michele Sindona colpevole di omicidio aggravato e lo condannò all'ergastolo. (p. 206)