L'inferno di Dante: differenze tra le versioni

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Canto IX
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'''L'inferno di Dante''' è un saggio scritto da [[Vittorio Sermonti]] e pubblicato da Rizzoli nel 1988. Con la supervisione di [[w:Gianfranco Contini|Gianfranco Contini]], l'opera si presenta sia come riproposizione della [[w:Inferno (Divina Commedia)|Prima Cantica dantesca]] (versione critica completa), che come analisi e commento della stessa.
 
==[[s:Divina Commedia/Inferno/Canto I|Canto I]]==
 
*La candida pretesa di leggere questo libro come si legge un'antologia di emozioni liriche, di leggerlo, diciamo così, col cuore (e se non si capisce subito, pazienza), è forse una pretesa un po' gretta: anche il cuore, infatti, ha i suoi pregiudizi e una saccenteria<ref>Sermonti, ''L'inferno di Dante'', cit., p. 4</ref>
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*Perdonate la miseria delle parafrasi e la farraginosa carenza delle chiose, Ma per tentare di orientarsi nel labirinto di questi versi - insieme proverbiali ed arcani - forse non c'è che leggere sino alla fine il gran libro, il libro-mondo al quale preludono.<ref>Ibid., p. 13</ref>
 
==[[s:Divina Commedia/Inferno/Canto II|Canto II]]==
 
*Dante sta avviando un canto magistralmente ordito di retorica: diciamo pure, il canto della Retorica Celeste. <ref>Ibid., p. 19</ref>
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*Il racconto scorre più soave e piano che mai, ma riflettiamo un attimo alla incredibile sofisticazione del congegno espositivo: Dante, insomma, ci sta dicendo che in un'oscura costa Virgilio gli ha detto, che nel Limbo Beatrice gli ha detto, che nell'alto dei cieli Lucia gli ha detto, che la Madonna le ha detto di correre in soccorso di Dante... <ref>Ibid., p. 26</ref>
 
==[[s:Divina Commedia/Inferno/Canto III|Canto III]]==
 
*Fatto è, che in nessun altro canto come in questo (e nel successivo) Dante si tiene tanto addossato al suo Virgilio: Non si contano i versi che meriterebbero di esser letti con il testo del VI libro dell'Eneide a fronte. Meriterebbero: infatti, le variazioni che Dante apporta nel travaso da lingua a lingua, da cultura a cultura, minime spesso, sono sempre, comunque, decisive.<ref>Ibid., p. 37</ref>
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*Polifonia sgangherata della dannazione. Dalla turba dei dannati che ondeggia nel buio non s'alzano due voci che s'accordino. Ognuno soffre per sé. La solitudine è l'estrema sanzione della pena.<ref>Ibid., p. 38</ref>
 
==[[s:Divina Commedia/Inferno/Canto IV|Canto IV]]==
 
*Dante che, povero e vagabondo, verosimilmente scriveva su cartaccia, non ci ha lasciato un verso autografo, non una parola, non una lettera, e tanto meno una virgola.<ref>Ibid., p. 53</ref>
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*Il peccato originale, la colpa senza responsabilità, il male irredento e innocente di esser venuti al mondo condannati a morte, magari fosse una vecchia intimidazione di secoli bui! È il buio che ci portiamo dentro tutti. E la pietà che Virgilio prova per i suoi compagni di pena e Dante prova per Virgilio, è forse la pietà che tutti ci meritiamo nascendo.<ref>Ibid., p. 59</ref>
 
==[[s:Divina Commedia/Inferno/Canto V|Canto V]]==
 
*Con meticolosa rabbia di vendetta, [Minosse] applica sentenze di morte eterna irrogate da una Legge, della quale ignora i disegni (e che ha condannato anche lui). Mansione improba ma, diciamocelo, priva di qualsiasi maestà ("''cotanto offizio''" forse non significa altro che "quel po' po' di lavoro").<ref>Ibid., p. 67</ref>
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*Per quanto costi di tormento a Dante-pellegrino abiurare ai dolci pensieri in rima della propria adolescenza (...), il sacro scrivano della Commedia crede di sapere, sa, che in eterno non si può amare che l'Eterno. E solo una fede così dura gli consente di cantare questo morbido, rapinoso ed estremo canto d'amor profano.<ref>Ibid.</ref>
 
==[[s:Divina Commedia/Inferno/Canto VI|Canto VI]]==
 
*Se il Cerbero del mito classico è fratello dell'Idra, questo è un cugino declassato delle Arpie. Anche lui terrorizza con lo schifo che fa.<ref>Ibid., p. 82</ref>
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*Il peccato di chi si abbrutisce al servizio del proprio apparato digerente, gorgogliando di delizia, gli appare, appunto, non maggiore di altri, ma più repellente e umiliante di qualsiasi. Chissà se oggi non caccerebbe sotto quel diluvio di fanghiglia, per depravazione simmetrica, anche quelli che, golosi di sé, praticano il tetro ascetismo delle diete integrali.<ref>Ibid., p. 85</ref>
 
==[[s:Divina Commedia/Inferno/Canto VII|Canto VII]]==
 
*(...) le parole sono tre: "pape" o "papé", "Satan" e "aleppe". E per "Satan" non dovrebbero esserci problemi. "Pape (alla latina, o "papé" alla greca) potrebbe essere l'interiezione di stupore e stizza, attestata dai comici antichi, che sta più o meno per l'"ohibò" dei nostri nonni (oggi pratichiamo interiezioni un po' più genitali).<ref>Ibid., p. 98</ref>
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*E se l'Ottocento diffidò di questo canto, dove trovava «il descrittivo» ma non «il drammatico», sarà anche perché non praticava le euforiche mortificazioni della società affluente, i processi di identificazione collettiva nei simboli del consumo, e tanto meno (se possiamo permetterci la spudoratezza dell'anacronismo) la coazione all'improperio, alla rissa, allo scontro frontale che tiranneggia il nostro Sisifo di massa negli ingorghi di traffico.<ref>Ibid., p. 102</ref>
 
==[[s:Divina Commedia/Inferno/Canto VIII|Canto VIII]]==
 
*Nelle brume di questo quinto cerchio, [Flegias] saettante e impalpabile sagoma di fuoco ("''flego''", greco, e "''flagro''", latino, significano "incendio, ardo"), sarà emblema flagrante della pazza collera di vendetta.<ref>Ibid., p. 113</ref>
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*Ma questo esercito di diavoli piovuti dal cielo e dalle pagine dei Padri della Chiesa, dagli affreschi di basilica o di camposanto e dalle fobie del popolo cristiano, lo rintuzza [Virgilio] e lo mortifica.<ref>Ibid., p. 120</ref>
 
==[[s:Divina Commedia/Inferno/Canto IX|Canto IX]]==
 
*Sappiamo che il viaggio si consuma in un tempo storicamente determinato (la primavera dell'anno 1300). Il tempo in cui l'Io racconta è, invece, il presente fittizio della scrittura: è il tempo, insomma, in cui Dante Alighieri "finge" di scrivere i poema sacro, abilitato dalla percezione del Creatore. Ma, contemporaneamente, ogni volta che chiunque dà voce a quei versi, è il presente di cui vive chiunque. Il Tu cui quell'Io si rivolge, di tratto in tratto interpellandolo espressamente, è il lettore. Ma il lettore che ad alta voce dice "pensa, lettor" sta pronunciando parole di un monologo profetico in cui l'attimo e l'atto stesso della lettura sono profetizzati come simultanei all'atto e all'attimo della scrittura, nell'immanenza assoluta del presente di Dio, nella "onnipresenza" di Dio.<ref>Ibid., p. 131</ref>
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*E con quest'allusione pesante alla favola di Ercole (...), il messo celeste tronca il discorso, si gira e si riavvia per il cammino fangoso, senza rivolgere parola ai due poeti, col piglio di persona incalzata da ben altro pensiero che non quello di chi gli sta fra i piedi.<ref>Ibid., p. 133</ref>
 
 
 
==Note==
<references/>
 
==Altri progetti==
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