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==''La tabacchiera di don Lisander''==
*Ma [[Alessandro Manzoni|don Lisander]] non era tipo da cedere e assecondare senza una sua convinzione. Nel progetto della [[Teresa Borri|moglie]] e del [[Stefano Stampa|figliastro]], lo allettava il proposito di un ritratto "conversato". Il quadro di [[Francesco Hayez|Hayez]] (oltre che far coppia con quello della seconda moglie) doveva infatti risultare in dialogo correttivo con l'immagine che dello scrittore in piedi sullo sfondo del lago di Como, nell'atto di stringere un libro e di guardare in alto assorto, un decennio prima avevano fissato su tela il Molteni e il [[Massimo d'Azeglio|d'Azeglio]]: «Non vollero ch'ei fosse ritratto con un libro in mano né coll'aria ispirata (come se non si fosse saputo ch'ei sapeva leggere e scrivere e ch'era un poeta ispirato), ma coll'aria calma di chi ascolta per poi parlare», precisava memorando il solito Stefano Stampa. Per donna Teresa e per il figliastro, quindi, la tabacchiera doveva stare al posto del libro. Però il sorriso dissimulato del Manzoni secondo Hayez, sembra dire altro a proposito dell'utensile. (p. 4)
*Era stata donna [[Teresa Borri|Teresa Stampa]], dirigista come sempre a volere che si effigiasse quella tabacchiera. Al [[Francesco Hayez|pittore]] non restò che assecondarla. E l'assecondò pure il [[Alessandro Manzoni|marito]] che, per quanto riluttante ai ritratti, acconsentì a posare nello studio di Hayez: facendosi ritrarre – senza mai uso di manichino – seduto, con in mano la familiare tabacchiera accarezzata più che stretta. Donna Teresa, dopo che il venerato consorte aveva portato a termine la risciacquatura in Arno dei [[I promessi sposi|''Promessi sposi'']], lavorava già per i posteri e pensava al museo degli oggetti domestici da conservare a futura memoria. Per questo aveva imposto l'umile accessorio. Voleva che «si facesse nota di una di quelle familiari abitudini, che poi appunto in grazia della loro familiarità sfuggono, o sono dimenticate dalla Storia», scriveva d'accordo con lei il figlio Stefano. (Da ''Viaggio sentimentale attorno a una tabacchiera (in forma di prefazione)'', p. 4)
*La "scatola" di [[fra Cristoforo]] è un'acquisizione dei [[I promessi sposi|''Promessi sposi'']]. Nel ''Fermo e Lucia'' il «pezzo di pane» sortisce da una «sporta». E viene consegnato a Fermo. Solo a lui; che ancora non si è ricongiunto con la sua Lucia. Diversa è la scena che i ''Promessi sposi'' raccontano. [[Renzo Tramaglino|Renzo]] e [[Lucia Mondella|Lucia]] si sono ormai ritrovati. E a loro due, congiunti nel «voi» e nel «figliuoli» delle allocuzioni del frate, viene dato «il resto del pane»: tolto sì dalla «sporta»; ma offerto dentro «una scatola». L'edizione illustrata del romanzo indugia sull'episodio ripensato. Con una silografia di [[Francesco Gonin]] (cfr. fig. 3). E si sa che la mano dell'artista fu costantemente guidata e controllata dallo stesso [[Alessandro Manzoni|Manzoni]]. la vignetta è fedele alla nuova situazione narrativa. (pp. 9 e 11)
*Il Seicento del ''Fermo e Lucia'' ha una forte rilevatura barbarica. Di tipo tragico. E ancora nella lettera del ''Discorso sur alcuni punti della storia longobardica in Italia'' (1822): "[...] salvare una moltitudine dalle ugne atroci delle fiere barbariche". Di "unghie" e "sozzi artigli", che graffiano l'aria, il romanzo è stipato; come pure di varie "fiere": tanto che la stessa Lucia è "bella fera". La società è divisa in "facinorosi" e in "circospetti": bracchi e pernici; in cacciatori (talvolta leggiadri) e lepri; in uccellacci e uccellini; in diavoli incarnati e prede. Tutto il romanzo è una caccia all'uomo, crudele e barbarica. Che in parte sopravvive nei [[I promessi sposi|''Promessi sposi'']], ma nella superiore dimensione del "patire" dell'[[Alessandro Manzoni|adelchiano]] "[...] far torto o patirlo [...]" (V,7,52); e di una feroce forza che “il mondo possiede” (V,7,52-53). La morale della Chiesa “comanda di patire piuttosto che di farsi colpevole", dice Manzoni. E il principio viene indegnamente tradotto da [[don Abbondio]], nel suo idioletto della paura: "Non si tratta di torto o di ragione; si tratta di forza". (Da ''Parte prima, Capitolo III, L'Anonimo e il Gesuita'', pp. 51-52)
*La [[scrittura]] è un metter nero su bianco, che impegna "così... dalla vita alla morte". Con la "gestuosa arte de' cenni" (ampiamente frequentata dalla trattatistica del Seicento, ed evocata da [[Alessandro Manzoni|Manzoni]] nell'apertura del capitolo VI del primo tomo del ''Fermo e Lucia'') condivide la qualità visibile della "muta favella": altro non è infatti, la scrittura, che un conversar "sulla carta [...] con parole mute, fatte d'inchiostro". Carta, penna e calamaio sono gli emblemi dell'"applicazione studiosa". Sono gli strumenti "del miglioramento umano" e della "coltura pubblica"; se per loro tramite si riversa nella società la scienza attiva di una [[biblioteca]], come quella ambrosiana fondata da [[Federico Borromeo]] per confondere l'"ignorantaggine" e l'"inerzia" di un secolo capzioso agitato da malestri e turpitudini... (Da ''Parte prima, Capitolo IV, Carta, penna e calamaio'', p. 68)
*Il paradigma lavora dentro i [[I promessi sposi|''I promessi sposi'']]. Borsieri aveva presentato il Duomo di Milano come un'"artificiale montagna di sasso". La similmontagna si biblicizza subito in [[Alessandro Manzoni|Manzoni]], che le "pietre" di Dio contrappone ai "mattoni" dell'uomo; e la grandiosità della natura oppone alla "superbia" dell'ingegneria umana. L'occhio del montanaro Renzo si è educato alla contemplazione delle "alture di Dio"; ma a Milano è costretto a confrontarsi con l'"ottava meraviglia". Isola quindi la "macchina" dell'uomo. E la città diventa una scena vuota, ampia di solitudine. Dentro il metafisico deserto del perimetro urbano si alza l'umana superfetazione, fronteggiata, sulla linea dell'orizzonte, dalle dentaie del Resegone... (Da ''Parte prima, Capitolo V, L'errore sulla lapide'', p. 78)
*La storia è un "immenso pelago di errori". La denuncia veniva dall'illuminismo giuridico. E da ''Dei delitti e delle pene'' di [[Cesare Beccaria]], in particolare. Tutti gli errori, [[Alessandro Manzoni|Manzoni]] compendia nella storia morale e politica del Seicento: l'incertezza del diritto, la legislazione eccessivamente proliferante che a colpi di gride sopporta l'arbitrio dei potenti e la manipolazione dei causidici, l'impunità organizzata delle classi e delle consorterie (e persino della Chiesa), la cultura economica irresponsabile e monopolistica (che blocca la libera concorrenza e impone la demagogia del prezzo politico), la persecuzione dell'onestà disarmata. Il [[I promessi sposi|romanzo]] di Manzoni aggredisce l'errore nei suoi punti di perversione. Con sdegno, senz'altro. Ma anche con compassione: "[...] la morale cattolica rimuove le cagioni che rendono difficile l'adempimento di questi due doveri, odio all'errore, amore agli uomini". (Da ''Parte prima, Capitolo V, L'errore sulla lapide'', p. 80)
*Per l'"errore" di [[don Abbondio]], [[Alessandro Manzoni|Manzoni]] ha umana comprensione. Quando Federico Borromeo arringa il confuso e ammutolito curato sul coraggio intrepido dell'esercizio pastorale, sul «timore» e sull'«amore» che esso comporta, Manzoni si fa partecipe delle realistiche «ragioni» del pavido di fronte alla facile magniloquenza di un "santo" [...]. La pusillanimità di don Abbondio, è una «debolezza della carne», per Federico Borromeo; che ad essa oppone la virtù di «fortezza». (Da ''Parte seconda, Capitolo I, Un falsario della prudenza e della Grazia'', p. 98)
*Quel tiranno di [[don Rodrigo]] si era incapricciato di [[Lucia Mondella|Lucia]]. E su di essa aveva fatto scommessa col cugino Attilio, suo «spensierato» complice nelle soverchierie. Cominciano le traversíe dei due operai. (Da ''Parte seconda, Capitolo I, Un falsario della prudenza e della Grazia'', p. 99)
*C'è molta affinità tra lo "studiolo" manierista descritto da [[Galileo]] e la cultura che si respira nella biblioteca di [[Don Ferrante (personaggio)|don Ferrante]] (passata dai quasi cento volumi del ''Fermo e Lucia'' ai quasi trecento dei [[I promessi sposi|Promessi sposi]]). L'aristotelico manzoniano, che si ostinerà a negare l'epidemia di peste (né «sostanza» né «accidente») pur mentre ne moriva «prendendosela con le stelle», melodrammaticamente, e in un aggiornamento del motivo antico del filosofo di proverbiale inettitudine nella vita pratica [...]. (Da ''Parte seconda, Capitolo I, Un falsario della prudenza e della Grazia'', pp. 101-102)
*[[Fra Cristoforo]], evocatore di santini, è un attore nel teatro della fede. Predilige le pose sceniche. Incantatorie. E profetiche, soprattutto; alla Nathan: il profeta che Dio mandò a [[Davide|David]] per annunciargli la punizione. (da ''Parte seconda, Un tirannello in linea retta'', p. 121)
*La dimensione comica salva [[donna Prassede]] dalla perdita del nome. Ma non dalla sottile insinuazione del tartufismo. Donna Prassede è personaggio molieriano. Fa professione di devozione. Laddove i «devoti nel cuore» non «[...] veulent point prendre, avec zèle extrême, les intérêts du Ciel plus que'il ne veut lui-même».<ref>Molière, ''Il misantropo'': «con esagerato zelo [non] vogliono fare gli interessi del Cielo più che il Cielo non voglia».</ref> La malignaccia morirà di peste. E «di Donna Prassede, quando si dice ch'era morta, è detto tutto». Non servono addii. (Da ''Parte seconda, Capitolo V, Un tiranno più lto delle somme altezze'', p. 138)
*[[Fra Cristoforo]] si pone in mezzo, tra vessatori e vittime: i primi esorta, riprende e cerca di correggere con drastiche restrizioni morali; agli altri insegna a non «affrontare», a non «provocare» e a farsi «guidare» da lui. Il carattere del frate è di qualità ignea. Il cappuccino ha «indole focosa». Il suo volto è «infocato». Le parole dell'abuso gli fanno «venir le fiamme sul viso». E lo mandano in combustione: «Tutti que' bei proponimenti di prudenza e di pazienza andarono in fumo». (Da ''Parte seconda, Capitolo VI, Il carro del Sole'', pp. 145-146)
*[[Fra Cristoforo]] crede di aiutare i giovani promessi, costretti alla fuga dal borgo, con due lettere di presentazione. Li spedisce in due conventi, a Monza e a Milano. E finisce per consegnarli, sprovveduti, a due sconvolgenti romanzi: [[Lucia Mondella|Lucia]] inciampa nelle trame di sangue della Monaca e dell'[[Innominato|innominato]]; e nell'allegra follia di una «coppia d'alto affare» ([[Don Ferrante (personaggio)|don Ferrante]] e donna Prassede); [[Renzo Tramaglino|Renzo]] si dissipa, tra strade e osterie, nel «''grosse Welt'' della storia»: da Milano a Bergamo, andata-ritorno-andata, via carestia e peste [...]. (Da ''Parte seconda, Capitolo VII, Il sugo della storia'', p. 150)
*Ma se [[Renzo Tramaglino|Renzo]] ha imparato e continua a imparare, nulla ha imparato e nulla può imparare [[Lucia Mondella|Lucia]]; per lei la verità sapienzale non è una conquista, è una dote da trasmettere. Ma se Renzo era andato di parole, temperamentoso e affettatuzzo: troppo alla propria esperienza attribuendo. In una vana persuasione d'orgoglio, aveva creduto che il suo decalogo di quietitudine poggiasse sul granito; e fosse un «monumento» di conclusiva saggezza. Fu l'ultima sua mattería; quasi una fanfaronata, spiantata e scavezzata dall'umile rigore di Lucia. Ché ogni appoggio è dirupante nel ritmo vicissitudinale della storia: della storia vera e di quella supposta, che si svolge e nuovamente s'involge; e insolentisce, inconcludibile. (Da ''Parte seconda, Capitolo VII, Il sugo della storia'', pp. 154-155)
*Felicità. Cos'è la felicità, per [[Renzo Tramaglino]]? Si tenti l'avventura di entrare nel suo romanzo. Non in quello che uno scrittore di nome [[Alessandro Manzoni]] dice di trascrivere e riscrivere. Ma in quello autobiografico che, all'interno del [[I promessi sposi|romanzo manzoniano]], Renzo ama raccontare a se stesso. E agli altri, incontenibile. E, fra essi, all'anonimo romanzatore: suo improvvisato e incontrollabile segretario, nell'occasione. La propensione narrativa di Renzo imbocca dapprima, «nella sua fantasia», la strada di un romanzo precocemente operaio; ma poi l'abbandona, per assecondare un più disponibile e idillico romanzo familiare [...]. (Da ''Parte seconda, Capitolo IX, Tanti romanzi, a conferma'', p. 163)
*[[Lucia Mondella|Lucia]] è «acqua cheta». Tuttavia è lei ad avere sempre ragione. Su tutti. Su don Rodrigo, su suor Gertrude e sull'innominato; come sul [[Renzo Tramaglino|marito]] e sul suo romanzo. (Da ''Parte seconda, Capitolo IX, Tanti romanzi, a conferma'', p. 167)
 
==''Le brache di San Griffone. {{small|Novellistica e predicazione tra '400 e '500}}''==