Salvatore Di Giacomo: differenze tra le versioni

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*{{NDR|Gli [[Scavi archeologici di Pompei]]}} All'archeologo, all'artista, al frettoloso ''touriste'' questo spettacolo non cessa, sì, di offrire, ogni volta che n'è interrogato, la svariata quantità e qualità de' suoi particolari, materia di studio e conoscenza dell'antico, materia di raro allettamento estetico, d'insospettata e immensa sorpresa. Ma, quasi antevedendo tali future esplorazioni e le mille e mille insaziate interrogazioni onde sarebbero stati oggetto quelle mura superstiti, questi incliti edifici, queste case stesse di cui si continua a frugare ogni giorno la più riposta intimità, l'ospite filosofico di tanti gaudenti e spensierati suoi commensali non ha voluto forse lasciare scritta sulla parete del suo triclinio, come un freddo monito, la frase secca e definitiva che or io leggo con un sussulto, da che mi pare che risponda alla segreta, peripatetica domanda che mi sono rivolta poco fa? ''Fugge il [[tempo]], e non merita fede. Perisce ogni cosa, e tante volte neppur ne rimane il ricordo. Il futuro è un mistero. E tu non confondere la tua esistenza con cercare di conoscerlo...''<ref>Da ''La via dell'abbondanza'', in ''Napoli: figure e paesi e Luci e ombre napoletane'', a cura dI Romualdo Marrone, 2M Edizioni, pubblicato in accordo con Newton Compton Editori, 2018, p. 258. ISBN 978-88-9322-210-5</ref>
*Chi bada in [[Napoli]] al suo decoro? Certo, chi dovrebbe no. Lascia fare e lascia correre – ecco la frase filosofica, sacramentale d'ogni indifferente partenopeo, sia egli in alto nella cosa pubblica o le passi accanto tranquillo.<ref>Da ''Il palazzo di Giustizia in Napoli'', in ''Saggi insoliti'', Stamperia del Valentino, Napoli; citato in Antonio Emanuele Piedimonte e Anna Scognamiglio, ''Napoli. {{small| Uomini, luoghi e storie della città smarrita}}'' Intra Moenia, Napoli, 2013, p. 13. ISBN 978-88-95178-77-6</ref>.
*{{NDR|Via dell'Abbondanza nell'antica Pompei}} Chi consideri questa strada pittoresca da' policromi aspetti delle sue due pareti – quasi ininterrottamente istoriate, disseminate di figure grandi e di figurette assai gentilmente e argutamente dipinte, di indicazioni e chiarimenti ai passanti, di additazioni di candidati a pubblici offici, di salaci motti popolareschi perfino – la potrà, se mai, paragonare a una di quelle folte viuzze giapponesi ove tutto è luce e colore; ove, di su le botteghe infronzolite, pendono le più immaginose leggende illustrate; ove panneggiamenti e arazzetti e banderuole e fanali multicolori allungano festosamente la lor bizzarra infilata fino al punto in cui pare che, nel lontano, la via si restringa e si concluda.<br>Immaginate, rivestendo con la vostra riarchitettazione opportuna tutto quel che ora è presso che spogliato e ripopolando questa via, così frequentata una volta, delle figure umane che vi passavano, immaginate, dunque, quel traffico, quel viavai, quel continuato riempirsi e svuotarsi di questa principale arteria della felice ''Colonia Venerea'', e la coglierete nel suo ritmo più pulsante e sonoro.<ref>Da ''La via dell'abbondanza'', in ''Napoli: figure e paesi e Luci e ombre napoletane'', pp. 259-260.</ref>
*{{NDR|Su [[Francesco Proto]]}} Due mesi prima, in un buon giorno di sole, il povero vecchio uscì da quella camera per rivedere ancora una volta il suo studiolo, ove, finalmente, era {{sic|riescito}} a porre in assetto i suoi libri e ad ordinare le sue carte. Ve lo ritrovai, quel giorno, sprofondato in una poltrona, presso all'aperta finestra. Un mormorìo confuso saliva, da lontano, alla pace de' balconi fioriti, alla gran pace silenziosa del Palazzo Cellammare: egli ascoltava – con la bocca schiusa, col corpo lievemente proteso, con le mani spiegate su' bracciuoli della poltrona – la voce della città, quella voce alla quale s'eran dianzi mescolati i suoi caratteristici urli di meraviglia, le sue schiette e {{sic|romorose}} risate, i suoi scoppî {{sic|approbativi}} che mettevano in curiosità e in subitaneo stupore i marciapiedi di Chiaia e di Toledo. <br />Ascoltava, ascoltava, estatico: s'abbeverava avidamente di quel soffio di vita e un tremor nervoso lo pervadeva tutto. ''Solo:'' or egli era ''solo'', là dentro, egli che era stato tanto con ogni cosa viva e con tutti. E, pian piano, il suo povero corpo s'abbandonò, le mani scivolarono su pe' bracciuoli, la testa reclinò, triste, sul petto. <br />– Duca?<br />– Oh... figlio. {{sic|..}} buon giorno...<br />– Come state?<br />Egli sorrise. E disse, piano, nel silenzio, mentre pur i {{sic|romori}} esterni parevano sopiti, disse, napoletanamente:<br />– ''Nun vide? Sto murenno''...<ref>Non vedi? Sto morendo...</ref><ref>Dalla necrologia per Francesco Proto; citato in [[Benedetto Croce]], ''La letteratura della nuova Italia, Saggi critici'', vol. III, Giuseppe Laterza & Figli, Bari, 1922<sup>2</sup> riveduta, p. 81.</ref>
*Ed è a proposito di Giuliano da Maiano che qui ci ricorre alla memoria quel napoletano [[Giovanni Francesco Mormando|Giovanni Donadio, detto il {{sic|Mormanno}}]], il quale ben potrebbe essere stato uno degli scolari più egregi di quell'elegante artefice fiorentino. Era il Donadio, come un suo pur conosciuto fratello, architetto e costruttore d'organi a un tempo, e forse aveva tutte e {{sic|due cose}} appreso a Firenze da tanto maestro: certamente il costui modo nobile e ricco si riscontra in tutte le opere alle quali i signori napoletani chiamarono il Mormanno e si manifesta specie nell'architettura e nella decorazione così del palazzo dei di Capua in ''Via S. Biagio de' Librai'', come nell'altro de' duchi di Vietri, che gli è vicino e che ora è posseduto dal duca di Corigliano Saluzzo.<ref>Da ''Napoli'', pp. 92-93.</ref>
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==''Napoli: figure e paesi e Luci e ombre napoletane''==
*Tempo già fu – quando il buon Dio, tenero dell'umana felicità, facea gravi di rosei grappoli le viti; quando [[Napoli|Partenope]], nella dolce estate, poteva dissetarsi all'acqua limpida e sana della Bolla e del Carmignano senza aver bisogno di badare al contatore; quando il sale, ammucchiato a ogni cantone, era libera preda {{sic|de'}} napoletani, che lo buttavano a manate nel ''zuffritto'' e sulle torte fumanti – tempo già fu in cui nacque, a [[Napoli]], {{sic|da'}} soliti poveri ma onesti genitori, ''[[Pulcinella|Pulcinella Cetrulo]]''. (da ''Il teatro'', p. 15.)
*{{NDR|[[Marechiaro (Napoli)|Marechiaro]]}} La giornata era raggiante, piena di riso e di gaiezza: il mare e quella pace, deliziosa in tanta solitudine e in così profondo silenzio, sommovevano tutto un flutto d'idee. Lo spirito s'indugiava a rincorrerle tra le mille voluttà d'un quasi addormentamento. Come da un {{sic|secreto}} recesso dal cavo ombroso delle rocce che ci accoglieva contemplavamo l'uguale immensità dell'acqua, la sua sterminata superficie che, lontano lontano, a perdita di vista, raggiungeva l'arco del cielo. Una larga chiazza più azzurrina, quasi bluastra, tingeva l'acque, laggiù, sotto [[Capri]]. E vagamente appariva, con disegno quasi impreciso, l'isola tiberiana. Tutto il lontano era in una pace solenne, nell'immobilità d'uno scenario.<ref>Da (da ''La canzone'', p. 52.</ref>)
*{{NDR|L'uccisione di [[Masaniello]] e lo scempio del suo corpo}} Triste storia, che, peculiarmente, dimostra come il popolo [[Napoli|napoletano]], la plebe per meglio dire, non abbia mai avuto una coscienza propria: abituata a servire, s'è macchiata, in servitù, fin del sangue suo stesso. Essa ha avuto sempre lo sciagurato destino degl'ignoranti e le sue lacrime postume non hanno cancellato mai più certe crudeltà e certi delitti i quali, tuttavia, la fanno più degna di pietà che d'odio. (da ''Masaniello'', p. 70)
*Sulle rovine della trattoria di Solla, o meglio, della sua ''pagliarella'' famosa, sugli umidi terreni delle ''Paludi'' è sorto un quartiere novello co' suoi trenta colossali palazzi. Ed è venuto su davanti ai meravigliati occhi della gente di quartier [[Vicaria]] come in un racconto delle ''Mille e una notte'' sorge dalla fantasia di Sheherazade una reggia, rimpetto al palazzo d'[[Hārūn al-Rashīd|Harun–al–Rascid]]. (da ''Antiche taverne'', p. 137)
*{{NDR|[[Via Toledo]]}} [...] la gran fiera d'ogni agitazione, il teatro d'ogni passione tumultuaria e fuggevole, la rapida scena perenne d'ogni forma della vivacità partenopea. (da ''Il Quarantotto'', p. 144)
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*[...] ecco dunque il nostro dialetto che davanti a un soffio così {{sic|novo}} e così classico<ref>Il riferimento è alla prospettiva culturale dischiusa dall'Umanesimo.</ref>s'arretra a mano a mano e finalmente, dopo quasi {{sic|dugento}} anni, ripara alla fonte primitiva che lo contenne, e torna a {{sic|que'}} rivi gonfi ed aperti i quali {{sic|da'}} loro facili margini già lo avevan visto traboccare e diffondersi. Ed eccolo dunque ridiventato, nel secolo decimosesto, cosa affatto particolare e propria della plebe, cosa più umile e però quasi spregiata e oscurata, ancora, dalla nobiltà dell'opera e della voce sopravveniente.<br>Ma l'anima popolana, la quale sente sempre il bisogno di manifestarsi, s'agitò pur allora. Ella, impaziente, frugò in fondaci e vicoli e strettole; ella ne snidò, fremente, i suoi poeti sinceri – e a questa gente povera ma ingegnosa, intinta ancora d'un non so che di letterario che l'addestrava a metri armoniosi o suonanti, a questa gente che non mai aveva asceso scale di principi o di università, l'anima popolana, quasi inebriata da tanto e così onorevole conflitto, disse: {{sic|Va}}, e parla, e canta pure in mio nome! (da ''Poesia dialettale napoletana'', pp. 254-255)
*[...] ''Con l'aiuto che Dio ci manda dal Cielo noi ci sforzeremo di dar giovamento al parlare delle genti volgari''. Questo egli {{NDR|[[Dante]]}} disse, quando {{sic|pel}} primo, e con la divinatrice mente che rivolse pur alle prime questioni filologiche, andò radunando, e raccogliendo e sceverando ogni più sparso suono perché, come quasi stillati e mescolati, essi componessero per la nostra lingua armoniosa una concorde e sonora melodia.<br>E questo io ripeto ancora non perché già non numeri nella lingua nostra secoli di affermazione gloriosa e non abbia dato nitidi e vaghissimi attestati, ma appunto per osare di credere che da tanta ricchezza non sia per essere spregiata, ancor oggi, una dimessa voce, la quale pur offerse all'Italia la più antica {{sic|pruova}} di sé: una voce che serbò quasi intatto il suo suono e che se ne vuol giovare, agli anni nostri, per dir cose che pur appartengono alla Verità e alla Vita. (da ''Poesia dialettale napoletana'', p. 257)
*{{NDR|Gli [[Scavi archeologici di Pompei]]}} All'archeologo, all'artista, al frettoloso ''touriste'' questo spettacolo non cessa, sì, di offrire, ogni volta che n'è interrogato, la svariata quantità e qualità de' suoi particolari, materia di studio e conoscenza dell'antico, materia di raro allettamento estetico, d'insospettata e immensa sorpresa. Ma, quasi antevedendo tali future esplorazioni e le mille e mille insaziate interrogazioni onde sarebbero stati oggetto quelle mura superstiti, questi incliti edifici, queste case stesse di cui si continua a frugare ogni giorno la più riposta intimità, l'ospite filosofico di tanti gaudenti e spensierati suoi commensali non ha voluto forse lasciare scritta sulla parete del suo triclinio, come un freddo monito, la frase secca e definitiva che or io leggo con un sussulto, da che mi pare che risponda alla segreta, peripatetica domanda che mi sono rivolta poco fa? ''Fugge il [[tempo]], e non merita fede. Perisce ogni cosa, e tante volte neppur ne rimane il ricordo. Il futuro è un mistero. E tu non confondere la tua esistenza con cercare di conoscerlo...''<ref>Da (da ''La via dell'abbondanza'', p. 258.</ref>)
*{{NDR|Via dell'Abbondanza nell'antica Pompei}} Chi consideri questa strada pittoresca da' policromi aspetti delle sue due pareti – quasi ininterrottamente istoriate, disseminate di figure grandi e di figurette assai gentilmente e argutamente dipinte, di indicazioni e chiarimenti ai passanti, di additazioni di candidati a pubblici offici, di salaci motti popolareschi perfino – la potrà, se mai, paragonare a una di quelle folte viuzze giapponesi ove tutto è luce e colore; ove, di su le botteghe infronzolite, pendono le più immaginose leggende illustrate; ove panneggiamenti e arazzetti e banderuole e fanali multicolori allungano festosamente la lor bizzarra infilata fino al punto in cui pare che, nel lontano, la via si restringa e si concluda.<br>Immaginate, rivestendo con la vostra riarchitettazione opportuna tutto quel che ora è presso che spogliato e ripopolando questa via, così frequentata una volta, delle figure umane che vi passavano, immaginate, dunque, quel traffico, quel viavai, quel continuato riempirsi e svuotarsi di questa principale arteria della felice ''Colonia Venerea'', e la coglierete nel suo ritmo più pulsante e sonoro.<ref>Da (da ''La via dell'abbondanza'', pp. 259-260.</ref>)
*{{NDR|[[Raimondo di Sangro]]}} Quell'uomo fu di grande ingegno e di grandissimo spirito: se non mi sbaglio, si valse dell'una cosa più per diletto proprio che per altro, e dell'altra usò per burlarsi un po' di tutti.<br>È anche, e specie per questo, ch'egli ha meritato di passare alla posterità. (da ''Un signore originale'', p. 270)
*{{NDR|Su [[Vincenzo Gemito]]}} Guardate il ritratto di [[Mariano Fortuny y Madrazo|Fortuny]], guardate quelli del [[Domenico Morelli (pittore)|Morelli]] e del [[Giuseppe Verdi|Verdi]], e vi cercherete invano le linee determinate, il segno preciso e scolastico, l'insistenza, l'incasso palese dell'occhio, l'osservativo scrupolo di quei dati somatici che sono dei più studiati e accarezzati dalla plastica, intransigente, freddo, se pur limpido specchio dell'essere. Eppur nulla è più appariscente e più vivo di quel viluppo che sembra oscuro e non è; nulla è più parlante, nulla è più fuso e più molle, e da nessuna cosa mai come da queste, che vogliono essere la reincarnazione d'una persona, si parte come un respiro, un caldo soffio di vitalità.<ref>Da (da ''Vincenzo Gemito'', p. 307.</ref>)
 
=='' 'O voto''==