Simon Wiesenthal

ingegnere, scrittore e investigatore austriaco

Simon Wiesenthal (1908 – 2005), ingegnere e scrittore austriaco.

Simon Wiesenthal nel 1982

Intervista di Emanuele Novazio, La Stampa, 5 dicembre 1992.

  • Nei dodici anni di guerra fredda, dal 1948 al '60, non si è fatta tabula rasa del nazionalsocialismo. Non si poteva difendere l'Europa senza la Germania, e non si è fatta attenzione agli sviluppi del fenomeno.
  • [Sul rigurgito neonazista nella Germania riunificata] Va tenuto presente che i giovani della ex Ddr sono stati educati con una precisa concezione del nemico, e che i genitori in uno Stato comunista non hanno influenza sui giovani. Quando questi giovani sono disoccupati e frustrati, cercano una provocazione.
  • Quando la xenofobia esplode, gli ebrei sono automaticamente coinvolti. Perché in parecchi Paesi gli ebrei continuano a essere considerati degli stranieri, nonostante siano presenti da generazioni.
  • [Sul possibile ritorno del nazionalsocialismo al potere] Assolutamente no, a meno di una crisi pericolosa: se ci fosse una grande crisi economica, i democratici finirebbero per così dire sotto accusa, e tutto sarebbe possibile. Ma non accadrà.

Giustizia, non vendetta

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  • [Adolf Eichmann] Era in fin dei conti una persona borghesissima, normalissima, si potrebbe quasi dire socialmente integrata. Che avesse sulla coscienza la morte di sei milioni di ebrei, non era una conseguenza di un suo carattere criminale, bensì tutto all'opposto della sua disposizione a confluire e come a dissolversi in un compito comune, ottemperandovi con tutto il suo talento e tutta la sua diligenza: avrebbe potuto far gasare anche sei milioni di zingari, se ce ne fossero stati tanti. O sei milioni di mancini. E se Hitler gli avesse ordinato, anziché di ammazzarli, di imbarcare gli ebrei per la Palestina affinché vi sorgesse uno Stato ebraico, lui lo avrebbe fatto, avrebbe fatto anche questo. A muoverlo non era la sete di sangue. (cap. VIII, p. 91)
  • La caratteristica dell'assassino individuale è il pervertimento della sua vita affettiva. La caratteristica di Eichmann consisteva nell'aver egli una vita affettiva integra in tutto ciò che riguardava la sua sfera personale, e in una totale assenza di sentimenti non appena si trattasse del suo «compito». (cap. VIII, p. 92)
  • Allorché Mengele uccideva di persona, lo faceva «da medico», avvalendosi di siringhe sterili e lucidissime, con le quali iniettava ai suoi pazienti, per interessi scientifici, acido fenico, benzina o aria. C'è anche una descrizione secondo cui egli avrebbe pugnalato personalmente un bambino con la baionetta, ma sarei indotto a credere in un errore di persona. Con la piega impeccabile ai pantaloni, gli stivali brillanti come specchi e i guanti immacolati, Mengele non mi sembra il tipo da sporcarsi le mani di sangue: lui «iniettava», prescriveva, selezionava per la morte – ma non certo si abbassava alla volgarissima routine dell'ammazzamento. Lui preferiva la posa del signore assoluto della vita e della morte, che alla famigerata ribalta di Auschwitz si ergeva con il pollice verso. (cap. XII, p. 141)
  • [...] Adelaïde Hautval era giunta ad Auschwitz per favoreggiamento di ebrei ed era stata assegnata a quel blocco 10 dove il ginecologo dottor Clauberg, un nano gibboso, compiva i suoi esperimenti di sterilizzazione. La Hautval si rifiutò – in piena Auschwitz e di fronte a un medico SS – di eseguire operazioni del genere. Lo sbalordimento fu tale, che si mandò a chiamare il medico della guarnigione dottor Wirtz, il quale si mise a sua volta a fissare la dottoressa Hautval esterrefatto.
    «Che significa che Lei non vuole operare gente sana?» domando alla Hautval. «Non sa forse che tra gli uomini esistono delle differenze? E che queste qui che lei deve operare sono delle ebree?»
    La Hautval lo guardò dall'alto in basso e rispose perfettamente calma: «Certo, lo so anch'io che ci sono delle differenze tra gli uomini. Per esempio quella che passa tra lei e me».
    Wirtz si fece bianco come un lenzuolo e uscì in furia dalla stanza, sbattendo la porta.
    La Hautval fu condannata a morte. Qualcuno cancellò il suo numero dalla lista dei condannarti a morte, ed ella nel caos generale riuscì a sopravvivere. (cap. XV, p. 167)
  • Il marito di Hermine Braunsteiner, un operaio edile il cui nome proprio era Russell, difese sua moglie con esuberanza americana «È la donna migliore che ci sia sulla terra, non potrebbe fare del male a una mosca!» E del resto non ne sapeva nulla (o dava comunque a intendere di non saperne nulla), non sapeva che sua moglie dopo la guerra era stata condannata a tre anni di carcere. La sua attività nei lager di Majanadek e di Ravensbrück[1] gli era, disse, ignota, lei gli aveva detto di essere stata durante l'epoca nazista sorvegliante in un istituto di pena. Che sua moglie avesse commesso un delitto, era per lui inconcepibile. (cap. XVIII, p. 192)
  • La signora Ryan [nome coniugale della Braunsteiner] veniva descritta come particolarmente gentile, una bravissima moglie, pronta anche a dare il suo sostegno e aiuto a chiunque altro, se avesse avuto bisogno di qualunque cosa. Quando era arrivata nel quartiere [di Queens a New York], si era presentata a tutti i vicini e non aveva mai interrotto questo contatto. La donna che per i superstiti di Majdanek era una belva, per le casalinghe della Settantaduesima era «una delle donne più gentili che conosciamo». (cap. XVIII, p. 192)
  • Hermine Braunsteiner non apparteneva certamente al novero di queste colpevoli mediocri e ottuse. In base a tutto quello che di lei si sa dal lager, apparteneva a quel dieci per cento di sadiche assai prossime alla patologia. Neppure a Majdanek era normale sparare in faccia a un bambino piccolo che scappava. Nella psiche di Hermine Braunsteiner deve esserci stato sempre un massiccio impulso aggressivo, che col suo ritorno a condizioni ordinate di vita non poteva essere semplicemente sparito. O forse sì? È pensabile che una persona in una certa fase della sua vita così compiutamente e sino in fondo viva il suo sadismo accumulato, da essere, poi, capace di un comportamento particolarmente esente da aggressività, mite, cortese? O, all'inverso, è pensabile che l'aggressività, che nelle situazioni perverse del campo di concentramento si manifestava come sadismo, si presenti come cordiale propensione verso il prossimo non appena l'interessato si trovi a vivere in condizioni umane? O c'è forse qualcosa di simile a una normale schizofrenia: che cioè una persona alberghi nel proprio petto, l'uno accanto all'altro, entrambi gli aspetti, quello sadico-maligno e quello soccorrevole-buono, senza che essi si sovrappongano nemmeno in un punto? Che consista per così dire di due persone del tutto diverse, l'una delle quali può calpestare con lo stivale la faccia di una ragazza, mentre l'altra spedisce dolciumi alla bimba della vicina? (cap. XVIII, pp. 193-194)
  • Le dittature sembrano produrre in ogni epoca la stessa gente, gli stessi delatori, gli stessi fiancheggiatori e complici, gli stessi sadici.
    Persino la struttura della gerarchia dei lager era la stessa: anche nei gulag il corpo di guardia utilizzava i criminali per angariare i detenuti politici.
    C'è un'unica differenza tra i gulag e i campi nazisti che va rilevata: nei gulag la gente non veniva sistematicamente uccisa a causa dell'appartenenza a una determinata razza.
    Era invece l'appartenenza a una determinata classe a costituire qualcosa di simile a una condanna a morte. (cap. XXIV, p. 253)
  • Tra i criminali del Terzo Reich ancora in vita, Alois Brunner è senza dubbio il peggiore. Ai miei occhi uno dei peggiori in generale. Se Adolf Eichmann ha progettato il piano generale per lo sterminio degli ebrei, a tradurlo in pratica è stato Alois Brunner. Eichmann chiedeva che gli ebrei fossero presi, radunati e deportati – Brunner li prendeva, li radunava e li deportava. L'esempio migliore per far comprendere l'importanza del suo ruolo è quello del Sud della Francia. Anche in quella regione vigeva l'ordine di renderla judenrein, sgombra cioè da ebrei, se non che la popolazione francese, in intesa con le autorità di occupazione italiane, ne boicottava l'esecuzione: le deportazioni avvenivano solo sulla carta. Sinché arrivò Brunner a far marciare i treni. (cap. XXX, p. 293)
  • Si potrebbe dire che Eichmann sia stato la mente e Brunner il braccio, ma ciò sminuirebbe il ruolo di Brunner: si trattava di un braccio dotato di cervello. Il suo contributo, a dir così, più rilevante fu l'invenzione del collaborazionismo ebraico. Inducendo, ora con minacce, ora con promesse, dei membri della comunità ebraica ad aiutarlo a catturare, radunare e deportare i loro correligionari, egli accelerò le deportazioni in una misura che suscitò l'ammirazione dello stesso Adolf Eichmann. (cap. XXX, p. 293)
  • È impossibile dire chi fra Eichmann e Brunner sia stato il più micidiale. Essi costituiscono le due metà paritetiche di una stella doppia della morte. Ma Adolf Eichmann fu perseguitato, braccato per mezzo mondo e alla fine impiccato. Alois Brunner vive indisturbato in una villa a Damasco. Il suo indirizzo è noto a tutti, si sa in che modo egli fa arrivare i soldi alla famiglia, e di quando in quando rilascia un'intervista a un grande rotocalco, nella quale si rammarica di non essere riuscito a ripulire completamente il pianeta dagli ebrei. (cap. XXX, p. 293)
  • Alois Brunner, classe 1912, non era, al pari di Eichmann, precisamente una SS da manuale. In ogni caso non aveva l'aspetto di quegli esemplari che i nazisti inviavano nei bordelli «Fonti-di-vita», per la produzione della razza pura, bella, bionda e dagli occhi azzurri. Era di statura media, scuro di capelli, aveva il naso lievemente arcuato e un aspetto come se nel suo albero genealogico si fossero mischiate linfe di ebrei e di zingari. Da un suo camerata, Dieter Wisliceny, sappiamo che queste fattezze gli avevano meritato un nomignolo: i camerati delle SS che gli erano ostili lo chiamavano «Süss l'Ebreo». (cap. XXX, p. 298)
  1. Campi di concentramento nazisti in Polonia (Majanadek) e in Germania.

Bibliografia

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  • Simon Wiesenthal, Giustizia, non vendetta (Justice n'est pas vengeance), tradotto dal tedesco da Carla Mainoldi, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1989.

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