Hélène Carrère d'Encausse

storica e politica francese (1929-2023)

Hélène Carrère d'Encausse, nata Hélène Zourabichvili, (1929 – 2023), storica francese.

Hélène Carrère d’Encausse nel 2013

Come si diventa l'«eroe della rivoluzione»? E soprattutto della «rivoluzione proletaria», della «rivolta dei pezzenti»? Occorre forse essere stato uno di loro? Avere fatto personalmente l'esperienza dell'infelicità e della miseria? Fu così che una volta conquistato il potere, il monumento all'eroe della rivoluzione cominciò ad essere costruito. Gli anni di formazione furono descritti con tale dovizia di particolari che rivelano come quell'educazione non poteva aver avuto altro «scopo» che quello di forgiare l'eroe. Il destino di Vladimir Ulianov, secondo la sua leggenda, era di diventare Lenin e di fondare un mondo nuovo.

Citazioni

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  • Cattolici e luterani erano ridotti a un'esistenza semilegale; il giudaismo era sinonimo di esclusione sociale, e gli ebrei erano invitati a farsi battezzare se volevano diventare pienamente cittadini dell'impero. Solamente l'Islam, religione dei popoli conquistati del sud dell'impero, era pacificamente accettato. Gli abitanti di quelle regioni erano del resto sottoposti a un particolare regime: esentati dagli obblighi militari e autorizzati ad aprire scuole e a disporre di luoghi di culto. (cap. II, p. 43)
  • E venne il tempo dei nichilisti: Pisarev; Dobroljubov e soprattutto Cernyševskij, la cui influenza su Lenin sarà grande. Questo movimento, senza equivalenti altrove, era caratteristico dello spirito dell'intelligencija russa: radicale, intollerante, non portata al dibattito, ma alla negazione di ogni idea che non fosse la propria. (cap. II, p. 48)
  • [Pëtr Nikitič Tkačëv] Come i populisti, egli considerava che la fortuna storica del suo paese consistesse nell'assenza di una borghesia. Ma diversamente da loro, non credeva troppo nelle virtù specifiche del popolo. Una rivoluzione non poteva certamente farsi senza quest'ultimo, ma il popolo doveva essere inquadrato, diretto, guidato, e non affidato a una saggezza storica inesistente. (cap. III, p. 51)
  • [Julij Martov] [...] egli si impose all'attenzione di tutti a dispetto del suo fisico poco attraente. Abbastanza brutto, curvo, trascurato, dava anche l'impressione di essere un po' deforme, e tuttavia, appena si incontrava il suo sguardo, sfavillante di intelligenza dietro gli occhiali spessi, il fisico veniva dimenticato e non traspariva che l'uomo brillante, infinitamente colto e dialetticamente brillante. (cap. III, p. 62)
  • Importatore in Russia dell'«economismo», Kremer era stato anche il fondatore del Bund cioè della prima organizzazione operaia dell'impero. Fino ad allora, tutto si era giocato nel cuore della Russia, ma furono polacchi ed ebrei a imprimere un'accelerazione al movimento politico organizzato. (cap. III, p. 66)
  • Più complessa fu la genesi del Bund. Questo movimento socialista ebraico era stato creato nel 1897 su impulso di Martov e Kremer con il nome di «Unione generale degli operai ebrei di Lituania, Polonia e Russia». È facile capire cosa avesse indotto Martov, Kremer e i loro amici a mettere in piedi una tale unione. Nella Russia agitata della fine del XIX secolo, la sorte degli ebrei era particolarmente difficile. Messa di fronte alle persecuzioni e agli obblighi di residenza, la loro comunità si era divisa. Alcuni sognavano un ritorno in Palestina: il sionismo faceva numerosi proseliti. Ma, opponendosi ai sionisti, i partigiani dell'integrazione erano invece favorevoli al socialismo, che, fondato sulla solidarietà della classe operaia, era la risposta sicura all'ostracismo del quale erano vittime e per sostenere la loro causa si appoggiavano alle particolarità sociali della comunità ebraica. (cap. III, p. 66)
  • Erano queste le caratteristiche invocate dai partigiani dell'integrazione. I responsabili del movimento operaio lavoravano quindi all'avvicinamento tra operai ebrei e non ebrei, assicurando che quello che li accomunava (la loro condizione) era più importante di quello che li divideva (l'ebraismo). Senza dubbio, nei gruppi operai ebraici ci si esprimeva soprattutto in yiddish, ma per il semplice motivo che quello era il modo più facile di comunicare. Tuttavia, il primo intellettuale ebreo a constatare le difficoltà di un progetto di assimilazione fu proprio Martov. Indirizzandosi il 1º maggio 1894 agli operai di Vilno, egli affermò che gli interessi degli operai russi ed ebrei non erano sempre concordanti. Certamente, essi dovevano lottare insieme, ma gli ebrei non potevano fidarsi completamente dei russi. Occorreva dunque, concluse Martov, formare delle organizzazioni separate. Opinione destinata ad avere un seguito in un'epoca in cui un terrificante antisemitismo era diventato prassi quotidiana.
    Fu contro questa visione specifica di un movimento operaio ebraico che il Bund venne invece fondato. Senza dubbio, al momento della sua costituzione, era un'organizzazione della classe operaia ebraica, ma, nello spirito di Martov si trattava di un temporaneo sacrificio alle condizioni specifiche della Russia; il fine ultimo era sempre l'internazionalizzazione della classe operaia che bisognava preparare. (cap. III, p. 67)
  • [...] l'isolamento di Lenin [durante una lunga vacanza sulle montagne svizzere nel 1904] si attenuò e altri simpatizzanti si raccolsero intorno a lui. Fu dapprima il caso di un giovane medico, suo coetaneo, Aleksandr Malinovskij. Avvicinatosi molto presto al movimento rivoluzionario, era conosciuto con lo pseudonimo di Bogdanov. I suoi lavori teorici (aveva polemizzato con Berdijaijaev) e filosofici gli avevano assicurato grande notorietà, oltre che rapporti, con gli scrittori russi più in vista. Dopo l'adesione al bolscevismo nel 1903, Bogdanov si recò nella primavera successiva da Lenin, molto contento di questa visita che gli assicurava un appoggio qualificato. Bogdanov attirerà verso Lenin altri amici come il cognato, Lunačarskij, ma anche mezzi finanziari e l'accesso agli ambienti intellettuali russi, con cui è in contatto. Bogdanov prese anche parte alla lunga vacanza nel corso della quale Lenin recuperò l'equilibrio nervoso e il gusto della lotta. (cap. IV, p. 93)
  • [...] Anatolij Vasil'evič Lunačarskij, spirito brillante, perfetta inclinazione dell'élite intellettuale russa. Filosofo di formazione, poliglotta, di rimarchevole erudizione in vari ambiti, era entrato molto presto in contatto con il movimento marxista. [...]. Ma più che un politico, Lunačarskij era un intellettuale di grande talento, anche se debole di carattere e molto instabile. (cap. IV, p. 93)
  • Le attività del prete Gapon, che guiderà la manifestazione nella «domenica di sangue», non avevano preoccupato [...] troppo le autorità, che vedevano in lui un uomo al loro servizio. Ma Gapon non era Zubatov[1], non era un corrotto ed era anzi convinto di essere stato investito dalla missione divina di riconciliare lo zar col suo popolo. (cap. V, p. 102)
  • Per il fatto di essere pacifica e disarmata, e convinta che il proprio progetto fosse stato accolto, la folla non tenne conto degli avvertimenti, né dell'ordine di disperdersi che le era stato intimato. Proprio per il fatto che le autorità non avevano ascoltato e compreso i dimostranti, le truppe che li fronteggiavano fecero fuoco e, spaventate dai manifestanti, che non lo erano di meno, provocarono uno spaventoso massacro. La domenica della marcia pacifica del popolo verso il suo sovrano si trasformò nel giro di qualche ora nella «domenica di sangue», la domenica della rottura tra il popolo e lo zar. Gapon la riassumerà in questo tragico motto: «Non ci sono più né Dio né zar». (cap. V, p. 104)
  • Il bilancio della «domenica di sangue» fu molto pesante. In termini di perdite umane, si contarono centinaia fra morti e feriti. Ma al di là della tragedia delle vittime, fu il bilancio politico a essere disastroso. L'autocrazia era per sempre condannata agli occhi di un popolo che l'aveva sopportata così a lungo. (cap. V, p. 104)
  • L'incomprensione tra il popolo ed il suo sovrano, già grande, si inasprì ulteriormente. Per Nicola II il bagno di sangue del 9 gennaio[2] aveva mostrato la debolezza del potere; lo zar ne concluse la necessità di un giro di vite per ristabilire l'ordine. Per il popolo, la sola risposta al massacro, il solo modo per manifestare la solidarietà con i morti, consisteva invece nel proseguimento della lotta. [...]. Il terrorismo, che pareva scomparso, riapparve in modo eclatante. Il 4 febbraio 1905, il granduca Sergio, zio dell'imperatore e governatore di Mosca, cadde sotto i colpi dello studente Ivan Kaljaev, discepolo dei socialrivoluzionari. Gli studenti erano del resto entrati nel movimento, disertando i corsi, organizzando manifestazioni nelle università, e unendosi ovunque agli operai (cap. V, p. 104)
  • Ma, in quell'agitato mese di maggio, si verificò un altro avvenimento destinato a imporsi all'attenzione dei socialdemocratici di ogni tendenza. A Ivanovo-Voznessensk, centro dell'industria tessile, gli operai in sciopero elessero un soviet che avrebbe continuato le sue attività per due mesi. Un'innovazione politica di rilievo! Poco dopo, l'ammutinamento della corazzata Potëmkin nel porto di Odessa testimoniò che da un capo all'altro dell'impero, negli ambienti sociali più diversi e nei modi più disparati, la protesta sociale si andava estendendo. (cap. V, p. 105)
  • Ora fu proprio questa «volgare rapina» a caratterizzare la pratica bolscevica degli espropri, provocando l'indignazione del movimento socialista internazionale (cap. VI, p. 133)
  • I socialdemocratici avevano in effetti potuto constatare che gruppi armati si abbandonavano, per conto del Partito, a un banditismo sfrenato che associava alle organizzazioni combattenti criminali incontrollabili. La reputazione della socialdemocrazia russa patì, in quest'epoca, della confusione fra ciò che Lenin stimava necessario per il reperimento dei mezzi finanziari e la pura e semplice criminalità. (cap. VI, p. 133)
  • Il 4 aprile una riunione di socialisti di tutte le tendenze tenutasi al palazzo di Tauride ebbe come scopo quello di proclamare l'unità. Lenin si oppose al progetto con una estrema violenza: lesse ai socialisti un testo scritto di suo pugno che era un programma completo per il passaggio a una fase successiva della rivoluzione e, fatto ancora più grave, annunciò che il suo piano avrebbe avuto immediata applicazione. Gli elementi principali erano i seguenti: fine immediata di ogni sforzo bellico; fine del sostengo al governo provvisorio e trasferimento di tutti i poteri ai soviet; soppressione dell'esercito regolare, sostituito da milizie popolari; confisca delle proprietà fondiarie e nazionalizzazione delle terre; controllo della produzione e della distribuzione, tramite i soviet. (cap. VIII, p. 193)
  • Il suo discorso [di Trockij] scatenò un baccano indescrivibile di ingiurie, di riferimenti al tradimento di Lenin e al famoso «vagone piombato», di minacce; Trockij fu trattato da «canaglia» e i bolscevichi abbandonarono allora, e per sempre, il Parlamento provvisorio, dimostrando così agli altri socialisti che rompevano con le istituzioni esistenti e con loro. (cap. IX, p. 220)
  • Il 12 dicembre Lenin prese direttamente posizione pubblicando le sue Tesi sull'Assemblea costituente sulla Pravda. L'idea da lui esposta era priva di sfumature: l'Assemblea non aveva ragione di esistere nella misura in cui lo stadio parlamentare era già stato superato. La società, affermò, è perfettamente d'accordo col potere, mentre la Costituente in cui sono stati eletti partiti borghesi esprime uno stadio differente della coscienza sociale. Ora, la Russia rivoluzionaria non poteva tornare indietro; accettare l'Assemblea costituente, emanazione di una coscienza sociale prerivoluzionaria, avrebbe costituito un passo indietro rispetto alla Storia. (cap. X, p. 265)
  • Alle quattro del mattino, allo stremo delle forze, i deputati interruppero la sessione decidendo di riunirsi di nuovo alcune ore dopo. Quando però ritornarono al Palazzo di Tauride, i soldati vietarono loro l'ingresso. Affisso sul portone, i deputati poterono leggere il decreto del governo, approvato dal Comitato esecutivo centrale, che scioglieva l'Assemblea. Il decreto fu pubblicato sulla Pravda, mentre i giornali che riportavano i dibattiti della Costituente furono subito intercettati e distrutti. Lenin aveva vinto. (cap. X, p. 269)
  • La morte della Costituente fu accompagnata da violenze a Pietrogrado. Marinai bolscevichi assassinarono due deputati liberali, Singarev e Kokoškin, episodio che provocò la reazione divertita di Lenin, nel momento stesso in cui apprese che i suoi avversari denunciavano simili eccessi: «Che gridino pure, è tutto quello che sanno fare!». E, a Trockij, fece questo commento sulla situazione: «La dissoluzione della Costituente da parte del governo dei soviet significa la liquidazione dell'idea di democrazia a beneficio della dittatura». Ma, di fronte ai cinici propositi di Lenin, alcuni suoi colleghi ribatterono con un'altra definizione delle sue scelte: «Non è la guerra civile che avete instaurato, ma la guerra contro i socialrivoluzionari».
    Il successo della strategia di Lenin fu sancito nel corso dei giorni seguenti, quando il III Congresso dei soviet si riunì nel medesimo luogo in cui aveva seduto la Costituente: il Palazzo di Tauride. (cap. X, p. 270)
  • Ma già andava delineandosi uno strumento decisivo del nuovo potere, quello che in Stato e rivoluzione Lenin attribuiva generosamente alla società: il potere di repressione. La sua nascita fu simultanea a quella del potere rivoluzionario, e sarà molto presto giustificato da Lenin come necessario alla pratica rivoluzionari del terrore. Un amico di Lenin, Adorackij, riporta che nel 1906 quando gli capitò di interrogare Lenin sulla sorte dei vinti dopo la conquista del potere, questi gli rispose: «Chiederemo loro se sono a favore o contro la rivoluzione. Se sono a favore, li faremo lavorare per noi». E citava volentieri Marx, per il quale «il terrore rivoluzionario era indispensabile alla nascita del nuovo ordine». Niente di sorprendente dunque, se in seno al Comitato militare rivoluzionario nacque una «commissione militare d'inchiesta» di cinque membri, della quale c'è una prima menzione il 1º novembre, e che si segnalò immediatamente per i suoi eccessi. Ma Lenin trovò quest'organo incongruente e inefficace ed esitò fra più formule, creando a partire dal 7 dicembre una «Commissione straordinaria panrussa per lottare contro la controrivoluzione, il sabotaggio e la speculazione», e che entrerà tragicamente nella storia sotto le sue iniziali: Ceka. (cap. XI, p. 283)
  • Ma questa volontà di sterminio si accompagnò anche alla segretezza. Quando Trockij interrogò Sverdlov a proposito delle condizioni nelle quali la decisione era stata presa, questi rispose: «L'abbiamo deciso qui. Il'ic era convinto che non potessimo lasciare ai bianchi un simbolo attorno al quale raccogliersi». Lenin, da parte sua, tentò di far credere a un omicidio solo, quello di Nicola II, presentendo l'orrore che avrebbe suscitato l'assassinio di adolescenti, anche in un'epoca di orrori. Bisognerà attendere il 1919 perché il potere riconoscesse di non aver risparmiato alcun membro della famiglia imperiale. Queste bugie su un assassinio freddamente deciso indicano bene l'atteggiamento dissimulato di Lenin quando si trattava del terrore. La maggior parte delle sue direttive («Uccidete, fucilate, deportate ecc.») furono impartite segretamente. Lenin fu infatti sempre attento a mantenere in ogni circostanza l'immagine pubblica di un uomo attento al prossimo. il mito del «buon Lenin» iniziava a delinearsi. (cap. XI, p. 316)
  • Ma il tempo delle disillusioni arrivò presto. La repubblica bavarese ebbe solo due settimane di vita. La sua fine, avvenuta il primo maggio del 1919, è emblematica dello sconcerto dei proletari tedeschi piegati da una terribile guerra e poco inclini a voler cambiare il mondo. Il mese successivo un colpo di Stato fallito a Vienna testimoniò delle difficoltà dei responsabili comunisti a trascinare gli operai in azioni decisive. In agosto la repubblica dei Consigli di Bela Kun non riuscì a sopravvivere ai colpi congiunti delle truppe rumene, sostenute dall'Intesa, e dell'opposizione interna. Nel giro di cinque mesi, il risveglio rivoluzionario di Ungheria, Baviera, Austria sfociava in disastri che si aggiunsero a quello conosciuto all'inizio dell'anno dal comunismo tedesco. (cap. XII, p. 335)
  • I successi militari russi dell'anno 1920, all'interno e in Polonia, suggerirono infatti al momento della riunione del II Congresso, che la rivoluzione russa fosse non soltanto riuscita, ma che stesse diventando una rivoluzione mondiale. (cap. XII, pp. 346-347)
  • Le truppe del generale Sikorsi fecero decine di migliaia di prigionieri russi, mentre il resto dell'Armata rossa fuggiva in tutte le direzioni. Le truppe polacche, comandate da Budënnyj, dopo la disintegrazione dell'Armata russa, avanzarono verso Mosca. Non restava a Lenin che una via d'uscita: riconoscere il disastro, chiedere la pace e pagare con territori la fine immediata delle ostilità. (cap. XII, p. 347)
  • All'inizio dell'inverno 1922 esistevano ormai soltanto delle Repubbliche sovietizzate. Il loro numero era ridotto (Ucraina, Bielorussia, Transcaucasia) e la loro integrazione una modalità da trovare. Avevano perduto le prerogative dell'indipendenza in tutti i settori; che ragioni avevano di resistere? (cap. XIII, p. 378)
  • Ma già il fuoco rivoluzionario si era esteso a Kronštadt, la base navale orgoglio del regime, in cui i marinai proclamarono la loro solidarietà agli scioperanti, annunciando la liquidazione del soviet della città da parte di un Comitato militare provvisorio, e la futura elezione di un nuovo soviet. «Il soviet senza i comunisti»: questo slogan univa i contadini in rivolta nella regione di Tambov e i marinai del Baltico. La Comune rivoluzionaria istituita dai marinai, che durerà sedici giorni, prese le mosse dall'agitazione operaia e propose un programma che prendeva in contropiede il sistema politico in vigore dal 1918: dissoluzione dei soviet e libere elezioni a scrutinio segreto per sostituirli; libertà di stampa e di riunione per i socialisti, gli anarchici e i sindacalisti; libertà per i contadini di poter disporre dei raccolti; soppressione dei distaccamenti incaricati delle requisizioni in campagna; libertà di lavoro per gli artigiani che non impiegavano lavoratori salariati.
    Senza dubbio, Lenin lo dirà, Kronštadt non era tutta la Russia; ma la sua «Comune» era un simbolo inquietante: quello del rifiuto del potere comunista da parte di coloro che ne erano stati i migliori difensori, ed era anche testimonianza del legame esistente fra tutte le rivolte: i contadini di Tambov, l'Ucraina raccolta intorno a Machno, l'insieme della campagna russa. (cap. XIV, p. 393)
  • Ritroviamo qui il singolare modo di procedere di Lenin che consisteva nell'eliminare non i suoi avversari ma le loro idee, lasciando ai perdenti la possibilità di restare negli organi dirigenti, e evitando così di irrigidirli nella loro opposizione. (cap. XIV, p. 402)
  • Partendo dalla convinzione (mai confermata) che il clero avesse elaborato un piano che approfittasse delle confische di oggetti sacri per dichiarare guerra al potere dei soviet, Lenin scrisse: «Per noi, questo momento è quello in cui abbiamo il 99% delle possibilità di riuscire a distruggere il nemico [la Chiesa][3] e assicurarci una posizione indispensabile per i decenni a venire. È precisamente ora e solamente ora, mentre nelle regioni affamate le popolazioni si nutrono di carne umana e centinaia se non migliaia di cadaveri marciscono sulle strade, che noi possiamo (e dobbiamo) realizzare la confisca dei tesori della Chiesa con l'energia più selvaggia e impietosa. Noi dobbiamo, come che sia, confiscare i beni della Chiesa il più rapidamente possibile e in modo decisivo per assicurarci un fondo di centinaia di milioni di rubli. Senza questo fondo, nessun lavoro governativo in generale, nessuno sforzo economico in particolare, nessuna difesa delle nostre posizioni alla conferenza di Genova sono concepibili». E, per riuscirvi, Lenin ordinò nella stessa lettera delle confische brutali e implacabili «senza fermarsi davanti a niente», e «l'esecuzione del più gran numero possibile di componenti del clero reazionario [...][4]. Più grande sarà il numero delle esecuzioni, meglio sarà» (cap. XIV, pp. 408-409)
  • Per Lenin il progresso umano consisteva nel sottrarre la società (o gli individui) alla coscienza spontanea per indirizzarli progressivamente verso l'autentica coscienza. (cap. XIV, p. 416)
  • Senza dubbio, Lenin desiderava come tutti gli utopisti il bene dell'umanità, ma come tutti gli utopisti trascurava l'essere umano a beneficio dell'entità astratta. (cap. XV, p. 438)

Lenin fu così insieme un prodigioso tattico e un genio politico, inventore dei mezzi per trasformare un'utopia in uno Stato con pretese universali. Se avesse fallito nella sua impresa, se avesse finito i suoi giorni in esilio errando da una capitale europea all'altra, probabilmente figurerebbe nei libri di storia come un personaggio secondario del marxismo. Ma egli riuscì a trasformare il suo sogno in realtà, successo che non giustifica assolutamente le tragedie inerenti all'avventura leninista, e quindi occupa nella storia di questo secolo un posto di eccezione. Il più importante probabilmente per l'influenza esercitata. Si è allora tentati di concludere dicendo che, teorico mediocre, Lenin fu tuttavia un «inventore» politico eccezionale, l'unico del secolo in cui tutti i dittatori hanno seguito strade già percorse senza lasciare altra traccia della loro azione che la terra smossa delle tombe.

  1. Sergej Vasil'evič Zubatov (1864-1917), poliziotto e agente provocatore russo.
  2. Riferimento alla "domenica di sangue" che, secondo il calendario giuliano, avvenne il 9 gennaio 1905.
  3. Chiosa dell'Autore.
  4. Omissione dell'Autore.

Bibliografia

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  • Hélène Carrère d'Encausse, Lenin L'uomo che ha cambiato la storia del '900 (tit. orig. Lénine), traduzione di Alberto Di Bello, edizione speciale per la Repubblica, Gruppo Editoriale L'Espresso, Roma, 2006.

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