Giuseppe Vigoni

esploratore e geografo italiano

Giuseppe Vigoni (1846 – 1914), esploratore, geografo e politico italiano.

Giuseppe Vigoni

Abissinia, giornale di un viaggio modifica

  • Massaua è l'antica Sebastrium-os, e fu molto fiorente, concorrendovi i prodotti dell'India e dell'Etiopia che qui si riunivano per scambiarsi, e per riprendere poi vie diverse.
    Ora non conta più di 6000 abitanti, e vi si fa poco commercio, che l'Etiopia è ben lunghi dall'essere quella d'una volta; d'altra parte il Governo egiziano cerca con ogni modo di impedire lo sviluppo dell'interno, essendo geloso e nemico dell'Abissinia. Si importa qualche poco di tessuti, filati, commestibili, e si esportano pelli, cera, avorio, zibetto, poco grano, burro, madreperla, gomma, caffè, prodotti tutti che provengono con carovane dall'altopiano etiopico, e bene spesso molto dall'interno. (p. 24)
  • [Sulla iena] Non è molto a temere questo schifoso animale che difficilmente attacca l'uomo, perché lo teme, e piuttosto si avventa agli animali od ai bambini, sempre ai cadaveri; è tanto ributtante che appena morto è carogna e tutta la sua vigliaccheria genera ribrezzo. Nessuno osa mangiare le sue carni e nemmeno far uso della sua pelle. (p. 34)
  • Il soldato abissinese ha un modo curiosissimo di battersi: al momento della mischia si sbarazza generalmente di tutto quanto porta con sè, spesso anche del fucile, preferendo l'arma bianca: colla spada al fianco, una o due lance nella destra e lo scudo nella sinistra, difendendosi con questo, quasi strisciando e passando da una pietra all'altra, da un albero all'altro, facendo difesa al proprio corpo di tutto quanto incontra, si porta fino a venti o venticinque metri dal nemico. Coglie allora il momento opportuno, si alza, getta con tutta forza le proprie lance, che in questo è maestro, e approfittando del momento di confusione che questo nuvolo di lance produce nelle file ordinate del nemico, in due salti gli è addosso e colla sciabola lo assale a grandi fendenti. (p. 80)
  • Speravamo di migliorare la nostra prima impressione su Adua, ma anche visitata per bene e con tutto il buon volere immaginabile, bisogna pur confessare che è un vero squallore. (p. 95)
  • Le vie di Adua sono né più né meno di letti da torrente, senza la risorsa dell'acqua che si incaricherebbe di un pochino di pulizia: larghe in media poco più, e qualche volta meno di un metro, e tutte fiancheggiate da mura o da steccati alti da due a tre. (p. 96)
  • La fauna non è ricca [in Adua] e poco c'è a divertirsi colla caccia: solo abbondano le jene che tutte le notti danno veri concerti coi loro urli attorno alle abitazioni. (p. 111)
  • Teodoro, il vero tipo dell'avventuriero, pieno di ardire, di energia e dotato anche di un certo grado di intelligenza, entrò presto nelle simpatie di un popolo, che facilmente si esalta per chi mantiene la guerra e sa condurlo vittorioso alla pugna. Unite le diverse provincie del suo regno e ottenuta la pace, pensò allo sviluppo materiale e morale dei sudditi ed invitò a stabilirsi presso di lui alcuni Europei che conoscessero diverse arti e specialmente quella di fabbricar cannoni e polvere.
    Le idee erano buone ed apprezzabili in un individuo che non era mai uscito dai confini di un paese poco meno che selvaggio, ma la gloria e l'avidità della supremazia gli scaldarono presto il cervello, la sua natura rozza e l'indole in fondo forse cattiva, trovando nella sua posizione mezzo a sfogarsi, non conobbero più freno. Si diede all'ubriachezza, commise nefandità che destano ribrezzo al rammentarle. L'uccidere il prossimo era per lui la cosa più semplice, e credeva quasi averne il diritto e farsene merito. Per punire piccole mancanza od anche solo per il capriccio di un momento faceva metter fuoco ad un intero villaggio obbligando gli abitanti a starsene chiusi nelle rispettive capanne. (pp. 122-123)
  • Sono tante e tali le nefandità da lui commesse, che per concepirle in un essere umano e per scusare lui, non si può pensare altro che alla pazzia che lo avesse colpito. (p. 123)
  • Io ritengo il carattere abissinese incapace di adattarsi a qualsiasi civiltà, e lo vedemmo infatti dimenticare tutta l'antica, e restare completamente indifferente alle invasioni portoghesi e al contatto dei tanti viaggiatori europei. È come una pietra che anche lasciata dei secoli in fondo a un lago, non ne assorbirà mai goccia d'acqua. E a conferma di questa mia supposizione ho il fatto che tre Abissinesi che ho consociuti, che vissero per degli anni in Europa o in India, ritornarono in Abissinia per diventarvi più Abissinesi di prima. Niente ispirò loro la civiltà, neppure un poco di attività e di amore alla pulizia, e quasi indifferenti restarono a tutto quello che hanno visto. Strano poi come della civiltà che ebbero, conservarono qualcosa per tradizione nel modo di reggersi, nei sentimenti e in qualche arredo sacro e d'ornamento, nulla affatto di quello che serve alla vita giornaliera. (p. 152)
  • Abbiamo oggi, è vero, l'esempio di un popolo che in pochi anni abbracciò tutto quanto trovò di bene nella civiltà europea, svestendosi, con raro esempio di abnegazione, da tutti i pregiudizii inveterati dalle antiche usanze del sistema fuedale che da secoli lo reggeva. Ma l'Abissinese non farà certo quanto fece il Giapponese, per quanto la tradizione dell'antica civiltà non gli dovrebbe essere che stimolo, mentre nel Giapponese la sostituzione di un'altra alla civiltà propria dovette forse essere se non un inciampo, certo un ritardo al suo progredire. (p. 153)
  • Per carattere l'Abissinese querela facilmente, ma, quantunquè sempre armato, difficilmente viene al punto di far uso serio delle sue armi. Quando uno s'intesta a sostenere un argomento, o lancia un'offesa ad un compagno, la parte avversaria non ricorre a mezzi troppo energici in sua difesa, ma fa un nodo sullo scemma e battendovi un pugno esclama: scommetto tanto che non puoi provarmi la verità di quanto sostieni, Yohannes imut: per la morte di Giovanni. Se l'altro disfa il nodoo, è segno di ritrattazione, se lo lascia è accettata la scommessa, e il patto è sacro. (p. 159)
  • Il gran merito che in generale si fa a re Giovanni è quello della serietà, del non essere crudele, e dell'imparzialità, avendo dato prova che quando un castigo è meritato non usa riguardo né ad amici né a parenti: sono qualità che non dovrebbero essere meriti in nessuno queste, ma fra un popolo come l'abissino, fresco ancora delle memorie di Teodoro e delle più vecchie tradizioni, è permesso che se ne faccia gran conto. (pp. 201-202)
  • Certo non può avere gran istruzione, non conoscendo altre lingue che la sua e non avendo mai messo piede fuori dai confini dei suoi Stati, ma ha un fondo di serietà, di onestà, di delicatezza di sentimenti, una finezza di intuizione, una dose di ingegno naturale, come è raro assai di trovare fra i suoi. V'ha chi nasce col genio della musica, chi con quello delle matematiche, che con quello della letteratura, e Giovanni Kassa, bisogna pur dirlo, nacque col genio d'esser re d'Etiopia, e da piccolo principe seppe infatti diventarlo, sa reggersi bene sul trono ed è certo fra tutti gli Abissinesi quello che più lo merita. (p. 226)
  • Vorrebbe avere un porto sul Mar Rosso per rendere libero il suo commercio di esportazione e di importazione dalle tasse e dagli abusi delle dogane egiziane che proibiscono l'introduzione di quello che agli Abissinesi maggiormente accomoderebbe, le armi e le munizioni, ma non credo vanti, almeno per ora, pretese su Massaua, e si accontenterebbe forse di una baia qualunque che l'Egitto gli cedesse. Ottenuto questo, credo che re Giovanni cercherebbe di favorire la civiltà nel suo paese, facendo però sempre in modo che questa si infiltri poco a poco per non urtare d'un tratto le idee del suo popolo che in complesso non vi è troppo favorevole, perché non crede averne bisogno, e perché istigato dai preti a non lasciarla penetrare. (p. 227)
  • Se metterete l'Abissinese in condizioni da gustare qualche frutto della civilizzazione e da trovarla quasi necessaria alla sua esistenza, e finanziariamente lo porrete in condizione da potersela procurare, forse vi asseconderà; ma se volete imporviglisi o costringerlo al più piccolo sacrificio, resterà sempre qual è, cioè presuntuoso e indifferente alla civilizzazione, e quindi oppositore costante di chi cerca di portarvela. (pp. 228-229)
  • Come vita Massaua ci pare un paradiso dopo l'Abissinia, pure subito si rimpiange la vita delle emozioni, la vita variata della carovana. (p. 238)

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