Gian Piero Brunetta

critico cinematografico italiano (1942-)

Gian Piero Brunetta (1942 – vivente), critico cinematografico e storico italiano.

Citazioni di Gian Piero Brunetta

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  • [Su C'era una volta in America] [...] come in un gioco di scatole cinesi, diventa un sogno di sogni. La vicenda rievocata da Noodles si svolge in una dimensione incerta tra realtà e sogno, la stessa struttura narrativa originaria – in cui si scontrano di continuo diverse dimensioni e percezioni del tempo non autorizza a distinguere se la vicenda è frutto dei fumi dell'oppio o di ricordi reali del protagonista. Anche (e soprattutto) in questo caso la memoria del singolo tende a dissolversi in quella di un intero paese.[1]
  • Due forze eguali e contrarie hanno sempre guidato l'esistenza di Renoir: una di tipo progressista, legata alla sua militanza politica e ai film di maggiore impegno ideologico e sociale, la seconda di tipo regressivo e edipico legata al mondo della sua infanzia, al padre e alla centralità dei sentimenti, dei valori, del rigore professionale, solidarietà, lealtà, onestà, amicizia e amore come donazione di sé.[2]
  • I Discorsi pacelliani [sul film ideale] non si rivolgono solo al cristiano ma anche al laico: Pio XII richiama con forza la centralità del cinema nella formazione dell’individuo. E introduce considerazioni propriamente filmologiche di grande interesse quando, ad esempio, considera gli spettatori non come un corpus indistinto, ma in quanto individui dalle differenti peculiarità.[3]
  • [Su Gene Tierney] Litvak viene sicuramente colpito dal suo tipo di bellezza esotica, del tutto diversa da quella espressa finora dal divismo hollywoodiano. Gene ha ben poco della ragazza "all-american". Gli occhi, gli zigomi del volto, lo sguardo, fanno pensare a un'origine orientale, i movimenti del corpo flessuoso e scattante sembrano quelli di un felino. La sua bellezza, pur così diversa, ti è però subito familiare.[4]
  • Mi considero una sorta di Snoopy che ha avuto l’impressione e la fortuna di aver viaggiato fin dai primi anni settanta in compagnia di Ulisse per cercar di cogliere il canto delle sirene del cinema muto italiano, o andare alla scoperta dei misteri e incantamenti di molte isole della maga Circe e di vere e proprie isole del tesoro, non comprese allora nelle mappe conosciute e nei portolani cinematografici correnti...Faccio parte di una specie privilegiata di persone che ha cercato con spirito pionieristico di dare un suo contributo alla nascita e sviluppo di una nuova disciplina universitaria come la Storia del Cinema. Personalmente mi sono sempre sentito e considerato uno studioso indisciplinato, un viaggiatore nelle immagini onnivoro, che non si è nutre solo di cinema, inquieto e curioso che ama mescolare gli strumenti, contaminare le metodologie, lavorare sia da solo che in gruppo anche a progetti tutt’altro che accademici. Ho usato tutti i mass media disponibili per parlare del cinema italiano, per cercare di raccontarne con orgoglio nazionalistico la sua grandezza all’interno del cinema internazionale (ma non ho cercato di nasconderne crisi e miserie). Ritengo di essere una persona che viene esaltata dalle missioni all’apparenza impossibili, come immaginare e scrivere da solo negli anni settanta una storia del cinema italiano, in assenza di tutto, a partire dai film, dalle opere di riferimento, dalle sovvenzioni, o affrontare negli ultimi dieci anni la grande avventura della circumnavigazione con duecento collaboratori della Storia del cinema mondiale.[5]

Il cinema neorealista italiano

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  • Film ampiamente analizzato, La dolce vita va oggi osservato sia in quanto crea forti spinte nel sistema espressivo, sia perché apre a realtà come quella della psicanalisi, e al tempo stesso registra, con perfetta scelta di tempo, i fasti e la fine di un mondo e di alcuni rituali tipici della società romana di quegli anni.
  • Sul finire del decennio esordisce, con La grande strada azzurra, anche Gillo Pontecorvo, che riprende il soggetto da un romanzo di Franco Solinas, Squarciò. Nonostante il ricordo della Terra trema (la vendita del pesce ai grossisti, la pesca, il discorso di Salvatore, che invita a formare una cooperativa: «con le nostre reti potremo chiudere dieci miglia di mare. E abbiamo braccia forti»), il film mette in funzione una serie di meccanismi narrativi e melodrammatici elementari, senza riuscire a raggiungere quella immediatezza di contatti con l'ambiente e quella forma di rappresentazione tipiche dei film di De Santis. Le preoccupazioni per il montaggio, la prevedibilità dello sviluppo drammatico, soprattutto per quanto riguarda il finale, gli stereotipi sul mondo dei pescatori fanno sì che questo esordio raccolga qualche consenso senza produrre particolari entusiasmi.
  • Grazie a Roma città aperta e più ancora a Paisà, la percezione di una possibile conquista di un'identità nazionale capace di rispettare il pluralismo ideologico e la varietà linguistica è un dato immediato. Il viaggio di risalita morale che si compie in Paisà serve a mostrare progressive riduzioni delle distanze, del riconoscimento dell'altro, inteso anche come persona diversa per lingua, religione, ideologia, nazionalità e, perché no, razza; di comunione, di sacrificio comune e di assoluzione da colpe commesse collettivamente, di purificazione. Rossellini è l'autore più capace di osservare la compresenza di un'anima nazionale ed europea nelle azioni che descrive ed è il primo vero autore in possesso di uno sguardo stereoscopico capace di percepire e rappresentare la realtà, fin dalla fine della guerra, in chiave europea.
  1. Da Cent'anni di cinema italiano, Laterza, Bari, 1991, p. 614.
  2. Da Dizionario dei registi del cinema mondiale, vol. III, Einaudi, 2006, pp. 157-162.
  3. Citato in Federico Pontiggia, Pio XII e il cinema, Cinematografo, 21 ottobre 2005.
  4. Da Addio bellissima Gene, repubblica.it, 8 novembre 1991.
  5. Citato in Armando Adolgiso, Intervista a Giampiero Brunetta.

Bibliografia

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