Gabriele Romagnoli

giornalista e scrittore italiano

Gabriele Romagnoli (1960 – vivente), giornalista e scrittore italiano.

Citazioni di Gabriele Romagnoli modifica

  • Andrea Fortunato era un ragazzo che giocava terzino sinistro. Un ruolo da turbodiesel. Uno che con la maglia numero tre deve andare, palla al piede, dall'altra parte del mondo, superando ogni ostacolo, finché il campo finisce. E a quel punto fa una cosa, non la fa per sé, la fa per un altro e per la squadra: crossa. E se il centravanti ha seguito l'azione e ci mette la testa, allora è gol. Fortunato era uno di quelli che ci arrivava spesso, sulla linea di fondo, con la forza della sua gioventù e la bandiera dei suoi lunghi capelli al vento.[1]
  • Capita di provare una curiosa sensazione all'ingresso sul campo di Jannik Sinner, più che promessa del tennis italiano e mondiale. Si sente nell'aria la sigla di uno spettacolo annunciato, destinato a durare, l'irruzione di un campione che marcherà i capitoli delle vite come un segnalibro: dove eri quando vinse la Next Gen a Milano, cosa facevi quando conquistò quell'altro trofeo e a che punto era la tua esistenza quando infine...[2]
  • Gli chef sono i nuovi creativi italiani. Il cibo è la moda. Eataly vale una griffe. Oldani un designer. Ci crogioliamo in una vellutata e ci scappelliamo davanti alla "mitra" del cuciniere.[3]
  • Nell'abbraccio di Wembley 2021 quel che tutti possono vedere è un uomo arrivato nel nucleo esatto della felicità. Il viaggio è stato lungo, il pedaggio alto, ma la precisione imposta dal destino è stata superiore a quella di qualunque aggiornato navigatore. Bisognava tornare lì, di fianco a fratello per elezione e giocare oltre ogni tempo. Il dettaglio chiave è questo: la finale del 1992 [Barcellona - Sampdoria 1-0] finì ai supplementari, quella del  2021 ai calci di rigore [Inghilterra - Italia]. Come fosse stata una preghiera esaudita: giocare ancora un po' per far succedere quella cosa che mette a posto tutto, prima di andare. Vivere, per dare un senso alla fine, è: riparare un torto, completare un'opera, regalare l'ultimo desiderio. Nella sequenza conclusiva dell'abbraccio, Roberto Mancini ha gli occhi aperti e la testa eretta, Gianluca Vialli ha gli occhi chiusi e gli posa il capo sulla spalla. È bello, ma ancor più è giusto, pensare che, come il Giobbe di Joseph Roth, si stia riposando, "dal peso della felicità e dalla grandezza dei miracoli".[4]
  • New York non contempla il vuoto, è la capitale dello strapieno. Sulla sua carta d'identità la foto è quella di una folla. I canyon delle avenue sono pensati per contenerla, i grattacieli la misura per evitarne la tracimazione.[5]
  • Sì, mi rendo conto: della "prevalenza dello chef", del rispetto per lo "stellato" e del meccanismo inesorabile che sottende alla fortuna della trasmissione televisiva MasterChef. La volta in cui l'ho guardata, sospinto da segnalazioni multiple e variegate, mi sono chiesto: «Perché?». Non: perché ha successo? Quello è semplicissimo: è il primo reality in cui a) devi saper fare qualcosa e non solo esistere di fronte a telecamere; b) devi saper fare qualcosa di utile e ripetibile come cucinare. Chi guarda MasterChef coniuga due verbi decisivi nella comunicazione e nello spettacolo: impara e si diverte.[3]
  • [Sull'equipaggiamento calcistico] [...] una maglia è molto più che una maglia, un colore più che un colore. Si dice, appunto, "attaccamento alla maglia", si parla di "nostri colori". Se cambiano, si aggiunge sconcerto a sconcerto. Le facce, salvo poche eccezioni, non le riconosce più nessuno, resta(va) la maglia, resta(va)no i suoi colori. Segna(va)no un confine, determina(va)no una scelta di campo. [...] Il calcio moderno è imploso, ha subito un big bang che ha cancellato ogni punto di riferimento: la formazione tipo da ricordare a memoria, i capitani bandiera [...]. E non c'è allenatore in Italia che duri quanto un'automobile. Restava la maglia. Poi hanno cominciato a confondere le idee anche con quella. [...] La maglia non è un accessorio della squadra. La maglia è la squadra. L'accessorio è lo sponsor, tecnico o meno. Quello è il portato dei tempi, della fine delle ideologie, delle mezze stagioni e della capacità di distinguere. [...] Ma se i colori diventano intercambiabili quanto le convinzioni, come si sceglie da che parte stare?[6]
  • [Sulla direzione di Rai Sport] [...] un'esperienza. Sono stato due anni e mezzo a Beirut dove ci sono 17 confessioni religiose, faide e bombe che scoppiano qua e là. Posso dire che, pur senza arrivare a quei livelli, in Rai il tasso di conflittualità è altissimo, ma per qualcosa che forse vale un po' meno rispetto al proprio credo religioso. [...] Il problema è che sono troppi giornalisti per uno spazio che si va sempre più restringendo, ogni volta che la Rai perde un diritto, penso al tennis, alla Formula Uno. Un'evoluzione inevitabile: la tv pubblica in Europa ormai non fa più sport, la Rai mantiene la sua pattuglia. Anche con il calcio, è sempre più difficile [...]. Fox Sports ha chiuso, alla Rai i giornalisti restano fermi senza sapere che fare. I Mondiali hanno dato lustro a Mediaset? Se la Rai avesse speso 80 milioni e trasmesso 64 partite, senza l'Italia, sarebbero scattate le interrogazioni parlamentari. La Rai, come fa, sbaglia.[7]

Note modifica

  1. Da Andrea Fortunato ha perso l'ultima partita, La Stampa, 26 aprile 1995, p. 1.
  2. Da Profumo di campione, la Repubblica, 11 novembre 2019, p. 22.
  3. a b Da Professione Chef /1, la Repubblica, 7 febbraio 2013.
  4. Da Mancini e Vialli, l'abbraccio di Wembley è il nucleo della felicità, repubblica.it, 6 gennaio 2023.
  5. Da New York. Le mille luci accese per battere il nulla. È la sua prima guerra, la Repubblica, 22 marzo 2020, p. 21.
  6. Da Così si stinge anche la passione, repubblica.it, 11 luglio 2009.
  7. Da un'intervista all'ANSA; citato in RaiSport, Gabriele Romagnoli lascia: «Qui sembra Beirut», ilmessaggero.it, 29 luglio 2018.

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