Franco Maria Ricci

grafico, editore e designer italiano (1937-2020)

Franco Maria Ricci (1937 – 2020), grafico, editore e designer italiano.

Intervista di Antonio Gnoli, la Repubblica, 9 febbraio 2014.

  • [Dove è nato?] A Parma. Mio padre discendeva da una nobile famiglia genovese. Studiò Legge senza mai giungere alla laurea. Non volle iscriversi al fascio e ciò gli impedì di lavorare. Non ho mai capito se accettò quel disimpiego come una condanna o una benedizione.
  • [E di cosa vivevate?] Di rendita, del ricavato delle terre della nonna. Durante la guerra il babbo fece costruire uno chalet negli Appennini. Fu lì che sfollammo. Avevo quattro anni. Fu un periodo toccato da una sola tragedia. Mio cugino, diventato partigiano, venne ucciso durante un'azione dai tedeschi. Poi la guerra finì e il babbo ogni tanto spariva per andare a Milano. Si pensò a un'amante, scoprimmo che gli era presa la mania di giocare in Borsa. Morì che avevo 14 anni.
  • [In origine è stato geologo?] In origine avrei voluto essere un archeologo. Fu mio zio a dirmi se ero matto. Immaginavo missioni avventurose e grandi civiltà scomparse. Lui mi richiamò alla realtà: guarda, se ti va bene, ti mettono a incollare i cocci.
  • [Perciò che fa?] Mi interesso di geologia. Era un buon compromesso. In fondo, bisognava sempre scavare. Avevo tra l'altro un cugino a capo di una società petrolifera. A un certo punto gli chiesi se poteva suggerirmi qualche prospettiva. Mi spedì in Mesopotamia dove avevano una concessione. Vado nella zona di Diyarbakir, frutto della civiltà ittita e ultimo avamposto dei romani. Ricordo il fiume Tigri. Impressionante. Resistetti sei mesi. Per il caldo dormivo all'aperto, su un lettino da campo. La mattina mi svegliavano le facce dei curdi protese su di me. La bellezza del posto urtava con la fatica dei giorni.
  • [Non resistette?] Perché non fosse proprio una fuga, presi a pretesto qualche episodio di vaiolo che nel frattempo c'era stato. Tornai in Italia, a Parma. Magro, tonico, senza un mestiere. La sola cosa nella quale mi sembrava di eccellere era distinguere il bello dal brutto. Cominciai timidamente con qualche prova grafica. Un bel giorno mi chiesero di disegnare un manifesto per un festival teatrale. Fu notato dal direttore di uno studio americano. Cominciò così la mia fortuna. Mi trasferii a Milano. Erano i primi anni Sessanta. Stavo nel cuore della grafica europea e guadagnavo un sacco di soldi. Poi scoprii Giambattista Bodoni.
  • [Lo stampatore?] Definirlo così è riduttivo. Fu un genio del carattere. Mi invaghii del Manuale tipografico. Cominciai a tormentare gli antiquari per avere i suoi libri. Bellissimi. Unici. Con pazienza misi insieme una collezione ragguardevole di testi. Che fu alla base della mia casa editrice. Era il 1965.
  • [Quando ha conosciuto Borges?] Nei primi anni Settanta. Andai a trovarlo a Buenos Aires grazie all'intercessione di un'amica comune. Arrivai alla Biblioteca nazionale dove era direttore. Vidi un uomo elegante venirmi incontro recitando alcuni versi di Dante. Per lui esisteva solo la letteratura.
  • [E che ruolo svolse nella casa editrice?] Con lui ho fatto 45 libri per "La Biblioteca di Babele". Fu un'avventura memorabile. Sceglieva autori e stili in base ai suoi gusti, a ciò che aveva letto e amato. Credo che ogni cosa del passato fosse per lui la scala infinita su cui salire per guardare oltre. Mi sorpresi – due giorni prima che morisse, in un letto di una clinica di Ginevra –nel sentirmi dire che fama e ricchezza erano state un dono minore della cecità. Lo disse senza imbarazzo. Come la cosa più naturale del mondo. Della costellazione degli scrittori che ho conosciuto e amato è stata la stella più luminosa.

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