Jared Diamond

biologo e fisiologo statunitense
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Jared Mason Diamond (1937 – vivente), biologo, fisiologo e ornitologo statunitense.

Jared Diamond nel 2016

Citazioni di Jared Diamond

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  • La nostra sopravvivenza dipende anche da quella degli altri.[1]

in Ted.com, febbraio 2003

  • Questi collassi rapidi sono più probabili quando avviene un disallinamento tra le risorse disponibili e quelle consumate, o tra l'economia reale e il potenziale economico. In una piastra di Petri i batteri crescono. Diciamo che raddoppiano ogni generazione, e cinque generazioni prima della fine, la scatola è vuota per 15/16, ma poi, alla generazione successiva è vuota per 3/4 e a quella successiva vuota a metà. Da quando la piastra di Petri è piena a metà, basta una sola generazione e si riempie completamente. Il cibo finisce e i batteri collassano. Quindi questo è un tema frequente le società collassano molto presto appena raggiunto il loro apice di potenza.
  • Una buona base per i problemi, che rende il collasso più probabile, si ha quando si genera un conflitto tra gli interessi a breve termine della classe dirigente e quelli a lungo termine della società intera, specialmente se l'élite è capace di proteggere sé stessa dalle conseguenze delle proprie azioni. Quando ciò che è buono nel breve periodo per l'élite è cattivo per l'intera società, c'è un rischio serio che l'élite agisca in modo da condurre la società al crollo nel lungo periodo.
  • È particolarmente difficile per una società prendere buone decisioni quando esiste un conflitto che coinvolge valori fortemente radicati che sono buoni in certe circostanze ma poco validi in altre. Per esempio i Vichinghi della Groenlandia, in condizioni ambientali difficili, rimasero uniti per quattro secoli e mezzo grazie alla loro dedizione religiosa e alla forte coesione sociale. Ma questi due elementi - dedizione religiosa e forte coesione sociale - resero difficile per loro cambiare nelle ultime fasi e imparare dagli Inuit. Oppure, oggi, l'Australia. Quello che ha reso possibile la sopravvivenza dell'Australia in questo remoto avanposto della civiltà europea per 250 anni è stata la loro identità britannica. Ma oggi, il loro attaccamento a questa identità non sta aiutando gli australiani nella loro necessità di adattarsi alla loro situazione in Asia.
  • I grandi problemi che il mondo deve affrontare oggi non sono affatto cose fuori dalla nostra capacità di controllo. La nostra maggiore minaccia non viene da un asteroide che sta per caderci addosso, qualcosa che non ci consente alcun intervento. Invece, tutte le principali minacce che abbiamo davanti sono problemi completamente dipendenti da noi. E siccome li abbiamo creati, possiamo anche risolverli.

Intervista di Maurizio Ricci, Repubblica.it, 14 marzo 2014

  • In Nuova Guinea, come in molte società tradizionali, si vive in comunità in cui tutti conoscono tutti, di solito da quando sono nati e in cui ci si incontrerà di continuo, probabilmente per tutta la vita a venire. Mantenere invidia, rancore, malanimo, in questa situazione, è potenzialmente esplosivo.
  • Noi facciamo amicizia in fretta e poi restiamo amici a lungo, solo per il piacere di vedersi e frequentarsi. In Nuova Guinea, un'amicizia per puro piacere non ha senso. Si è amici solo se c'è un reciproco vantaggio che possiamo scambiarci.
  • Mia moglie è psicologa e mi sono convinto che ci sono corrispondenze fra crisi nazionali e crisi personali

Intervista di Arturo Celletti, Avvenire.it, 13 aprile 2017

  • Ho osservato ogni mossa di Donald Trump. Ogni scelta. Ogni parola. È un leader che non riflette, che non ha cautela, che non ha equilibrio. È un concentrato di narcisismo.
  • Ha sbagliato tutto. Sull'immigrazione, sull'ambiente, sulla cultura, sulle tariffe, sulla Siria... Si è passati di follia in follia. Pensi all'idea di un muro al confine con il Messico. Pensi al pugno di ferro contro gli immigrati. Tutti gli americani, con la sola eccezione dei pellerossa, sono immigrati. Anche Melania Trump è immigrata e con Donald alla Casa Bianca non sarebbe mai arrivata negli Stati Uniti.
  • Ridurre le spese per la ricerca è una terribile assurdità. Moriremo sempre di più per malattie legate agli stili di vita. Il cancro, l'ictus, l'infarto sono emergenze che meritano totale attenzione e invece Trump taglia i fondi dando l'idea di non capire il pericolo. È come un pupazzo che crede che la terra sia piatta. Quanti errori. Quante scelte inspiegabili. Come si possono tagliare i fondi per le scuole pubbliche? Come si può mettere tra parentesi la ricerca climatica? Come si fa a non capire che un Paese esportatore come gli Stati Uniti sarà il primo a soffrire se si imporrà la linea dei dazi? E come si può non valutare con totale attenzione gli effetti di una scelta?
  • Se Trump spingerà un bottone, anche la Cina spingerà un bottone. A una guerra atomica resisteranno gli insetti; ma dei mammiferi non sopravviverà nessuno. Moriranno uomini ed elefanti. Penso spesso a quello che può combinare il presidente americano e confesso di aver paura. Penso che guidare un grande Stato non è esercitarsi su twitter; è qualcosa di enormemente più complesso.
  • [Sull'Italia] È un Paese ricco ma spesso non è stato capace di fare le cose bene. Ha una sanità che funziona meglio che negli Stati Uniti, una aspettativa di vita alta; ma spesso manca di efficacia nelle scelte politiche. Berlusconi? Qualcuno lo paragona a Trump. Ma lui aveva fiuto politico. Non ha fatto gli errori grossolani di Trump. E soprattutto è stato capace di lasciare dimostrando anche generosità.

Intervista di Giancarlo Bosetti, Reset.it, 27 novembre 2019

  • Il Cile mostra proprio un caso di quello che può accadere a un paese che è stato una democrazia per duecento anni e che può precipitare nell’incubo della sua fine in un tempo molto breve. Quello fu un caso di sterminio dell'opposizione, perché non si riuscì a fermare il processo di radicalizzazione del conflitto politico.
  • [Su Donald Trump] Quando leggiamo sui giornali che il presidente di un paese chiede a un paese straniero di investigare sull'ex vicepresidente, ora suo avversario, si tratta di qualcosa di terribile. Accade in regimi ben lontani dalla democrazia che si mettano in carcere gli avversari, non negli Stati Uniti o in Italia.
  • Trump, invece di accettare l'idea che i problemi dell'America sono causati da noi stessi, accusa il Messico, la Cina, il Canada. Così vedo la tendenza tra molti italiani ad attribuire i problemi del paese agli emigranti dall'Africa e dal Medio Oriente, che sono in realtà molto pochi in confronto con altri paesi, o persino all'Unione europea.
  • Non si sente molto in Europa parlare delle ottime cose che l'Europa ha conseguito e si sentono piuttosto i lamenti nei confronti dell'Unione e c'è addirittura chi vuole prendere le distanze dall'Unione europea, che è qualche cosa di unico nella storia del mondo: un gruppo di paesi che settant'anni fa hanno superato ogni precedente nel massacrarsi tra loro e che invece di prepararsi alla Terza guerra mondiale hanno dato un raro esempio di azione preventiva della crisi e già negli anni Cinquanta hanno posto le premesse – leader politici italiani, francesi, tedeschi – della futura Unione. Spero che si lavori adesso per rafforzarla invece che indebolirla. Ed è per me una tragedia quel che accade in Gran Bretagna.
  • Come Trump se la prende col Messico e la Cina così la Gran Bretagna attribuisce agli immigrati e all'Unione Europa i problemi inglese. L'altra metà delle ragioni che portano alla Brexit è che il popolo inglese si dimentica delle cose di cui può essere fiero. Quelli che erano vivi nel 1940 e ricordano la battaglia d'Inghilterra, quando il paese da solo si oppose a Hitler, appartengono a una generazione che sta scomparendo, mentre i giovani non ne sanno nulla. Questo significa perdere una fornte dell’orgoglio e dell'identità nazionale.
  • L'identità nazionale è forte quando ci sono cose nella storia recente di cui un paese possa essere fiero. L'Italia non ne ha come la Finlandia o l'Inghilterra. Gli italiani hanno certamente grandi cose che li uniscono nella storia più lontana: il Rinascimento, l'Impero Romano. E poi sono fieri delle loro glorie calcistiche, della cucina, dello stile e del design, ma hanno qui un punto debole.

Wwf.it, 20 aprile 2020

  • L'epidemia da Coronavirus non si sarebbe mai diffusa se 17 anni fa, dopo la SARS, i cinesi avessero chiuso i mercati di animali selvatici vivi. Le soluzioni migliori sono quelle sociali.
  • Il primo errore è stato quello di non bloccare subito gli incontri tra le persone. Trump ha pensato all'inizio che l'epidemia non fosse così grave, e noi americani non abbiamo da subito attuato un distanziamento fisico. Il secondo errore è continuare a mettere in atto comportamenti che favoriscono la diffusione delle malattie trasmesse dagli animali selvatici all'uomo. Sono stati i mercati aperti in Cina a spianare la strada al virus Covid-19. Questi poi sono stati chiusi, ma resta ancora aperta la strada di trasmissione rappresentata dal commercio di animali per la medicina tradizionale. Se questo traffico rimarrà aperto continuerà la diffusione di malattie dagli animali all'uomo.
  • Sono due le lezioni: una è quella di osservare gli uccelli e non toccarli, so che in Italia avete il grande problema della caccia agli uccelli migratori. Gli uccelli selvatici possono portarci anche malattie, ricordatelo, come è accaduto anni fa con l'influenza aviaria. L'altra è che noi esseri umani, gli animali e le piante siamo tutti sulla stessa barca, la barca del pianeta. Se la barca non sarà sostenibile per le piante e gli animali, non sarà sostenibile per noi umani. O noi tutti sopravviviamo insieme o noi tutti cadiamo nell'abisso insieme. Sta a noi la scelta.

Intervista di Lucia Capuzzi, Avvenire.it, 17 maggio 2020

  • Finora le nazioni sono state incapaci di collaborare di fronte a questioni evidentemente comuni, prima fra tutte il cambiamento climatico e il rapido esaurimento delle risorse naturali. Probabilmente perché i danni del riscaldamento globale e il suo potere letale agiscono in modo relativamente lento e indiretto. Il Covid, al contrario, uccide a viso aperto e con inesorabile rapidità. Il coronavirus ha colpito il mondo intero. E fino a quando non sarà debellato ovunque, nessuna nazione potrà considerarsi al sicuro.
  • Alcune delle più note epidemie del passato sono state selettive. Si accanivano, in particolare, su alcuni settori della popolazione mentre altri risultavano sostanzialmente immuni. Ciò le ha rese armi di conquista o di difesa. Penso, ad esempio, ai virus portati dai conquistatori iberici nelle Americhe che hanno contribuito significativamente allo sterminio dei nativi, favorendo la dominazione del Continente. O, viceversa, alla malaria che, in Africa, a lungo, ha fatto strage delle forze coloniali, risparmiando, invece, gli autoctoni. Ciò spiega perché gli europei siano riusciti a spartirsi il Continente solo nel corso dell'Ottocento, dopo la scoperta del chinino. Il Covid, invece, è davvero globale.
  • Nell'ipotesi peggiore, nel 2021, la seconda o terza ondata epidemica continuerà a seminare morte e i Paesi più virtuosi nel debellarlo verranno reinfettati dagli altri, con meno risorse per gestire l'emergenza sanitaria. In quella migliore, al contrario, la collaborazione internazionale per arrivare al vaccino e a protocolli di cura efficaci avrà reso il virus inoffensivo. E, imparata la lezione, la comunità internazionale starà decidendo di applicarla ad altre questioni, dall’inquinamento alla diseguaglianza, ben più pericolose del Covid per l'equilibrio mondiale.

Intervento per Pianeta 2020, Corriere.it, 24 maggio 2020

  • In un certo modo, il Covid-19 assomiglia alla peste, ma oggi popoli e genti diverse soffrono in maniera diversa non perché hanno geni ed anticorpi diversi, bensì perché hanno diverse condizioni generali di salute e diversi sistemi sanitari.
  • In confronto al cambiamento climatico e a queste altre minacce globali, il Covid-19 non è che un piccolo cruccio passeggero. È vero, può uccidere qualche milione di persone (io ho già perso tre dei miei più cari amici), causando così terribili tragedie personali, ma presto, nel giro di un anno o due, saranno disponibili i vaccini contro questa malattia. A quel punto, il coronavirus diventerà come l'influenza: un ospite indesiderato che ogni anno ritornerà causando anche morti, ma con cui impareremo a convivere. Le nostre economie si riprenderanno presto dal Covid, così come già avvenuto tanto tempo fa con l'influenza. Il cambiamento climatico è un problema ben più grave. Miete già vittime e ne farà sempre di più, in molti modi, perlopiù subdoli.
  • Se siamo così preoccupati per il virus, perché il cambiamento climatico non ci allarma ben di più? Le ragioni sono ovvie. Il Covid è un microbo ben definito, riconoscibile con un microscopio elettronico. Non porta benefici a nessuno. Uccide velocemente, in due settimane, perché per riuscirci non ha bisogno degli anni necessari alla malnutrizione, alle malattie respiratorie o al lento innalzamento del livello del mare. Il coronavirus uccide in modo inequivocabile, senza lasciare dubbi sulla causa della morte. Ti ammali, sviluppi i sintomi ormai ben noti e, dopo poco tempo che il virus è stato rilevato nel tuo sangue, passi a miglior vita. Per i parenti che lasci è lampante che quella morte sia dovuta al Covid-19. È chiaro che ogni individuo, in ogni paese del mondo, è a rischio di contagio. Per contro, sebbene il cambiamento climatico sia un killer molto più spietato, agisce in sordina. Fatta eccezione per le ondate di calore e gli tsunami, il cambiamento climatico miete vittime in modo lento e impercettibile.
  • Nessun inglese negava che le bombe fossero state sganciate dalla Luftwaffe, così come non c'era un finlandese che negasse il pericolo dell'invasione sovietica. Il cambiamento climatico non è invece considerato un nemico comune globale. Fino all'avvento del coronavirus, non è mai accaduto che tutto il mondo si unisse per combattere uno stesso nemico. Non ci siamo mai stretti in un fronte comune contro il cambiamento climatico, né contro l'esaurimento delle risorse o la disuguaglianza. A livello globale non abbiamo mai avuto qualcosa di simile al blitz della Luftwaffe o all'invasione sovietica, fino a questo momento. Il Covid è il primo nemico comune globale riconosciuto e si stanno già muovendo i primi passi verso l'obiettivo di un fronte mondiale unito, sotto forma di collaborazioni tra scienziati internazionali, spedizioni di mascherine in tutto il mondo, con alcuni Paesi che fungono da modelli per altri nella gestione della pandemia.
  • Siamo collegati da voli internazionali, non possiamo affermare che «il Covid è un problema solo per la gente di quella nazione». No, il Covid-19 è un problema che riguarda tutti. Ma il cambiamento climatico è ancora di più un problema che riguarda tutti.
  • Entro il prossimo anno avremo vinto la guerra contro il coronavirus e questo ci servirà da modello. Stimolerà infatti risposte massicce a livello mondiale ad altri problemi globali, e il cambiamento climatico è già sul tavolo di discussione. Il successo ottenuto porterà a nuovi successi nei prossimi anni, proprio come avvenuto in tutto l'arco della storia dell'uomo. Sarà questo il retaggio paradossale del Covid. Ora sta uccidendo molte persone e per un po' di tempo continuerà a mietere vittime. Sta già causando un'enorme recessione economica globale. Ma la nostra vittoria nella guerra contro il Covid fungerà da modello per vincere una guerra molto più pericolosa, quella contro il cambiamento climatico. È questo il nemico più grande.

Il terzo scimpanzé

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È evidente che gli esseri umani sono diversi da tutti gli animali, ma è altrettanto evidente che l'uomo, fin nei dettagli più minuti della sua anatomia e delle sue molecole, è una specie di mammifero di grossa taglia. Questa contraddizione è il carattere più affascinante della nostra specie, ma per quanto essa ci sia ben familiare abbiamo tuttavia difficoltà a capire come abbia avuto origine e che cosa significhi.

Citazioni

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  • Esteriormente siamo così simili agli scimpanzé che già alcuni anatomisti del Settecento, epoca in cui si credeva ancora nella creazione divina, non poterono fare a meno di riconoscere questa affinità. Prendiamo una persona qualsiasi, immaginiamo di spogliarla degli abiti, di privarla di tutto ciò che possiede, di toglierle il potere della parola riducendola a esprimersi per mezzo di grugniti, senza alterarne l'anatomia, e di metterla in uno zoo, rinchiudendola in una gabbia vicina a quelle degli scimpanzé. Alle persone vestite e parlanti in visita allo zoo quest'individuo privato dell'uso della parola e rinchiuso in una gabbia apparirà quello che noi tutti siamo in realtà: uno scimpanzé poco peloso capace di camminare con disinvoltura su due gambe. (p. 5)
  • Condividiamo con altri primati numerosi tratti che mancano alla maggior parte dei mammiferi, come unghie piatte in luogo di artigli, mani capaci di afferrare, pollice opponibile e un pene che pende liberamente invece di essere attaccato all'addome. [...] È anche facile attribuire all'uomo una collocazione più precisa all'interno dell'ordine dei primati, fra i quali siamo chiaramente più simili alle scimmie antropomorfe che ai cebidi e ai cercopitecidi. Per citare solo alcuni fra i segni più visibili, le scimmie cinomorfe hanno la coda, che manca a noi e ai pongidi. È chiaro anche che il gibbone, con la sua piccola mole corporea e le braccia lunghissime, è la più peculiare fra le scimmie antropomorfe, mentre gli oranghi, gli scimpanzé, i gorilla e gli uomini sono strettamente legati gli uni agli altri, più di quanto ognuna di queste forme sia legata al gibbone. (p. 20)
  • Diversamente dallo scimpanzé comune, e come l'uomo, il bonobo adotta nella copula una grande varietà di posizioni, compresa quella faccia a faccia; la copula può essere iniziata dall’uno come dall’altro sesso, non solo dal maschio; le femmine sono sessualmente recettive per gran parte del tempo, e non solo per un breve periodo alla metà di ogni mese; si instaurano stretti legami fra femmine, o fra maschi e femmine, e non solo fra maschi. Evidentemente quei pochi geni (0,7%) che differenziano il bonobo dallo scimpanzé comune hanno grandi conseguenze per la fisiologia sessuale e per i ruoli sessuali. (p. 28)
  • La distanza genetica (1,6%) che ci separa dal bonobo e dallo scimpanzé comune è poco più che doppia di quella che separa le due specie di scimpanzé (0,7%). Essa è inferiore a quella esistente fra le due specie di gibboni (2,2%) o fra specie di uccelli nordamericani strettamente imparentati fra loro, come il vireone occhirossi e il vireone occhibianchi (2,9%), o fra specie europee così simili da risultare difficili da distinguere, come il luì grande e il luì piccolo (2,6%). I nostri geni sono, per il restante 98,4 per cento, comuni geni di scimpanzé. Per esempio, la nostra principale emoglobina, la proteina che trasporta l'ossigeno e che dà al sangue il suo colore rosso vivo, è identica in tutte le sue 287 unità all'emoglobina degli scimpanzé. Sotto questo aspetto come sotto molti altri, noi siamo solo una terza specie di scimpanzé, e ci distinguiamo assai poco dalle altre due. Le principali differenze visibili che ci distinguono dagli altri scimpanzé – la stazione eretta, le dimensioni del cervello, la capacità di parlare, il pelo corporeo rado e la vita sessuale peculiare [...] – devono essere concentrate in un misero 1,6 per cento dei nostri geni. (p. 29)
  • Oggi sulla terra non ci sarebbe quindi una sola specie di Homo, bensì tre: lo scimpanzé comune, Homo troglodytes, lo scimpanzé pigmeo, Homo paniscus, e il terzo scimpanzé o scimpanzé umano, Homo sapiens. Anche il gorilla, solo leggermente più distaccato, ha quasi pari diritto a essere considerato un'altra specie di Homo. (pp. 31-32)
  • Sappiamo che almeno una parte di quell'1,6 per cento che ci differenzia dagli scimpanzé non svolge alcun ruolo e che le differenze funzionalmente significative devono essere confinate in una piccola frazione, non ancora identificata, di quello stesso 1,6 per cento. (p. 34)
  • Il portamento eretto liberò gli arti anteriori dei nostri progenitori, che poterono servirsene per altri scopi, il più importante dei quali si rivelò la fabbricazione di utensili. (p. 42)
  • Sul perché l'Homo erectus sia sopravvissuto e l'australopiteco robusto no, possiamo solo fare congetture. Un'ipotesi plausibile è che l'australopiteco robusto non fosse più in grado di competere con l'Homo erectus, dato che quest'ultimo era onnivoro, usava utensili e aveva un cervello più grande, il che presumibilmente comportava una maggiore efficienza nel procurarsi anche i vegetali da cui il suo fratello robustus dipendeva. Può darsi inoltre che l'Homo erectus abbia avuto un ruolo diretto nell'estinzione dell'australopiteco robusto, uccidendolo per mangiarlo. (p. 44)
  • Circa un milione di anni fa l'Homo erectus allargò i suoi orizzonti. I suoi utensili litici e le sue ossa attestano che raggiunse il Vicino Oriente, e poi anche l'Estremo Oriente (dove è rappresentato dai famosi fossili noti come «uomo di Pechino» e «uomo di Giava») e l'Europa. Esso continuò a evolversi nella nostra direzione attraverso un aumento del volume cerebrale e un accresciuto arrotondamento del cranio. (pp. 45-46)
  • Un dentista moderno che esaminasse i denti di un neanderthaliano non crederebbe ai suoi occhi. Gli incisivi degli adulti erano usurati sulla superficie esterna, in un modo che non si riscontra in alcuna popolazione moderna. Questo tipo peculiare di usura era evidentemente la conseguenza dell'uso dei denti come utensili; ma in che modo? Una possibilità è che i neanderthaliani usassero abitualmente i loro denti come una morsa per tener fermi oggetti, come quando i miei figli, da piccoli, tenevano il bottiglino del latte con i denti per poter correre attorno con le mani libere. O forse usavano i denti per mordere le pelli per trasformarle in cuoio, o per mordere il legno per costruire utensili. (pp. 52-53)
  • I neanderthaliani avevano, specialmente sulle spalle e sul collo, una muscolatura più sviluppata di quella di tutti gli individui moderni – tranne forse dei culturisti più esagerati. Le ossa delle gambe dovevano essere assai più massicce delle nostre per resistere alle forti sollecitazioni della loro possente muscolatura. Gli arti dei neanderthaliani ci apparirebbero tozzi, poiché la gamba e l'avambraccio erano relativamente più corti dei nostri. Anche le loro mani erano molto più robuste delle nostre: una stretta di mano di un neanderthaliano avrebbe potuto letteralmente spezzarci le ossa. (p. 53)
  • Il canale del parto di una donna neanderthaliana potrebbe essere stato più grande di quello di una donna moderna, permettendo al figlio di crescere nell'utero fino a raggiungere dimensioni maggiori prima della nascita. In questo caso la gravidanza di una neanderthaliana avrebbe potuto durare un anno, invece dei nostri nove mesi. (p. 53)
  • Oggi diamo per scontata l'esistenza di differenze culturali fra popoli che vivono in aree diverse. Ogni popolazione umana moderna manifesta un proprio stile caratteristico nelle abitazioni, nelle suppellettili e nell'arte: se qualcuno vi mostrasse un paio di bacchette, una bottiglia di birra Guinness e una cerbottana, e vi chiedesse di associare tali oggetti alla Cina, all'Irlanda e al Borneo, non avreste alcuna difficoltà a dare le risposte esatte. Nessuna variazione culturale del genere si trova presso i neanderthaliani, i cui utensili sembrano perfettamente identici sia che provengano dalla Francia o dalla Russia. (p. 55)
  • La maggior parte degli scheletri di neanderthaliani anziani presentano segni di gravi menomazioni, come braccia anchilosate, ossa fratturate saldate in modo invalidante, perdita di denti e gravi forme di osteoartrite. Solo l'assistenza di individui più giovani può aver permesso a questi anziani di rimanere in vita nonostante la loro invalidità. (p. 56)
  • Mentre i neanderthaliani si procuravano le materie prime in luoghi lontani non più di qualche chilometro dalle loro abitazioni, i Cro-Magnon e i loro contemporanei in tutt'Europa praticavano il commercio su lunghe distanze, allo scopo di procurarsi materie prime non solo per gli utensili, ma anche per «inutili» oggetti d'ornamento. (p. 62)
  • L'evidente senso estetico che si riflette nel commercio di ornamenti della tarda epoca glaciale è in relazione con l'attività per cui noi ammiriamo di più i Cro-Magnon: la loro arte. (p. 63)
  • Diversamente dai neanderthaliani, pochi dei quali superavano l'età di quarant'anni, i Cro-Magnon sopravvivevano a volte fino a sessant'anni, come si desume dai loro scheletri. Furono quindi molti i Cro-Magnon che vissero abbastanza da potersi godere i loro nipotini. Per quanti di noi sono abituati ad attingere le proprie informazioni dalla carta stampata o dalla televisione, è difficile rendersi conto dell'importanza che possono avere anche solo una o due persone anziane in una società che non conosce la scrittura. (pp. 63-64)
  • Per noi oggi, che non possiamo immaginare un mondo in cui nigeriani e lettoni posseggano le stesse cose, né tanto meno le stesse cose che possedevano i romani del 50 d.C., l'innovazione è del tutto naturale. Per i neanderthaliani era evidentemente impensabile. (p. 65)
  • Mi sembra inevitabile la conclusione che l'arrivo dei Cro-Magnon abbia causato in qualche modo l'estinzione dei neanderthaliani. [...] Io ipotizzo che ciò che accadde in Europa al tempo del grande balzo in avanti fu qualcosa di simile a ciò che accadde ripetutamente nel mondo moderno ogni volta che una popolazione numerosa dotata di una tecnologia più avanzata invase i paesi con popolazioni più piccole e tecnologicamente più arretrate. [...] Penso che i neanderthaliani possano essere stati in parte annientati dalle malattie introdotte dai Cro-Magnon, e in parte uccisi e ridotti in territori marginali dalla superiorità numerica e tecnologica dei nuovi venuti. Se le cose stanno così, la transizione fra i neanderthaliani e i Cro-Magnon fu un'anticipazione di ciò che sarebbe avvenuto in seguito tra i vari discendenti di quei primi vincitori. A prima vista può sembrare paradossale che i Cro-Magnon siano prevalsi sui molto più muscolosi neanderthaliani, ma le armi contarono certo più della forza fisica: allo stesso modo, non sono i possenti gorilla a minacciare oggi la sopravvivenza degli esseri umani nell'Africa centrale, ma è vero l'inverso. (pp. 66-67)

Armi, acciaio e malattie

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Tutti sappiamo che i popoli delle varie parti del mondo hanno avuto storie assai diverse. Nei 13000 anni trascorsi dalla fine dell'ultima glaciazione, in alcuni casi sono sorte società industriali vere e proprie, in altri società agricole prive di cultura scritta, mentre in altri ancora ci si è fermati a tribù di cacciatori-raccoglitori dotate di soli utensili di pietra. Tali disuguaglianze hanno avuto un'importanza fondamentale nelle vicende del pianeta, per il semplice fatto che i popoli industrializzati in possesso di una cultura scritta hanno conquistato o sterminato tutti gli altri. Queste diversità sono la base più evidente dell'intera storia del mondo, ma le loro cause rimangono tutt'altro che chiare. Come si sono originate, dunque?

Citazioni

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  • Le teorie basate sulle differenze razziali non sono solo odiose, sono soprattutto sbagliate. Non esiste una sola prova convincente del fatto che esistano differenze intellettuali innate tra le popolazioni umane. [...] Chi oggi vive «ancora all'Età della pietra» è in media più intelligente di un abitante delle società avanzate. [...] È utile ricordare che popoli appena usciti dall'Età della pietra come i guineani non hanno alcun problema ad imparare le moderne tecnologie, se si dà loro la possibilità di farlo. (prologo, p. 8)
  • I popoli del Nordeuropa non hanno giocato alcun ruolo nello sviluppo della civiltà eurasiatica, se non nell'ultimo migliaio di anni; hanno solo avuto la grande fortuna di ricevere a tempo debito i doni delle civiltà meridionali (l'agricoltura, la ruota, la scrittura, la metallurgia). (prologo, p. 10)
  • I destini dei popoli sono stati così diversi a causa delle differenze ambientali, non biologiche tra i popoli medesimi. (prologo, p. 13)
  • Dipinti in innumerevoli libri, film e cartoni animati come una razza di brutali scimmioni cavernicoli, i poveri neandertaliani avevano in realtà un cervello più grande del nostro, e furono i primi a mostrare segni di rispetto per i morti e di cure per i malati. I loro artefatti, però, sono sempre assai rozzi, e non si presentano in forme standardizzate e chiaramente differenziate nell'uso. (prologo, p. 24)
  • I neandertaliani, che vissero durante le glaciazioni ed erano adattati al freddo, non riuscirono ad andare oltre la Germania settentrionale e la zona di Kiev; ciò non fa meraviglia, visto che non sapevano cucirsi un abito, costruirsi un riparo e fare tante altre cose utili per sopravvivere in un clima freddo. Gli uomini moderni, invece, che erano in grado di farlo, si spinsero in Siberia circa 20 000 anni fa (anche qui non manca chi contesta questo dato); nel corso di questa espansione, probabilmente, si estinsero il mammut e il rinoceronte lanoso. (I cap. p. 28)
  • Il nostro archeologo trasportato nell'11 000 a. C. non è in grado di prevedere in quale continente l'uomo sia in procinto di svilupparsi più rapidamente: ciascuna area del pianeta ha buoni motivi per farcela. Con il senno di poi sappiamo che la vincitrice sarà l'Eurasia, ma le ragioni del suo successo non sono, come vedremo, quelle che l'archeologo nella macchina del tempo ha immaginato. (I cap. p. 35)
  • Perché Pizarro sconfisse Atahualpa? Gli spagnoli avevano una tecnologia bellica più avanzata: spade e armature di acciaio, fucili e cavalli. Le truppe di Atahualpa, senza cavalli o altri animali da montare, potevano opporre solo bastoni, mazze e asce, fatte di pietra, legno o bronzo, oltre a fionde e ad armature intessute. Una tale sproporzione fu decisiva in moltissime altre battaglie che opposero gli europei agli indiani. (III cap. p. 53)
  • Nella conquista spagnola dell'impero inca i fucili giocarono un ruolo minore. Gli archibugi del tempo erano difficili da caricare e da usare, senza contare che Pizarro ne aveva solo una dozzina. Avevano certo un grosso effetto psicologico, ma assai più importanti furono le spade, le lance e i pugnali di acciaio, le cui lame robuste massacrarono i poveri indigeni dalle armature intessute. Le mazze primitive usate dagli inca erano in grado al massimo di ferire, e raramente di uccidere uno spagnolo protetto da armature, cotte e elmi di acciaio o di maglia metallica. (III cap. p. 54)
  • Le malattie portate dagli europei, molto più rapide degli eserciti, si diffusero in America da tribù a tribù, fino a sterminare probabilmente il 95 per cento della popolazione indigena precolombiana. La prospera e numerosa società stanziata sulle rive del Mississippi, la più avanzata del Nordamerica di allora, fu spazzata via in questo modo tra il 1492 e la fine del XVII secolo, prima ancora dell'arrivo degli europei. (III cap. p. 55)
  • Nel Nuovo Mondo solo pochi privilegiati tra i popoli abitanti nell'odierno Messico sapevano scrivere. La conquista di Panama – a non più di 1500 chilometri a nord – da parte degli spagnoli iniziò nel 1510, mentre lo sbarco di Pizarro in Perù ebbe luogo nel 1527; eppure in diciassette anni gli inca non riuscirono a sapere nulla anche solo dell'esistenza degli invasori. Atahualpa non aveva idea del fatto che i suoi nemici avessero già sconfitto i popoli più forti e nomerosi del Centroamerica. (III cap. p. 56)
  • In breve, l'uso della parola scritta rendeva gli spagnoli depositari di una gran massa di conoscenze sulla storia e sui costumi umani. Per contrasto, Atahualpa non aveva alcuna concezione di un popolo come gli spagnoli, né aveva mai visto dal vivo un invasore; ma soprattutto, non aveva mai sentito (né letto) di situazioni analoghe, nel presente come nel passato. Questa enorme disparità di conoscenze fece sì che Pizarro tendesse la sua trappola, e che Atahualpa ci cadesse dentro. (III cap. p. 57-58)
  • La morte di Atahualpa ci dà modo di verificare quali sono le cause prossime che portarono alla conquista del Nuovo Mondo da parte dell'Europa, e non viceversa: la superiorità militare, basata su armi da fuoco, lame in acciaio e cavalleria; le epidemie di malattie infettive endemiche in Eurasia; la tecnologia navale; l'organizzazione politica degli stati europei; la tradizione scritta. In breve: «armi, acciaio e malattie». (III cap. 58)
  • L'agricoltura è un prerequisito necessario per arrivare alle armi, all'acciaio e alle malattie. (IV cap. p. 62)
  • Un nomade può, di tanto in tanto, portare con sé più cibo di quanto non riesca a consumare in pochi giorni; ma alla lunga questa abbondanza non gli è utile perché non ha i mezzi per conservarla e custodirla. Un sedentario invece può immagazzinare molto cibo e fare la guardia perché non glielo rubino. Il surplus alimentare è essenziale per la nascita e la proliferazione di quelle figure sociali non dedite in permanenza alla produzione di cibo, figure che una popolazione nomade non può permettersi. (IV cap. p. 65)
  • L'agricoltura e l'allevamento comparvero in modo spontaneo in poche aree del pianeta, con tempi assai diversi, e si diffusero da questi nuclei originari in due modi: tramite l'apprendimento delle tecniche da parte dei popoli confinanti, o con l'invasione da parte dei primi agricoltori – e anche questo avvenne in momenti assai diversi nelle varie parti del mondo. In alcune aree in cui le condizioni climatiche erano favorevoli, tuttavia, l'agricoltura non nacque mai spontaneamente, né fu portata in tempi preistorici, e l'uomo vi continuò a vivere per millenni come cacciatore e raccoglitore fino a quando non venne in collisione con il mondo moderno. I popoli che divennero agricoltori per primi, all'acciaio e alle malattie: da allora, la storia è stata una lunga serie di scontri impari tra chi aveva qualcosa e chi no. (V cap. p. 76)
  • Negli ultimi 13 000 anni vivere di caccia e di raccolta è stato sempre più difficile, perché le specie su cui si può contare sono diventate (soprattutto gli animali) sempre meno numerose, o sono scomparse del tutto. [...] Quasi tutti i mammiferi di grossa taglia si sono estinti in America alla fine del Pleistocene; altri scomparvero dall'Eurasia e dall'Africa a causa di mutazioni climatiche o per colpa degli uomini, che erano diventati cacciatori sempre più numerosi e abili. Se anche si può discutere sul fatto che le estinzioni di massa spinsero americani, africani ed eurasiatici (dopo un bel po') nelle braccia dell'agricoltura, esistono casi recenti in cui le cose sono andate proprio così. I polinesiani, ad esempio, si diedero all'agricoltura intensiva solo dopo aver fatto altrettanto con le specie locali di uccelli su altre isole del Pacifico. I primi coloni sbarcati sull'Isola di Pasqua nel 500 d. C. si portarono appresso del pollame da allevare, ma non iniziarono a cibarsene prima di aver fatto fuori tutti gli uccelli selvatici e le focene del luogo. Qualcosa di simile, secondo alcuni studiosi, può essere accaduto nella Mezzaluna Fertile con il declino numerico delle gazzelle selvatiche locali, che erano la principale fonte di cibo dei cacciatori indigeni. (VI cap. p. 82)
  • Il numero di calorie per ettaro fornite dalla coltivazione della terra è molto maggiore di quelle rese disponibili dalla caccia o dalla raccolta, e questo fa sì che più gente possa vivere nello stesso luogo. D'altra parte, l'aumento della densità umana durante il tardo Pleistocene è un fatto accertato comunque, dovuto ai progressi tecnologici che accrebbero l'efficienza nel procacciarsi il cibo. L'agricoltura si avvantaggiò di questa situazione, perché riusciva a nutrire un maggior numero di persone in modo più efficiente. (VI cap. p. 83)
  • In molte parti del mondo adatte alla coltivazione i cacciatori-raccoglitori locali o furono scacciati dai vicini agricoltori, o dovettero adottarne i costumi. In alcuni casi, grazie al loro numero o all'isolamento geografico, riuscirono a saltare il fosso in tempi preistorici e a sopravvivere: questo accadde nel Sudest degli Stati Uniti, sulla costa atlantica in Europa, e in parte in Giappone. In altre zone – Indonesia, Sudest asiatico, Africa subequatoriale e probabilmente in buona parte dell'Europa – i cacciatori-raccoglitori locali non fecero in tempo a cambiare, e furono rimpiazzati in epoche preistoriche da popoli di agricoltori invasori. Stessa sorte, infine, fu riservata in tempi assai più recenti all'Australia e a gran parte dell'Ovest americano. (VI cap. p. 84)
  • Non solo tra gli escrementi l'uomo semina involontariamente le piante di cui si nutre. I frutti raccolti, ad esempio, devono essere portati a casa, e nel tragitto possono lasciar cadere qualche seme; alcuni marciscono pur contenendo semi perfettamente vitali, e sono quindi buttati tra i rifiuti. Alcuni semi piccoli, come quelli delle fragole, sono inevitabilmente ingeriti e poi eliminati con le feci, mentre quelli più grossi vengono di solito sputati. Per farla breve, i primi laboratori di agronomia devono essere stati i cumuli di rifiuti e le latrine. (VII cap. p. 89)
  • Il grano e l'orzo del Vicino Oriente sono rappresentativi del gruppo dei cereali (le Graminacee), e piselli e lenticchie dei legumi (Leguminose). I cereali hanno molte virtù: crescono in fretta, sono molto produttivi (fino a una tonnellata per ettaro) e sono ricchi di carboidrati; è per questo che al giorno d'oggi più della metà delle calorie consumate nel mondo proviene dai cereali, soprattutto dalle cinque specie regine: grano, mais, riso, orzo e sorgo. Molti cereali contengono poche proteine, ma a questo pensano i legumi, che ne contengono in media il 25 per cento (il 38 la soia). Un'alimentazione basata su cereali e legumi fornisce quasi tutti gli ingredienti per una dieta bilanciata. [...] La combinazione cereali-legumi ha dato il via all'agricoltura in molte zone. I casi più noti, oltre al quartetto grano-orzo-piselli-lenticchie del Vicino Oriente, sono l'accoppiata mais-fagioli in Mesoamerica e quella tra riso e miglio africano con fagioli dall'occhio e arachidi in Africa, e del quinoa (un'erbacea che appartiene al genere Chenopodium e non è un cereale) con molti tipi di fagioli sulle Ande. (VII cap. p. 95)
  • Perché in alcune aree potenzialmente adatte – come la California, l'Europa, le zone temperate dell'Australia e dell'Africa subequatoriale – l'agricoltura non è stata «scoperta» in modo autonomo? E perché è sorta prima in certi posti e non in altri?
    Vengono alla mente due spiegazioni intuitive: la «colpa» è stata degli indigeni, o delle piante disponibili in loco. Da un lato c'è il fatto che ogni angolo della Terra sufficientemente caldo e ricco di acqua ospita una grande varietà di specie selvatiche utili, il che farebbe propendere per la spiegazione di tipo culturale: certi popoli non avevano le caratteristiche adatte per diventare agricoltori. Però è estremamente improbabile che l'idea di coltivare la terra non sia venuta in mente a nessuno degli abitanti di aree vastissime del nostro pianeta. Il problema può essere anche nella mancanza di piante adatte. (VIII cap. p. 100)
  • [Sulla Mezzaluna Fertile] Tutta l'area in questione ha un clima di tipo mediterraneo, caratterizzato da inverni miti e piovosi e da estati lunghe, calde e secche. Le specie che prosperano in questo clima sono adattate a sopravvivere alla lunga stagione arida, e a crescere rapidamente alla ripresa delle piogge. Molte piante mediorientali, in special modo i cereali e i legumi, hanno un adattamento specifico utile al genere umano: sono annue, cioè si seccano e muoiono con la stagione arida. [...] Un'altra caratteristica unica della Mezzaluna Fertile è data dal fatto che le specie selvatiche progenitrici di quelle coltivate erano già abbondanti e produttive in natura: il valore alimentare di un campo bello grosso di grano selvatico non poteva sfuggire a un cacciatore-raccolgitore della zona. [...] Un terzo vantaggio delle specie mediorientali consiste [...] nell'essere in gran parte ermafrodite sufficienti. Quasi tutte le piante selvatiche sono ermafrodite insufficienti o dioiche, e quindi la loro riproduzione dipende dalla presenza di individui della stessa specie. (VIII cap. pp. 104-105)
  • Cosa c'era di particolare nella Mezzaluna Fertile?
    Almeno cinque cose. Prima di tutto, è di gran lunga la più vasta estensione contigua di terre dal clima mediterraneo al mondo, e quindi ospita una maggiore diversità animale e vegetale. Secondariamente, è la zona dove si verificano le più forti escursioni stagionali, il che favorisce l'evoluzione di un'alta percentuale di piante annue: la Mezzaluna Fertile è dunque la regione che presenta il maggior numero di specie annue diverse. [...] Un'altra caratteristica favorevole della Mezzaluna Fertile (e siamo a tre) è la sua grande diversità orografica: si va dalla depressione più bassa al mondo (il Mar Morto) a monti alti più di 5000 metri, passando per pianure irrigue, colline e deserti. Una tale ricchezza di ambienti favorisce ancor di più la biodiversità, e dà un ulteriore vantaggio al Medio Oriente rispetto ad altre zone di tipo mediterraneo più uniformi, come l'Australia ad esempio. [...] Questa ricchezza e diversità di ambienti è responsabile anche del quarto vantaggio intrinseco della Mezzaluna Fertile: la sua abbondanza di specie animali di grossa taglia adatti alla domesticazione, abbondanza che non si riscontra in nessuna altra zona. [...] Il quinto e ultimo asso nella manica di questa parte del mondo è dato dal fatto che lo stile di vita dei cacciatori-raccoglitori era qui molto meno conveniente rispetto ad altre zone. (VIII cap. pp. 106-109)
  • I popoli nativi americani, dal punto di vista dei requisiti biologici necessari per diventare frutticoltori, erano esattamente uguali a quelli europei, e le mele selvatiche avevano le stesse caratteristiche sulle due sponde dell'Atlantico (tanto che i frutti che troviamo oggi al supermercato sono a volte ibridi di varietà europee e americane). La ragione per cui gli indiani non riuscirono a coltivare le mele sta nell'intero complesso di specie animali e vegetali che avevano a disposizione nel loro territorio: un insieme dallo scarso potenziale, responsabile della partenza ritardata dell'America nella corsa alla produzione di cibo. (VIII cap. p. 119)
  • In Eurasia c'è una grande varietà di mammiferi terrestri, domesticabili o meno. [...] Questo per il semplice motivo che è la più estesa massa continentale del globo, e che contiene una grande varietà di ambienti naturali: dalle foreste pluviali tropicali ai deserti, dalle paludi alle praterie. [...] Un buon motivo per cui l'Eurasia ha fatto la parte del leone nella storia della domesticazione è quindi dato dalla sua ricchezza di specie di partenza, ricchezza che è stata minata dalle grandi estinzioni molto meno che altrove. (IX cap. 123-124)
  • Quali sono le caratteristiche che fanno bollare un animale come intrattibile? [...] Non tutti gli erbivori vanno ugualmente bene: alcuni, come il koala, sono troppo schizzinosi per essere nutriti con efficienza. [...] Un animale domestico, per avere valore, deve crescere in fretta. Questo elimina dalla lista gorilla ed elefanti, anche se sono erbivori dalla dieta assai varia e non problematica. [...] L'uomo non gradisce che altri lo guardino mentre si accoppia; e così la pensano alcuni animali. Ecco perché, ad esempio, non siamo riusciti a domesticare i ghepardi, i più veloci tra gli animali terrestri, nonostante millenni di tentativi. [...] Qualsiasi animale di taglia sufficientemente grossa è in grado di uccidere un uomo: tra i responsabili di incidenti mortali abbiamo maiali, cavalli, cammelli e buoi. È però indubbio che certe specie sono molto più intrattabili di altre, e alcune sono inguaribilmente feroci. [...] Ovviamente gli animali più nervosi sono difficili da tenere in cattività. Messi in un recinto, sono presi dal panico; molti muoiono di paura o nel tentativo al di là della barriera. [...] Tutte o quasi le specie domesticate in passato hanno in comune tre caratteristiche: vivono in branchi, hanno una struttura gerarchica organizzata, e non sono rigidamente territoriali (cioè branchi diversi possono avere parti di territorio in comune). [...] È una struttura ideale per la domesticazione, perché gli uomini ci si possono inserire. [...] Però non tutte le specie dalla struttura sociale adatta sono automaticamente domesticabili. In primo luogo, molti animali sociali sono rigidamente territoriali e non si lasciano raggruppare: unire in uno stesso recinto due branchi con questa caratteristica è difficile quanto far convivere due felini adulti. [...] Infine, molti animali sociali (antilopi e cervidi, ancora una volta) non possiedono una gerarchia ben definita e non hanno la capacità istintiva di seguire un leader, umano o così sia. [...] In Eurasia era concentrato il maggior numero di mammiferi di grossa taglia domesticabili, molto più che negli altri continenti. (IX cap. pp. 128-133)
  • L'orientamento dei continenti ha influenzato la velocità di diffusione dell'agricoltura e dell'allevamento, e forse anche della scrittura, della ruota e di altre invenzioni. (X cap. p. 135)
  • Tutte le località poste alla stessa latitudine hanno giorni di durata uguale, e le stesse variazioni stagionali della medesima. Anche se in modo meno automatico, tendono ad avere climi, regimi delle piogge e habitat simili. (X cap. p. 141)
  • Sia gli adulti sia – in maggior numero – i bambini contraggono malattie dai loro animali domestici. Molte sono semplici fastidi, ma alcune sono diventate in passato faccende molto più serie. I peggiori killer dell'umanità nella nostra storia recente (vaiolo, influenza, tubercolosi, malaria, peste, morbillo e colera) sono sette malattie evolutesi a partire da infezioni degli animali, anche se i microbi che le causano sono al giorno d'oggi esclusivamente caratteristici della specie umana. Poiché queste sono state le principali cause di morte per lungo tempo, sono anche state fattori decisivi nel corso della storia. (XI cap. p. 150)
  • [Sui cacciatori-raccoglitori] Sono nomadi, che abbandonano gli accampamenti e con essi i loro escrementi, potenziali ricettacoli di germi e parassiti. I contadini sedentari, invece, devono convivere con i loro rifiuti, il che fornisce ai microbi una comoda strada per diffondersi nelle acque utilizzate dalla comunità. (XI cap. p. 157)
  • Quando ero un ragazzino, a scuola mi veniva insegnato che gli indiani nordamericani al tempo di Colombo erano non più di un milione; questo basso numero serviva a giustificare la conquista da parte dei bianchi di un continente praticamente vuoto. Ma gli scavi archeologici e un esame più attento dei resoconti dei primi esploratori ci permettono di stimare il numero dei nativi in circa 20 milioni. Nel complesso del Nuovo Mondo, nei due secoli successivi al 1492 la popolazione indigena scomparve per il 95 per cento. (XI cap. p. 163)
  • Nelle Americhe non c'erano molti grossi mammiferi, perché l'80 per cento di essi si era estinto alla fine dell'ultima glaciazione, 13 000 anni fa. I pochi animali che erano stati domesticati non avevano molte probabilità di trasmettere malattie, se confrontati con i buoi o con i maiali. I tacchini non si radunano in grandi stormi, né sono specie con cui l'uomo ha una grande intimità fisica. Le cavie possono aver contribuito alla diffusione di una tripanosomiasi come il morbo di Chagas, o della leishmaniosi, ma la cosa non è del tutto certa. Fa meraviglia che nessuna malattia ci sia arrivata dai lama, che saremmo tentati di considerare gli equivalenti americani dei mammiferi europei. Ma questi animali vivono in piccoli branchi, e il loro numero totale non era neanche paragonabile a quello, per esempio, dei bovini eurasiatici. Inoltre l'uomo non beve il latte del lama (e quindi non può venire infettato con questo mezzo), e non vive mai a stretto contatto con esso, perché è un animale che non viene tenuto in stalle coperte. I contadini eurasiatici, invece, hanno sempre vissuto gomito a gomito con i loro animali, anche nella stessa stanza. (XI cap. p. 164)
  • La conoscenza è potere. La scrittura è fonte di potere nelle società moderne, perché rende possibile trasmettere conoscenza meglio, più rapidamente e più lontano. (XII cap.)
  • I re e i sacerdoti sumeri volevano che i caratteri cuneiformi servissero agli scribi per tenere il conto delle tasse, non al popolo per poetare e ordire complotti. Come dice Claude Lévi-Strauss, la funzione principale della scrittura nel tempo antico era quella di «facilitare l'asservimento di altri esseri umani». (XII cap.)
  • Spesso l'invenzione è la madre della necessità, e non viceversa. (XIII cap.)
  • Molte altre tribù [oltre ai fayu] della Nuova Guinea e dell'Amazzonia devono il loro ingresso nella società contemporanea ai missionari, che precedono l'arrivo dei dottori, dei maestri, dei soldati e degli ufficiali di governo. La diffusione degli stati e delle religioni occidentali ha sempre proceduto di concerto, sia con modi pacifici (come con i fayu) che con la forza. In quest'ultimo caso, è in genere il governo che pianifica la conquista, e la religione che la giustifica. (XIV cap.)
  • La differenza più macroscopica tra i due continenti riguardava allora i mammiferi domestici di grossa taglia. [...] Abbiamo incontrato le tredici specie eurasiatiche, che di volta in volta furono la principale fonte di proteine, lana e pelli, il più importante mezzo di trasporto per cose e persone, un indispensabile veicolo di guerra, e una vera svolta nella produzione agricola. [...] Le Americhe invece avevano un solo mammifero di grossa taglia, il lama-alpaca, confinato in una ristretta area sulle Ande e sulla costa del Perù. Dava carne, lana, pelle e portava carichi, ma non forniva latte, non si poteva montare o aggiogare a un aratro, non trainava i carri e non fu mai usato in battaglia o come fonte di forza motrice. (XVIII cap. 280)
  • L'agricoltura americana, là dove era praticata, soffriva di ulteriori limitazioni: era troppo dipendente dal mais, povero di proteine, e mancava del paniere di ricchi cereali eurasiatici; i semi erano piantati uno a uno, e non con la più efficiente tecnica a spaglio; l'aratura era fatta a mano e non con aratri trainati da animali, il che rendeva impossibile coltivare certi suoli; si basava sulla sola forza muscolare dell'uomo per opere come la trebbiatura, la macinatura e l'irrigazione; e non aveva a disposizione il concime animale come fertilizzante. Per tutti questi fattori, è probabile che nel 1492 l'agricoltura americana desse una resa minore di proteine e calorie per ora di lavoro. (XVIII cap. pp. 281-282)
  • Oltre al vantaggio della partenza anticipata, l'Eurasia ebbe dalla sua anche la maggiore facilità con cui animali, piante, idee, tecniche e popoli si potevano spostare nel suo territorio. L'asse principale del continente è quello est-ovest, il che permette di muoversi stando sempre a latitudini simili e incontrare ambienti non troppo diversi. Il Nuovo Mondo, invece, era orientato lungo l'asse nord-sud e strozzato all'altezza di Panama; inoltre era costellato da barriere ecologiche e naturali, come le foreste dell'istmo che separavano i popoli del Mesoamerica da quelli andini, o il deserto messicano che non permetteva i contatti tra lo Yucatán e gli Stati Uniti meridionali. Alla fine, tra i centri principali del Mesoamerica, gli Stati Uniti orientali e delle Ande-Amazzonia non ci furono contatti per quello che riguardava gli animali domestici, la scrittura, l'organizzazione politica, e ci furono scambi lenti e limitati di colture e di tecniche. (XVIII cap. p. 288)
  • Mentre vari alfabeti di origine sostanzialmente unica raggiungevano i luoghi più distanti dell'Eurasia, dall'Inghilterra all'Indonesia (fermandosi davanti alla Cina), l'unico sistema di scrittura del Nuovo Mondo usato nel Mesoamerica non arrivò mai alle complesse società situate a nord e sud. La ruota, inventata in Messico come un giocattolo, e il lama delle Ande, che avrebbe potuto diventare un animale da traino, non si incontrarono mai. Gli imperi del Vecchio Mondo erano giganteschi, da quello romano la cui distanza est-ovest toccava i 4800 chilometri, a quello mongolo vasto anche il doppio; gli stati del Mesoamerica, invece, non avevano relazioni cone le chefferies degli Stati Uniti orientali, 1100 chilometri a nord, e con gli stati andini, a 1900 chilometri a sud. (XVIII cap. pp. 288-289)
  • Il Sahel, subito a sud del deserto del Sahara, ha un regime di precipitazioni invertito: piove in estate e non in inverno. Anche se le specie della Mezzaluna Fertile fossero riuscite a passare il deserto, si sarebbero trovate di fronte a difficoltà climatiche insormontabili. (XIX cap. p. 302)
  • Tutte le specie indigene africane sono state domesticate a nord dell'Equatore. Questo può darci un'idea del perché i bantu spazzarono via pigmei e khoisan, entrambi popoli stanziati più a sud che non conoscevano l'agricoltura. E non potevano conoscerla: l'Africa subsahariana non ha praticamente specie domesticabili, tanto che né gli invasori bantu né quelli europei riuscirono ad aggiungere qualche pianta locale al loro cantiere. (XIX cap. p. 304)
  • Come sappiamo, gli europei derivarono le loro caratteristiche vincenti dall'agricoltura; questa però fu ritardata in Africa subsahariana dalla relativa scarsità di specie domesticabili, dalla minore estensione delle terre coltivabili e dal suo orientamento lungo l'asse nord-sud, che ostacolò la diffusione delle colture. [...] Per quello che riguarda animali domestici, sappiamo che vennero tutti dall'Eurasia, con la possibile eccezione di alcuni dal Nordafrica, e che riuscirono a diffondersi a sud del Sahara solo dopo molti millenni. [...] Una specie domesticabile deve avere molte caratteristiche particolari: capre, pecore e buoi dell'Eurasia le possedevano, zebre, bufali e rinoceronti dell'Africa no. (XIX cap. p. 310)
  • In breve, la colonizzazione europea non fu dovuta alle differenze tra occidentali e africani, come i razzisti vogliono farci credere. Furono gli accidenti della geografia e della biogeografia a determinare l'esito finale: le differenti storie di questi due continenti dipendono in ultima analisi dal valore della loro terra. (XIX cap. 311)
  • Le forti disparità tra le vicende dei continenti non sono dovute a innate differenze nei popoli che li abitano, ma alle loro differenze ambientali. (epilogo, p. 313)

In breve, riconosco che comprendere i meccanismi della storia è molto più complesso che comprendere quelli dei fenomeni deterministici. Però esistono metodi per analizzare i problemi di carattere storico che funzionano bene in molte discipline: per questo motivo, le vicende delle nebulose, dei dinosauri e dei ghiacciai sono in genere classificate come «scienze». Ma l'introspezione ci può far conoscere molto di più sulla storia degli uomini che su quella dei dinosauri. Ecco perché sono ottimista, e penso che lo studio storico delle società umane potrà essere affrontato con metodi simili a quelli delle altre scienze. Faremo un grande regalo alla nostra società se capiremo cosa ha plasmato il mondo moderno, e cosa potrebbe plasmare il futuro.

Collasso

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Alcune estati fa ho visitato due aziende agricole, chiamate Huls e Gardar, che, pur essendo distanti migliaia di chilometri l'una dall'altra, avevano caratteristiche molto simili, sia in positivo sia in negativo. Erano di gran lunga le più vaste, prospere e tecnologicamente avanzate delle rispettive regioni, imperniate su due stalle modernissime usate come alloggio e luogo di mungitura delle vacche. Queste strutture, ben suddivise in due file laterali di poste, facevano scomparire al confronto ogni altra stalla della zona.

Citazioni

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  • Oggi la gran parte di noi occidentali può permettersi di condurre un'esistenza piena di sprechi. Ma in questo modo dimentichiamo che le nostre condizioni sono soggette a fluttuazioni e che potremmo non essere in grado di anticipare quando il vento cambierà. A quel punto saremo ormai troppo abituati a uno stile di vita dispendioso, per cui le uniche vie d'uscita potranno essere una drastica riduzione del nostro tenore di vita o la bancarotta. (cap. IV, p. 170)
  • [I maya] Erano, infatti, il popolo più evoluto (o tra i più evoluti) del Nuovo Mondo precolombiano e gli unici ad aver posseduto la scrittura. Pur presentando alcuni problemi legati al carsismo del terreno e alla variabilità delle precipitazioni, il loro ambiente non può essere annoverato tra i più fragili, secondo la media mondiale. [...] La storia dei maya è di monito, affinché non si creda che soltanto le società piccole, marginali e situate in zone fragili siano esposte al rischio di crollo: anche le civiltà più avanzate e creative possono sparire. (cap. V, p. 174)
  • Perché i re e i nobili [maya] non furono capaci di riconoscere e risolvere quei problemi così evidenti che minacciavano la loro società? La loro attenzione era evidentemente concentrata su mire personali e a breve termine [...]. Come quasi tutti i capi nella storia del genere umano, i re e i nobili maya non tennero conto dei problemi a lungo termine, posto che fossero in grado di accorgersene. [...] La passività dei capi dell'isola di Pasqua e dei re maya di fronte alle vere e grandi minacce che incombevano sulle loro società ci fa pensare all'estremo esibizionismo consumistico dei ricchi americani dei giorni nostri. (cap. V, p. 192)
  • I leader che possono veramente contribuire a cambiare le cose sono quelli che non accettano passivamente lo stato dei fatti, ma che hanno il coraggio di prevedere una crisi, di agire prima che questa si manifesti e che, in modo risoluto, dall'alto della loro posizione prendono decisioni sagge. Allo stesso modo, i cittadini altrettanto coraggiosi e attivi nella loro comunità possono contribuire al cambiamento agendo dal basso verso l'alto. (cap. IX, p. 322)
  • Come il resto del mondo, la Cina oscilla tra sviluppo incontrollato e consapevolezza ambientale. L'enorme popolazione, l'economia in forte crescita e il forte centralismo decisionale fanno sì che i tentennamenti di questa nazione nelle due direzioni siano di portata mondiale. [...] Per la sua estensione territoriale e per la sua peculiare forma di governo, le decisioni prese ai vertici operano in scala molto più vasta in Cina che in qualsiasi altro paese del mondo [...] Nel migliore dei casi, il governo cinese capirà che i problemi ambientali sono potenzialmente molto peggiori di quelli demografici, e adotterà per risolverli misure audaci e risolute, come ha fatto in passato imponendo per legge il controllo delle nascite. (cap. XII, p. 385)
  • L'Australia illustra nella sua forma più estrema la corsa sfrenata in cui è coinvolto il mondo moderno. Da un lato i problemi ambientali australiani, come nel resto del mondo, stanno accelerando esponenzialmente. Dall'altro stanno aumentando anche la pubblica consapevolezza e le iniziative private e governative volte a frenare il degrado ambientale. Quale di questi due concorrenti vincerà la corsa? Molti lettori di questo libro sono giovani e vivranno abbastanza a lungo per vedere l'esito in prima persona. (cap. XIII, p. 423)
  • Le popolazioni del Terzo Mondo aspirano a una vita migliore. [...] I paesi del Terzo Mondo sono incoraggiati dalle organizzazioni internazionali a perseguire l'obiettivo di una vita «all'occidentale» [...] Nessuno, però, vuole dire esplicitamente che quel sogno è irrealizzabile: un mondo in cui l'enorme popolazione del Terzo Mondo raggiungesse e mantenesse gli standard di vita tipici del Primo sarebbe insostenibile. [...] Oggi non è politicamente realistico che i leader dei paesi del Primo Mondo propongano ai cittadini di abbassare i loro standard di vita, limitandosi nel consumo di risorse e di rifiuti prodotti. Ma cosa accadrà quando le popolazioni del Terzo Mondo capiranno che gli standard di vita occidentali sono per loro irraggiungibili e che i paesi sviluppati si rifiutano, da parte loro, di abbandonare quello stile di vita insostenibile? La vita è piena di scelte difficili [...] ma questa sarà la più dura: come incoraggiare e aiutare tutti i popoli a raggiungere standard di vita più elevati senza, però, che uno sfruttamento eccessivo delle risorse del pianeta mini alle fondamenta la possibilità stessa di una vita migliore per tutti? (cap. XVI, p. 502-503)
  • Oggi, proprio come in passato, i paesi che hanno distrutto il loro ambiente e/o che sono sovrappopolati sono esposti al rischio di sconvolgimenti politici. Quando i cittadini sono disperati, malnutriti e senza speranza incolpano il governo, ritenuto responsabile delle loro miserie o incapace di risolvere i loro problemi. Allora, se non cercano di emigrare a tutti i costi, possono iniziare a combattere per il possesso delle scarse risorse [...]. I risultati sono i genocidi [...]; le guerre civili e le rivoluzioni [...]; l'invio di contingenti militari dal Primo Mondo [...]; il tracollo del governo centrale [...]; infine, una povertà sconvolgente [...]. Dunque, i fattori che meglio spiegano un crollo non sono altro che le conseguenze del degrado ambientale e di forti pressioni demografiche. (cap. XVI, p. 520-522)
  • Oggi il mondo non si trova più ad affrontare il rischio di un tracollo circoscritto, come quello dell'isola di Pasqua o dei maya, che si spensero senza che il resto del mondo lo venisse a sapere. Le società odierne sono così interconnesse che il rischio in cui incorriamo è quello di un crollo globale. (cap. XVI, p. 524)
  • L'intero globo è oggi un tutt'uno autosufficiente e isolato, come lo erano un tempo l'isola di Tikopia e il Giappone dell'era Tokugawa. Come fecero i tikopiani e i giapponesi, anche noi dobbiamo capire che non esiste nessun'altra isola (nessun altro pianeta) cui potremmo rivolgerci per chiedere aiuto, o sulla quale potremmo esportare i nostri problemi. Anche noi, come questi popoli, dobbiamo invece imparare a vivere nei limiti dei nostri mezzi. (cap. XVI, p. 526)
  • Corriamo grossi pericoli, ma non al di là del nostro controllo, come potrebbe essere una collisione con un asteroide, di quelli che colpiscono la Terra soltanto ogni cento milioni di anni. Si tratta, invece, di rischi che abbiamo creato e continuiamo a creare noi stessi. Siamo noi la causa dei danni ambientali e per questo abbiamo la possibilità di controllarli: spetta a noi la scelta di smettere. Il futuro è a nostra disposizione, dobbiamo prenderne le redini. (cap. XVI, p. 526-527)

Il mio ultimo motivo di speranza è frutto di un'altra conseguenza della globalizzazione. In passato non esistevano né gli archeologi né la televisione. Nel XV secolo, gli abitanti dell'isola di Pasqua che stavano devastando il loro sovrappopolato territorio non avevano alcun modo di sapere che, in quello stesso momento, ma a migliaia di chilometri, i vichinghi della Groenlandia e i khmer si trovavano allo stadio terminale del loro declino, o che gli anasazi erano andati in rovina qualche secolo prima, i maya del periodo classico ancora prima e i micenei erano spariti da due millenni. Oggi, però, possiamo accendere la televisione o la radio, comprare un giornale e vedere, ascoltare o leggere cosa è accaduto in Somalia o in Afghanistan nelle ultime ore. I documentari televisivi e i libri ci spiegano in dettaglio cosa è successo ai maya, ai greci e a tanti altri. Abbiamo dunque l'opportunità di imparare dagli errori commessi da popoli distanti da noi nel tempo e nello spazio. Nessun'altra società del passato ha mai avuto questo privilegio. Ho scritto questo libro nella speranza che un numero sufficiente di noi scelga di approfittarne.

  1. Da Il tramonto della Terra, Internazionale, n. 584, 1 aprile 2005, p. 47.

Bibliografia

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  • Jared Diamond, Il terzo scimpanzé – Ascesa e caduta del primate Homo sapiens, traduzione di Libero Sosio, Bollati Boringhieri, 1991, ISBN 9788833973777.
  • Jared Diamond, Armi, acciaio e malattie, traduzione di Luigi Civalleri, Einaudi, Torino, 1997, ISBN 9788806219222.
  • Jared Diamond, Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere, traduzione di Francesca Leardini, Einaudi, Torino, 2005

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