Antonia Arslan

scrittrice e saggista italiana (1938-)

Antonia Arslan (1938 – vivente), scrittrice e saggista italiana di origine armena.

Antonia Arslan

Citazioni di Antonia ArslanModifica

  • Un giorno di luglio arrivai a Grenoble...avevo con me un solo libro in italiano: Mondo piccolo...lessi e rilessi le storie di don Camillo e del sindaco Peppone, e mi innamorai del piccolo paese sul grande fiume. (da Don Camillo a Grenoble, Avvenire, 3 novembre 2010, p. 1.)
  • Avevamo tutti la consapevolezza che c'era stato il «Grande Male», che il popolo armeno era stato annientato durante la Prima guerra mondiale, ma non ne parlavamo in casa, e facevamo una vita del tutto italianizzata, tranne per qualche incontro annuale all’isola di San Lazzaro degli Armeni, di fronte al Palazzo Ducale nella laguna di Venezia.[1]
  • Ho man mano sentito più forte il bisogno di condividere, di esprimere il destino degli Armeni, di raccontare la loro tragica storia attraverso le vicende di una famiglia, la mia: come se la mia storia potesse servire come esempio degli orrori a cui gli uomini possono arrivare, ma tutto filtrato attraverso una struttura romanzesca, che si appoggiasse però a solide basi storiche.[1]

Da "Antonia Arslan "Così ho accolto l’Armenia ferita""

intervista di Antonio Gnoli, la Repubblica, 7 aprile 2019, p. 64-65.

  • [Daniel Varujan] Fu sequestrato, imprigionato, torturato e poi ucciso nell’agosto del 1915. Le milizie turche lo legarono a un albero e lo scuoiarono. Nella tasca della giacca gli fu trovato il libro delle sue poesie: Il canto del pane. Un’ode alla terra e al cielo, alla natura e a coloro che l’amano e la rispettano. Traducendole pensai al sacrificio di quell’uomo, all’oltraggio che lui e migliaia come lui avevano subito.
  • Gli storici negazionisti sostengono che non fu adottata nessuna "pulizia etnica" e che nel 1915 ormai con il mondo in guerra, due nazionalismi, quello turco e armeno, si contrapposero. E che ad avere la peggio fu quest’ultimo. Questi storici, in larga parte turchi, giustificano le deportazioni e le morti come frutto di condizioni ambientali difficili, causate da epidemie e stenti. La verità è che tra impiccagioni, fucilazioni, detenzioni, fame e malattie il numero delle vittime armene è stato calcolato intorno a un milione e mezzo. I Giovani Turchi, così chiamati per il loro programma di rinnovamento e rottura rispetto al sultanato, animati da un furioso nazionalismo furono la causa principale del genocidio.
  • Nella letteratura dell’Ottocento, i moti dell’animo femminile appaiono difficili da comprendere, perciò li si incasella in stereotipi precisi: fragilità, scompenso emotivo, isteria restituiscono un quadro psichico prevedibile. Ma che cosa fosse la donna sotto queste manifestazioni, quale dolore reale le accompagnasse non era dato sapere.
  • Fin dalle prime deportazioni di gente strappata dai loro villaggi, il destino delle donne fu in un certo senso diverso da quello degli uomini. Questi ultimi furono brutalmente uccisi, le donne brutalmente sottomesse o accompagnate verso il nulla del deserto siriano. Furono loro a resistere e a conservare il senso di un’identità che altrimenti si sarebbe smarrita. Furono loro, nella memoria difesa, la prima luce che squarciò il buio armeno.

La masseria delle allodoleModifica

IncipitModifica

Zio Sempad è solo una leggenda, per noi: ma una leggenda su cui abbiamo tutti pianto. Era l'unico fratello uterino del nonno, il minore; la loro madre, Iskuhi la principessina, morì diciannovenne dandolo alla luce. Il bisnonno poi si risposò con una "matrigna cattiva", che gli diede molti altri figli; nonno Yerwant non la sopportava, così a tredici anni chiese e ottenne di andarsene dalla piccola città a Venezia, a studiare al Moorat-Raphael, il collegio per ragazzi armeni.

CitazioniModifica

  • Il nonno morì alcuni mesi dopo. Non andammo più insieme dal vecchio frate, non seppi mai quali fossero gli "speciali doveri" di chiamarsi Antonia. Dopo tanti anni, però, non ho dimenticato. Ancora oggi per me le grandi cupole della basilica sono come navi possenti, e veleggiano maestose da Occidente a Oriente, seguendo la profezia, posate come in bilico sulla città tanto più piccola. Ancora mi commuove, ogni volta che entro dal grande portone, l'odore di incenso, il canto delle litanie lauretane (o il loro ricordo), l'eco presente dello scalpiccìo dei milioni e milioni di passi dei pellegrini che, come un mare, vengono e vanno, e dell'anima di ognuno si prende cura il grande Santo, di cui porto il nome.
    Dopo tanti anni, è nell'odoroso interno brulicante di gente che mi sento a casa, nel caldo nido di una volta: non estranea, non ospite, ma passeggera in attesa di un treno di cui non conosco l'orario. So soltanto che da qui passerà, da questa grande stazione dove nessuno è straniero, e un grande cuore ancora batte per segnarci il cammino. Qui vorrei finire il mio tempo, appoggiata a un gradino consumato dai passi degli uomini, perché Qualcuno mi accetti, per non svanire nel nulla, e transitare verso la luce, con la mano nella mano del mio amico Antonio il portoghese, detto Antonio di Padova, il Santo col fiore di giglio in mano.
  • Sempad, e tutti gli altri come lui, non potevano letteralmente concepire che si potesse ingannare – e uccidere, poi – uno con cui prendi il tè in casa tua: un ospite!
    L'uso di mondo di Sempad – e degli altri come lui – non si estendeva alla doppiezza né all'inganno; si basava piuttosto sull'applicazione di un accurato cerimoniale mercantile di guadagni, profitti e perdite, calcolati con larghezza e con il rispetto dovuto ai poveri della comunità.
  • [Alla morte di Hamparzum] Li trovarono così, nonno e nipote. Immobili in reciproca silenziosa comunione, in bilico tra passato e futuro in un presente miracolosamente dilatato: una rossa sera che non scendeva, un'epifania misteriosa. La Vergine aveva camminato sulla terra, tra i papaveri e il grano dorato, e aveva gradito il grappolo d'uva.
  • Sabato Santo. La paziente trappola, lucida di filo spinato e di sangue rappreso, sta per scattare. Ma la vita impassibile scorre in superficie.
  • Mentre un brivido disperato la scuote tutta, Azniv improvvisamente comprende un pericolo, un orrore incombente, e il suo giovane sangue dà un balzo di voluttuosa speranza. Un cieco istinto la spinge ad andare via da quel luogo, dove le rose sembrano adesso profumare di morte, e il muro del giardino nasconde tombe sconosciute. Si alza in piedi, e allora lui (che non ha compreso nulla) si alza con lei e la stringe a sé per baciarla. Il bacio è appena uno sfiorarsi, ma rimbalza in lei cupamente: vergogna, disonore, follia, nella casa stessa del padre...
    Azniv si stringe le braccia sul seno, arrossisce, e con la stessa velocità con cui lo ha fatto entrare, riapre la porticina nel muro e spinge fuori il giovane, con furia silenziosa. Il corpo le ha detto ciò che la mente non aveva ancora afferrato: il mare di differenza che diventa sempre più rosso, dove lei sta su una sponda e lui sull'altra, il mare che divide i due popoli.
  • La notte dopo la scomparsa di Nevart, Shushanig, Azniv e Veron tengono consiglio insieme ad Araxy, la cuoca. Ognuna ha in cuore il suo segreto: Shushanig, il desiderio di morte che non l'abbandona, e si approfondisce nell'intimo colloquio con Sempad, cui giorno dopo giorno racconta di sé, e le pare di riceverne conforto, di averlo vicino: "Sarà per poco, caro" prega; e "Perché non sento i bambini? Perché non mi fai parlare con loro?".
    Capisce ora Shushanig, fino in fondo, il mistero della forza che unisce l'uomo e la donna che si sono scelti, per sempre. "Dove sei tu, ci sono anch'io." Nessuno può interrompere davvero il colloquio di due sposi amanti, né disciogliere le loro viscere che si sono intrecciate.
  • Nell'ampia fascia che gli avvolge il ventre, Nazim stiva i denari che riceve, senza contarli: appena una palpatina. I suoi polpastrelli sono sensibili come quelli di un pianista, e altrettanto esercitati. Poi nessuno lo imbroglierebbe, qui: i suoi compagni non discutono la sua scelta, e più d'uno prova una sorta di ruvida pietà per gli armeni, oggi divenuti più miserabili di loro: anche perché sono perseguitati dai Senzadio del nuovo governo. Capiscono, i mendicanti, che in un mondo senza Dio anche il loro mestiere diventa difficile, e la carità, rara. E poi, è tempo di guerra: non è meglio combattere i nemici esterni, piuttosto che crearsene di interni? La secolare saggezza di mendicanti e mercanti, in Oriente, si è sempre incontrata nell'ardua abilità del compromesso a metà strada.
    Nelle Corti dei Miracoli della malavita, che fioriscono dovunque, e sono il rovescio del tessuto di ogni società organizzata, le cose hanno una loro logica, per quanto capovolta; e vi trovano spazio l'avidità, la crudeltà, l'astuzia, la fuga dalla fame: ma non il fanatismo. Perché eliminare gli armeni, che producono ricchezza e cospicue elemosine? (nell'Impero Ottomano, come in ogni società religiosa, l'elemosina garantisce la ricchezza, e la giustifica...).
    «La pecora si tosa, non si ammazza» così brontolano fra loro i Fratelli mendicanti, che dal selvaggio assalto ai beni degli armeni non hanno ricevuto che briciole, mentre non ricevono più le usuali, ricche elemosine alle porte delle chiese e delle case, e durante le grandi festività cristiane.
  • Nella grande piana ai piedi dei primi contrafforti del Tauro, confluiscono stremati i resti delle carovane. Di quanti, di quante biancheggiano ormai le ossa sui sentieri, quanti gonfi cadaveri sono trasportati dall'Eufrate; quanti bambini, quante ragazze sono scomparsi. Il gruppetto dei superstiti della piccola città si attenda penosamente sotto due alberi scarni, mentre un falco alto gira nel cielo limpidissimo. È luglio, chissà. Nessuno tiene più il conto dei giorni.
    Dove sono i castelli di Cilicia, dove il regno crociato dei Lusignano? Nella nebbia, nel calore accecante, fra i resti miserabili di quel popolo orgoglioso si aggirano i fantasmi degli arcieri invincibili bagratidi, dei cavalieri con l'orifiamma al vento. E un delicato vento di morte soffia sulle guance accaldate, sui volti riarsi, portando frescura, abbandonata inerzia, consolazione: e Shushanig vede le belle forti angele guerriere che vengono a prenderla, insieme a Sempad a cavallo, bello come quando andava a caccia con l'amico nel paese dei Lazi.
  • Che Dio v'aiuti, se ci ingannate. Un mendicante e un coltello si trovano ovunque. (Nazim)

ExplicitModifica

E così, paziente lettore, siamo giunti al termine di questo viaggio, e di questo racconto. Le figlie di Sempad sopravvissero, e così Nubar, come era stato predetto. Per un anno Zareh li tenne nascosti nella cantina della sua casa, e non li avrebbe potuti nutrire senza il premuroso aiuto di Marie-Joséphine e del tesoretto di Ismene, e la volontà concorde di aiutare gli armeni del popolo di Aleppo e degli stranieri che vi abitavano.
Poi riuscì a imbarcarli per mare verso Venezia – e verso Yerwant che se ne prese cura. Shushanig sopravvisse a se stessa per tutto quel lungo anno; ma si lasciò andare, e morì di crepacuore sulla nave, la prima notte in cui, essendosi finalmente imbarcata per l'Italia con il suo piccolo popolo, poté dismettere la paura e sorridere di nuovo a Sempad. Che avvenne poi dei suoi figli, e di Yerwant, della sua contessa, di Yetwart e Khayël? Questa sarà un'altra storia.
Ismene e Isacco restarono ad Aleppo con Shushanig fino alla sua partenza; poi se ne andarono a Smirne, insieme. E anche questa è un'altra storia.
Nazim rimase ad Aleppo con Zareh, rimandando la sua partenza; ma un giorno scomparve davvero, forse per esercitare la sua professione alla Mecca. Di certo, non tornò più indietro.
Nazim trovò Djelal, nella notte famosa: e non si sa che cosa gli disse. Ma alcuni giorni dopo, come per caso, Djelal e Zareh si incontrarono, e piansero insieme: cioè bevvero caffè e giocarono a tric-trac. E fu poi Djelal che trovò la nave, e i passaporti tedeschi per il piccolo popolo di Shushanig; e ancora lui testimoniò al processo per le stragi armene, a Costantinopoli, nel 1919.
Nessuno, paziente lettore, è più tornato nella piccola città.

La strada di SmirneModifica

IncipitModifica

Lontano, nella verde Italia, è la seconda estate di guerra. Il tempo si trascina fra un attacco e l'altro, avanti e indietro nelle trincee; le fortune sembrano oscillare, si percepisce soltanto che l'incertezza durerà a lungo.
"L'Italia ha scelto. Ma ha scelto bene?" si domanda Yerwant, ansioso, ferito, che non può parlare con nessuno. Ma di fronte all'orrore di una alleanza coi turchi...
Dopo l'azione fulmine che ha salvato Shushaning e i bambini, Zareh gli ha scritto per via diplomatica una lettera piena di informazioni, e gli ha chiesto consiglio, e riflessione. Yerwant è il maggiore, ma sono rimasti soltanto in tre, e bisogna consultare anche Rupen, laggiù a Boston.
Lettere nervose si incrociano, e Yerwant si sente investito di un'angosciosa responsabilità. In quell'anno terribile si trova a reimparare la pazienza e le astuzie orientali, a giocare sulle scacchiere misteriose dove ogni mossa può essere fatale.

CitazioniModifica

  • Ecco chi sono gli armeni: non esotici rampolli di grandi famiglie, nobili origini e aria distaccata, ma poveri profughi con tutti i loro beni sulle spalle, cenciosi disgraziati alla ricerca di un asilo, ridotti ad arrangiarsi per sopravvivere, facendo tutti i mestieri. A chi importa chi erano prima? (p.67)

Incipit di alcune opereModifica

Il libro di MushModifica

Il monastero era in fiamme. Per chilometri all'intorno quel punto rosso danzava frenetico, ora sembrava attenuarsi, ora bruciava più alto.
Per chilometri intorno la gente guardava, presa da una paura informe, strisciante, o da un'esaltazione chiassosa.
La superba posizione, in alto sulla montagna, del sacro luogo di Surp Arakelots Vank, i Santi Apostoli, rendeva visibile l'incendio da tutta la vallata. Sembrava di sentire le grida dei monaci inseguiti, l'odore strinato e terribile delle lunghe barbe e delle tonache date alle fiamme – con gli uomini dentro.


BibliografiaModifica

Altri progettiModifica

  1. a b Da Genocidio armeno. Intervista con Antonia Arslan, intervista di Michela Beatrice Ferri, Lavocedeltempo.com, 17 aprile 2015