Vincenzo Agnetti
artista italiano (1926-1981)
Vincenzo Agnetti (1926 – 1981), artista italiano.
Citazioni di Vincenzo Agnetti
modifica- Ognuno di noi è uno scriba mentre il potere costituito è il nostro faraone. Pertanto ognuno di noi scrive con artefatti e parole i discorsi del faraone. Infine ognuno di noi alimenta in sé e solo per sé l'unica frase ovvia: Così è scritto e così non sarà fatto.[1]
- Se uno vende del ferro al prezzo dell'oro oppure fa un discorso colonialista facendolo passare per pacifista, è un buon venditore. Non a caso, infatti, le parole e gli oggetti venduti dal sistema ci offrono sempre due significati: uno vero, che per vanità non vogliamo leggere, e uno falso, indolore, che accettiamo con voluta complicità per sentirci storicamente validi e buoni venditori.[2]
Citazioni su Vincenzo Agnetti
modifica- A un mondo fissato in schemi rigidi e chiuso sul proprio autofunzionamento, Agnetti risponde con una strategia del linguaggio inteso come eversione permanente, dove, paradossalmente, l'arte serve a spingere la vita verso una condizione d'impossibilità: per vita s'intende la globalità dei fenomeni collegati alla trasformazione del mondo. La vita si organizza secondo possibilità funzionali al sistema produttivo. L'economia è il campo dove i progetti diventano atto e pratica conciliante. Per Agnetti l'arte, come pratica mentale contraria e alternativa, vive invece un doppio momento: quello della sua libertà e quello della sua necessità. (Achille Bonito Oliva)
- Al principio della storia di Agnetti c'è una skepsi radicale, un dubbio esteso che si traduce in afasia: dopo gli studi artistici e scientifici, dopo gli esordi come pittore informale nei primi anni Cinquanta, cessa completamente di dipingere. Uccide il corpo dell'opera e inizia a intrattenere con l'arte un rapporto di puro desiderio, precludendosene la pratica diretta. La sua appassionata attività accanto ad "Azimuth", con gli amici Castellani e Manzoni, e tutto un contesto umano che fu da lui profondamente influenzato, mette in luce come egli si concedesse di anticipare l'opera partecipando al momento ideativo, e d'altra parte amasse proseguirla, dopo la sua realizzazione, attraverso interventi scritti che solo con una forzatura potrebbero essere definiti interpretazioni critiche: il lavoro di un altro diventa lo spunto per una nuova partenza, per un'opera nuova che si snoda però solo sul piano verbale. Ciò che Agnetti in quegli anni evitava, avendo scelto di delegarlo ad altri, era il momento esecutivo dell'oggetto e, con esso, l'atto di appropriazione che si realizza nella firma. (Angela Vettese)
- Dopo aver cercato di turbare i sogni dell'epistemologia, Agnetti attacca anche la quiete delle certezze tecnologiche. Negli anni del baby-boom e della pace manomette una calcolatrice da ufficio in modo che a ogni numero, nei martelletti che battono sulla carta, corrisponda una lettera: il risultato di qualsiasi operazione è zero in significato, ma dieci in lucida follia. Il codice razionale numerico, sostituito da una misteriosa grammatica combinatoria, diventa un formidabile stimolo alla creazione anche da parte degli spettatori. La Macchina drogata (1968), ormai inadatta a fini pratici, si fa oggetto disposto a narrare una storia e pretesto per un formidabile happening. (Angela Vettese)
- È al prezzo di questa sofferenza che Agnetti ha acquistato la sua febbrile maestria. Come Socrate rifiutava la domanda di Alcibiade di essere l'oggetto del suo desiderio, così Agnetti temeva sopra ogni cosa d'essere troppo ben capito. Viveva la sua performance linguistica come un destino inafferrabile, di cui il fine e i mezzi erano la riduzione a zero dei termini dello scambio. Questo fondamentale azzeramento gli permetteva il passaggio integrale dal Verbo al Numero. Sostituendo il discorso parlato o scritto con l'enumerazione aritmetica, Agnetti riduceva sì la parola a semplice "supporto d'intonazione", ma era una intonazione in codice. Passava dal Verbo al Numero ma per tornare alla universalità del linguaggio. La sua "Macchina drogata" o il suo "Amleto politico" che operano il transfert numerico del Verbo in nome dell'Universale sono delle pure figure stilistiche lacaniane. Somma dei due oceani più grandi, il rumore del mare al Capo Horn deve essere un rumore matematico, mi diceva una sera – al bar, insieme, sognavamo la Terra del Fuoco. (Pierre Restany)
- L'opera di Vincenzo Agnetti, qui presentata per la prima volta nella sua completezza, a oltre ventisei anni dalla sua scomparsa, attendeva da tempo un riconoscimento che ne mettesse in piena luce l'importanza. Sostenuta da un pensiero critico acuto e vivace, e aperta, allo stesso tempo, a esiti altamente poetici (valgano come esempio le frasi folgoranti dei suoi "ritratti" su feltro), essa ha segnato profondamente una delle stagioni più affascinanti e complesse dell'arte italiana e internazionale, in cui sono stati messi in discussione il modo stesso di concepire l'arte, il suo significato, la sua storia, i suoi canoni di linguaggio. A tutto questo Agnetti ha contribuito attraverso un percorso breve ma assai intenso, ricco di contenuti di straordinario spessore. (Gabriella Belli)
- Sul potere e la legge Agnetti si poneva il grande interrogativo: "È possibile la giustizia senza delitti?", e la sua risposta è nelle sue poesie "Machiavelli 30": "Anche questo è un delitto". Al terribile potere di amputazione della Giustizia, simbolizzato dalla spada, Agnetti opponeva l'immagine ironica e derisoria della mela tagliata in due. Altro simbolo, quello della Tentazione, ma anche mistero inquietante: in quale metà sta il desiderio? La metà è, nello stesso tempo, l'inverso e il suo aldilà. È col Verbo, il suo inverso e il suo aldilà che Agnetti ha voluto interrogare il mondo, ed è nella somma paradossale di tutte le sue interrogazioni "azzerate" che bisogna cercare, sicuramente, la sostanza e la persistenza, sia mentale che retinica, di questa sua intuizione tenace e lacerante, stile dell'essere e del fare: stile che è arte. (Pierre Restany)
Note
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