Indro Montanelli e Mario Cervi: differenze tra le versioni

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*Sempre ansioso d'avere solidi appigli, e solide armi per assicurarseli, Enrico Mattei si fece editore, tra la primavera e l'estate del 1956. A Milano era sopravvenuto, nell'editoria quotidiana, un avvenimento rivoluzionario: dopo alcuni tentativi fiacchi e abortiti dell'immediato dopoguerra, una nuova testata s'era alzata a contrastare il virtuale monopolio del ''Corriere della sera'', affidato alle curatissime e morbide mani di Mario Missiroli. ''Il Giorno'' – questo il nome del quotidiano anticonformista che vide la luce il 21 aprile del 1956 – fu il frutto di una combinazione alla quale Mattei parve all'inizio formalmente estraneo. Demiurghi noti dell'operazione furono Gaetano Baldacci, inviato speciale del ''Corriere della sera'', siciliano di non scorrevole prosa ma d'intelligenza viva, di piglio arrogante, di grande spregiudicatezza manovriera; e Cino Del Duca. Era quest'ultimo un marchigiano – come Mattei – di famiglia e di convinzioni socialiste e antifasciste che, emigrato in [[Francia]], vi aveva fatto fortuna con la presse ''du coeur'', la stampa popolare e dolciastra che anche in Italia stava ottenendo successo. ''Nous deux'' tirava due milioni di copie, un milione ''Intimité'', quattrocentomila ''Bolero''. Nelle discussioni che precedettero il lancio del ''Giorno'' ebbe una parte [[Leo Longanesi]], che con la prodigalità di talento che lo contraddistingueva suggerì alcune idee preziose. (pp. 33-34)
*''Il Giorno'', dalla testata pariniana e puritana – benché poggiasse sui miliardi di Del Duca e sul petrolio di Mattei –, volle essere L'anti-''Corriere''. «Fondi» brevi e secchi – uscito di scena Baldacci questa norma, che era buona, andò perduta –, fotografie in abbondanza, niente terza pagina, poca letteratura, tanta cronaca, vistose concessioni al gusto popolare, inserti, supplementi. Una formula che senza dubbio anticipò alcune strategie dei quotidiani nei decenni successivi, e che ebbe un discreto successo di vendita, riuscendo ad aprire brecce nel fortilizio un po' sguarnito del colosso di via Solferino. (p. 34)
*Mattei non aveva aspettato così a lungo per valersi, con discrezione, delle possibilità di pressione e di allettamento che il quotidiano gli consentiva. A Gronchi diceva suadente: «Giovanni, da questo giornale non dovrai temere attacchi», a Nenni confidava con aria complice: «Per lei ho fatto quello che nessuno ha fatto, cioè ''Il Giorno''». Le polemiche divampavano: l'Eni aveva come compito statutario la ricerca e lo sfruttamento del metano e del petrolio, non il finanziamento d'un quotidiano fortemente passivo; ma in definitiva lasciarono, e continuano a lasciare il tempo che trovano. (p. 35)
*Impossibile dire cosa Mattei, cosa I'Eni, e cosa l'Italia sarebbero diventati se il Morane Saulnier fosse felicemente atterrato a Linate, quella sera fatale. Si può tuttavia fondatamente supporre che le vicende del Palazzo sarebbero state, con un inquilino come lui, diverse. Mattei era unico, nel bene e nel male. Non lasciò veri eredi né veri successori. Le dinastie dei personaggi di quella fetta cominciano con loro, e con loro finiscono.
*La lingua ufficiale del Concilio fu, per volontà di Giovanni XXIII (che respinse l'idea della traduzione simultanea), il latino. Nel suo discorso d'apertura il Papa disse che con il Concilio la cattolicità doveva adeguarsi al mondo che la circondava. «La Provvidenza ci sta conducendo ad un nuovo ordine di rapporti umani... Dalla rinnovata, serena e tranquilla adesione a tutto l'insegnamento della Chiesa nella sua interezza, lo spirito cristiano cattolico e apostolico del mondo intero attende un balzo innanzi verso una penetrazione dottrinale e una formazione delle coscienze in corrispondenza più perfetta di fedeltà all'autentica dottrina.» (p. 95)
*Giovanni XXIII non vide la conclusione del Concilio ch'egli aveva voluto, e che durò fino al 1965 (allo svolgimento del dibattito, e ai documenti che furono approvati, dedicheremo alcune pagine più avanti). Nella primavera del 1963 Angelo Roncalli, colpito da un male incurabile, si aggravò rapidamente. I suoi ultimi atti pubblici furono l'accettazione del premio Balzan per la pace, che gli fu assegnato il 10 maggio, e l'udienza solenne al Presidente della Repubblica italiana, Antonio Segni, il giorno successivo. Il 23 maggio, festa dell'Ascensione, il Papa si affacciò per l'ultima volta alla finestra del suo appartamento e salutò la folla in piazza San Pietro. La sera del 31 maggio entrò in agonia: spirò alle 19.49 del 3 giugno 1963. Aveva ottantadue anni. (pp. 95-96)
*La personalità di Gronchi, lo sappiamo, aggravò i rischi dell'interventismo e del presenzialismo di chi, essendo Capo dello Stato, è nello stesso tempo irresponsabile (dal punto di vista costituzionale) e autorevole (dal punto di vista sostanziale). Gronchi aveva molte ambizioni: una delle quali era la realizzazione d'una politica estera del Quirinale, parallela alla politica estera governativa. Prima che [[Aldo Moro|Moro]] inventasse le convergenze parallele, Gronchi aveva inventato le divergenze parallele. «La Costituzione – disse a Mario Luciolli, che era stato nominato suo consigliere diplomatico – non consente al Presidente della Repubblica di fare molto, ma non gli vieta di far conoscere le sue idee.» La prima delle quali era che l'Italia dovesse assumere, nell'Alleanza atlantica, un ruolo più importante e meno aderente alle direttive degli [[Stati Uniti d'America|Stati Uniti]]. (p. 110)
*Segni non era Gronchi. Rifuggiva dai meschini intrighi del suo predecessore. La sua vulnerabilità alle suggestioni di De Lorenzo era d'altro genere. Segni temeva insidie per l'Italia e per la sua democrazia. Aveva per le Forze Armate una patriottica, sincera simpatia: alla sfilata militare del 2 giugno 1964 lo si era visto piangere commosso, durante il passaggio della brigata meccanizzata dei carabinieri, una unità di nuova istituzione: nata in concomitanza con il centocinquantesimo anniversario della fondazione dell'Arma. Le apprensioni di Segni furono utili a De Lorenzo quanto le disinvolture di Gronchi.
*La sera del 28 dicembre [[Giuseppe Saragat]] diventò Presidente con 646 voti su 927 votanti (150 schede bianche per almeno due terzi democristiane), 9 liberali insistettero sul nome del loro presidente [[Gaetano Martino]], e i missini su quello di [[Augusto De Marsanich]]. I sette dissenzienti socialdemocratici si pronunciarono per Paolo Rossi. Come osservò il ''Times'', «l'uomo migliore era stato scelto nel modo peggiore». Migliore certo di tantissimi altri, ma imprevedibile. Con atteggiamento ispirato aveva detto a [[Pietro Nenni|Nenni]], pochi momenti prima dell'ultima votazione: «Gente come te e come me, al Quirinale, se c'è una sommossa di destra, spara: se ce n'e una di sinistra, si spara». Per sua buona fortuna gli mancò l'occasione di confermare, nei fatti, la validità dell'assunto. (p. 266)
*Il dialogo con Saragat non era mai altro che un monologo di Saragat. Quella che nell'ordinaria amministrazione era la sua debolezza, fu la sua forza nel momento dell'emergenza. Solo un uomo impermeabile alle voci altrui poteva affrontare i comizi e sfidare le piazze del 1947-48, schiumanti di rabbia e di odio contro di lui, il socialfascista, il socialtraditore, il rinnegato. Impassibile sotto quell'uragano, Saragat svolgeva le sue argomentazioni: asciutte, serrate, senza concessioni alla retorica tribunizia. Non si può dire che Saragat si fosse fatto ripagare il grande servigio reso alla democrazia in sostanziose fette di potere. Nei vari Ministeri che occupò, aveva brillato per la sua assenza. Anche come capo del Psdi lasciava alquanto desiderare. Forte del fatto di averlo inventato lui, e di schiacciare con la sua personalità quella di tutti gli altri, se ne curava poco. S'era sempre considerato parecchie spanne al di sopra della ''nomenklatura'', e lo era specie sul piano culturale. L'unica carica che considerava all'altezza della sua altezza, e per la quale veramente si era battuto, era la Presidenza della Repubblica. Al primo tentativo aveva fallito. Al secondo, come sappiamo, riuscì. Purtroppo sappiamo anche in quale modo tortuoso riuscì. Ma le elezioni passano presto, i Presidenti durano sette anni. Saragat sarà un buon Presidente. (p. 267)
*Sappiamo che tra gli intimi di Fanfani era – anche qui purtroppo – [[Giorgio La Pira]], pacifista ecumenico e politico confusionario. Il «santo» siculo-fiorentino era riuscito a raggiungere Hanoi, e vi si era intrattenuto con il ''leader'' nordvietnamita [[Ho Chi Minh|Ho Ci Min]]. Quale che fosse stata la capacità di comprensione tra i due che parlavano linguaggi così diversi – e non soltanto in senso semantico – La Pira ebbe l'impressione che Ho Ci Min fosse disposto a trattare con gli americani rinunciando alla precondizione del ritiro dei loro soldati. Di ciò che La Pira gli aveva scritto – inframmezzandolo con citazioni bibliche e invocazioni alla Madonna – Fanfani inviò un riassunto al Presidente americano [[Lyndon B. Johnson|Johnson]]. Ma La Pira, che fremeva in attesa di reazioni, anticipò ogni eventuale risposta della Casa Bianca lasciando trapelare indiscrezioni sulla sua «missione». Ne risultò un pasticcio, e il fondato sospetto degli Usa e di altri alleati occidentali che l'Italia avesse due politiche estere, quella del Governo (e di Fanfani come ministro) e quella di La Pira (e di Fanfani come Presidente dell'Onu): la seconda favorevole a un negoziato di pace ad ogni costo nel Vietnam e all'ammissione della [[Cina]] nelle Nazioni Unite.
*L'Italia dei due Giovanni fu insieme l'erede – non sempre degna – di [[Alcide De Gasperi|De Gasperi]], e l'incubatrice degli [[anni di piombo|anni di violenza e di piombo]]. Fu l'una e l'altra cosa in maniera stagnante, opaca, confusa e in larga misura inconsapevole. Gli uomini che si avvicendarono sulla scena politica, anche i migliori, ebbero intuizioni di largo respiro, come il passaggio dei socialisti dall'opposizione al Governo, ma non videro né capirono i veri fermenti e le peggiori insidie che covavano nel corpo del Paese. Attento alle grandi o piccole manovre d'anticamera e di corridoio, il Palazzo aveva, o così parve, le finestre chiuse. Quando le aprì, allarmato dal clamore, era già '68. (p. 279)
 
===''L'Italia degli anni di piombo''===