Natalia Ginzburg: differenze tra le versioni

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*[...] la vecchiaia, che è starsene ripiegati in disparte piangendo lo sfacelo del passato. (1963, p. 164)
*Era, il dopoguerra, un tempo in cui tutti pensavano d'essere dei poeti, e tutti pensavano d'essere dei politici; tutti s'immaginavano che si potesse e si dovesse anzi far poesia di tutto, dopo tanti anni in cui era sembrato che il mondo fosse ammutolito e pietrificato e la realtà era stata guardata come di là da un vetro, in una vitrea, cristallina e muta immobilità. Romanzieri e poeti avevano, negli anni del fascismo, digiunato, non essendovi intorno molte parole che fosse consentito usare; e i pochi che ancora avevano usato parole le avevano scelte con ogni cura nel magro patrimonio di briciole che ancora restava. Nel tempo del fascismo, i poeti s'erano trovati ad esprimere solo il mondo arido, chiuso e sibillino dei sogni. Ora c'erano di nuovo molte parole in circolazione, e la realtà di nuovo appariva a portata di mano; perciò quegli antichi digiunatori si diedero a vendemmiarvi con delizia. E la vendemmia fu generale, perché tutti ebbero l'idea di prendervi parte; e si determinò una confusione di linguaggio fra poesia e politica, le quali erano apparse mescolate insieme. Ma poi avvenne che la realtà si rivelò complessa e segreta, indecifrabile e oscura non meno che il mondo dei sogni; e si rivelò ancora situata di là dal vetro, e l'illusione di aver spezzato quel vetro si rivelò effimera. Cosí molti si ritrassero presto sconfortati e scorati; e ripiombarono in un amaro digiuno e in un profondo silenzio. Cosí il dopoguerra fu triste, pieno di sconforto dopo le allegre vendemmie dei primi tempi. Molti si appartarono e si isolarono di nuovo o nel mondo dei loro sogni, o in un lavoro qualsiasi che fruttasse da vivere, un lavoro assunto a caso e in fretta, e che sembrava piccolo e grigio dopo tanto clamore; e comunque tutti scordarono quella breve, illusoria compartecipazione alla vita del prossimo. Certo, per molti anni, nessuno fece piú il proprio mestiere, ma tutti credettero di poterne e doverne fare mille altri insieme; e passò del tempo prima che ciascuno riprendesse sulle sue spalle il proprio mestiere e ne accettasse il peso e la quotidiana fatica, e la quotidiana solitudine, che è l'unico mezzo che noi abbiamo di partecipare alla vita del prossimo, perduto e stretto in una solitudine uguale. (1963, pp. 165-166)
*''Palermino Palermino | Sei più bello di Torino.''<ref>Citato in ''[http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2004/03/14/natalia-il-destino-scritto-in-una-strada.html Natalia il destino scritto in una strada di Palermo]'', ''Repubblica.it'', 14 marzo 2003.</ref>
*[[Cesare Pavese|Pavese]] commetteva errori piú gravi dei nostri. Perché i nostri errori erano generati da impulso, imprudenza, stupidità e candore; e invece gli errori di Pavese nascevano dalla prudenza, dall'astuzia, dal calcolo e dall'intelligenza. Nulla è pericoloso come questa sorta di errori. Possono essere, come lo furono per lui, mortali; perché dalle strade che si sbagliano per astuzia, è difficile ritornare. Gli errori che si commettono per astuzia, ci avviluppano strettamente: l'astuzia mette in noi radici piú ferme che non l'avventatezza o l'imprudenza: come sciogliersi da quei legami cosí tenaci, cosí stretti, cosí profondi? La prudenza, il calcolo, l'astuzia hanno il volto della ragione: il volto, la voce amara della ragione, che argomenta con i suoi argomenti infallibili, ai quali non c'è nulla da rispondere, non c'è che assentire. (1963, pp. 198-199)