Gustaw Herling-Grudziński: differenze tra le versioni

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*Due calci alla porta facevano smettere il chiacchierio, e gruppi di prigionieri guidati dai loro capi spirituali marciavano incolonnati nel corri­doio e si affollavano intorno al secchio della minestra. Ma un giorno un bruno ebreo di Grodno giunse nella cella, e piangen­do amaramente annunciò che Parigi era caduta. Da quell'istante i commenti patriottici a bassa voce e le discussioni politiche sui pagliericci ebbero fine. (cap. I, p. 19)
*"In uno stato normale," disse, "gli uomini sono liberi di esser contenti, abbastanza contenti, o scontenti. In uno stato in cui si suppone che tutti siano contenti, nasce il sospetto che nes­suno lo sia. In ciascuno dei casi, noi formiamo un solido tutto." (cap. I, p. 32)
*In altri paesi e in altre condizioni, in [[prigione|prigioni]] normali, il luogo di questo breve grido di disperazione è tenuto da una vera preghie­ra o dalla sottrazione di un giorno dalla condanna totale, perché è fin troppo comprensibile che un uomo, privato di tutto tranne che della speranza, incominci la sua giornata volgendo i pensieri alla speranza. I prigionieri sovietici sono stati privati perfino del conforto di sperare, perché nessuno di essi può mai sapere con certezza se la sua condanna avrà fine: e può ricordare centinaia di casi in cui le condanne sono state prolungate di altri dieci an­ni con un tratto di penna al Consiglio speciale della Nkvd a Mosca. Solo chi è stato in prigione può intendere tutto il crudele si­gnificato del fatto che, durante l'anno e mezzo che trascorsi nel campo, solo poche volte udii prigionieri contare ad alta voce il numero di anni, mesi, giorni e ore, che restavano ancora delle loro condanne. Questo silenzio si sarebbe detto un tacito accor­do a non tentare la Provvidenza: quanto meno parlavamo delle nostre condanne, quanto meno nutrivamo la speranza di mai riacquistare la libertà, tanto più sembrava probabile che "pro­prio questa volta" ogni cosa sarebbe andata bene. La speranza racchiude il tremendo pericolo della disillusione. Nel nostro si­lenzio, alquanto simile al tabù che proibisce agli uomini di alcune tribù primitive di pronunziare i nomi delle divinità vendicatrici, l'umiltà si univa a una segreta rassegnazione, e al presenti­mento del peggio. Il disinganno era un colpo mortale per un prigioniero privo di questa armatura contro il fato. (cap. III, p. 48)
*Noi stessi avevamo cura di non essere privati di questa modesta illusione di [[libertà]], perché ogni prigioniero sente la necessità di preserva­re qualche vestigio di una volontà propria. Dimenticando che la prima legge della vita del campo è l'autoconservazione fisica, noi consideravamo la nostra libertà di accettare l'illimitato sfruttamento del nostro lavoro quasi frutto di un accordo volontario, come un privilegio prezioso. Era un'eco della frase di Dostoev­skij: "La parola condannato non significa altro che un uomo pri­vato della sua volontà, e nello spender danaro una volontà pro­pria si esplica". Danaro non ne avevamo, ma potevamo mercan­teggiare i resti della nostra energia fisica, ed eravamo così prodi­ghi di essi come gli esuli zaristi dei loro copechi, quando si trat­tava di mantenere la minima apparenza della nostra umanità. (cap. III, p. 59)
*Difendendosi contro un futuro ignoto, lottando nei lacci del pre­sente, si faceva responsabile di quel passato che gli era stato im­posto con la violenza. E forse, pochi attimi prima di [[morte|morire]], ave­va salvato la sua fede nella realtà e nel valore della sua esistenza estinta. (cap. III, 3, p. 72)
*Nella situazione in cui ci trovavamo, parlar loro degli orrori del regime nazista era come dire a tre topi presi in una trappola che il buco più vicino nel pavimento porta a un'altra trappola. (cap. IV, p. 80)
*L'intero sistema del lavoro forzato nella Russia sovietica – in tutti i suoi stadi: interrogatori, udienze, carcere preliminare, e infine il campo – è inteso principalmente non a punire il colpe­vole, ma piuttosto a sfruttarlo economicamente e trasformarlo psicologicamente. La tortura non viene usata negli interrogatori in base a un principio, ma come strumento ausiliario. Lo scopo reale di un'udienza non è di estorcere al prigioniero la firma a un'accusa fittizia, ma la disintegrazione completa della sua per­sonalità individuale. (cap. V, p. 82)
*È doloroso scoprire che l'oggetto dei nostri pensieri e delle no­stre attese è insignificante e volgare quando lo si è infine rag­giunto: è meglio [[desiderio|desiderare]] qualcosa di irraggiungibile che sape­re che si è avverata solo l'ombra dei nostri sogni. (cap. VIII, p. 131)
*Coloro che aspetta­no ancora qualcosa dal futuro possono parlare di speranza; ma come si può infondere speranza in un uomo che è troppo debole anche per troncare le sue sofferenze? Come avrei potuto con­vincere quest'uomo fondamentalmente religioso, che implorava una rapida [[morte]] come la più grande benedizione da Dio, che il maggior privilegio dell'uomo è l'esser padrone della propria volontà anche in schiavitù, e che egli conserva pur sempre il diritto di far la sua ultima scelta tra il vivere e il morire? (cap. X, p. 166)
*Tornai nella baracca e presi le Memorie da una casa di morti dal suo nascondiglio sotto la tra­ve smossa. Mi dispiaceva di dover restituire quel libro, poiché esso mi aveva aperto gli occhi sulla vera realtà del campo, anche se ciò che vedevo ora aveva tutto l'aspetto della morte: ma ero insieme segretamente contento al pensiero che mi liberavo dello strano e distruttivo fascino di quella prosa, così piena di dispera­zione che la vita che raffigura è solamente l'ombra di una inter­minabile agonia di morte quotidiana. (cap. XI, p. 184)
*C'è sempre posto per la speranza quando la vita diventa co­sì completamente disperata che nessuno ha presa su noi; allora apparteniamo a noi stessi... Capisce? Diventiamo padroni asso­luti delle nostre vite... Quando non c'è speranza di salvezza in vista, non la più sottile breccia nelle mura che ci circondano, quando non possiamo levare la mano contro il destino proprio perché è il nostro destino, c'è una sola cosa che ci resta: rivolge­re quella mano contro noi stessi. (p. 184)
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*Al corpo di guardia, in presenza di un ufficiale della terza se­zione, firmammo il testo di un telegramma al professor Kot, l'ambasciatore polacco, che allora esercitava le sue funzioni a Kujbyšev, e poi, ancora scortati da Zyskind, ci muovemmo verso il piccolo ospedale aperto di recente all'altro capo del recinto. Camminavamo appoggiandoci l'uno all'altro, eppure leggeri, co­me se in qualsiasi momento potessimo sollevarci dalla terra. Ca­deva una neve fitta, che ricopriva le baracche fino alle finestre illuminate. Tutto era calmo, vuoto e pace. (cap. XIII, p. 231)
*Dovevo essere un triste spettacolo, accovacciato su una tavola gelata, con la mia camicia svolazzante al vento, guardando fuori alla tempesta di neve che soffiava sulla pianura, con gli oc­chi pieni di lacrime, di dolore, ma anche di orgoglio. (cap. XIII, p. 232)
*Il duro prezzo della pace completa e dell'ozio era la perdita irrevocabile di ogni speranza. Nessuno, pensando alla baracca alla quale, prima o poi, conducevano tutti i sentieri del campo, avrebbe osato confrontare il suo ozio senza scopo con la quiete. di un ospedale. (cap. XIV, p. 234)
*È uno sbaglio credere che solo chi è stato un mendicante possa capire la miseria e la sofferenza dei suoi antichi compagni. Al contrario, niente disgusta di più un uomo, e lo incita alla ribellione, del quadro della sua condizione umana portata al punto estremo di degradazione, apparsogli im­provvisamente davanti agli occhi. (cap. XIV, p. 240)