Rainer Maria Rilke: differenze tra le versioni

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*Oh, ma come si sta bene tra uomini che [[lettura|leggono]]! Perché non sono sempre così? (1988, p. 28)
*Non mi sono ancora abituato affatto a stare in questo mondo, che mi sembra buono. Cosa sarebbe di me in un altro? Resterei tanto volentieri tra i significati che mi sono divenuti cari, e se qualcosa deve mutare, vorrei almeno poter vivere tra i cani, che hanno un mondo parente del nostro e le medesime cose.<br>Ancora per un poco posso scrivere e dire tutto. Ma verrà il giorno in cui la mia mano sarà lontana da me, e quando le ordinerò di scrivere, scriverà parole che non volevo. (1988, p. 39)
*{{NDR|[[Ludwig van Beethoven|Beethoven]]}} La tua musica: avrebbe dovuto avvolgere il mondo; non noi. Ti avrebbero costruito un pianoforte nella Tebaide; e un angelo ti avrebbe condotto dinanzi allo strumento solitario, attraverso le catene di montagne desertiche in cui riposano re ed etere e anacoreti. E si sarebbe di nuovo slanciato in alto, via, timoroso che tu cominciassi. E allora saresti fluito, o Scorrente, non udito da alcuno; per restituire all'universo ciò che solo l'universo sopporta. I beduini sarebbero fuggiti superstiziosi, lontano; ma i mercanti si sarebbero gettati a terra al limitare della tua musica, come se fossi tu la tempesta. Solo qualche leone si sarebbe aggirato intorno a te, la notte, atterrito di sé, minacciato dal suo sangue eccitato.<br>Chi potrà ora sottrarti a orecchie che sono avide? Chi caccerà dalle sale della musica i venali con il loro sterile udito che fornica ma non genera mai? sprizza un seme raggiante, e giocano con esso come puttane, o cade come il seme di Onan fra tutti mentre giacciono nei loro piaceri incompiuti.<br>Ma, o sovrano, se un udito vergineo giacesse con il tuo suono: morirebbe di beatitudine o concepirebbe l'infinito e il suo cervello fecondato dovrebbe scoppiare nel parto sonoro. (1988, pp. 59-60)
*Imparai allora a conoscere la suggestione che può immediatamente derivare da un dato costume. Appena indossato uno di quegli abiti, dovevo confessarmi d'essere in suo potere; quello mi prescriveva movimenti, espressione del viso, persino idee; la mia mano, sulla quale cadevano e ricadevano le trine dei manichini, non era la mia solita mano, si muoveva come un'attrice, direi quasi che si osservava, per quanto esagerato possa sembrare. (1966, p. 72)
*[...] non è proprio ciò che è più nostro quel che conosciamo di meno? A volte rifletto, come è sorto il cielo e la morte; così: abbiamo allontanato da noi ciò che di più prezioso era nostro, poiché prima avevamo ancora tante altre cose da fare e poiché presso di noi, occupati, non era al sicuro. Epoche sono trascorse, e ora ci siamo abituati a ciò che è più piccolo. Non riconosciamo più la nostra proprietà e inorridiamo dinanzi alla sua grandezza immensa. Non può essere così? (1988, p. 133)