Maurizio Abbatino: differenze tra le versioni

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*{{ndr|Su [[Angelo De Angelis]]}} Ero amico di De Angelis, la sua famiglia usciva con la mia, e cercai di rinviare l'esecuzione. Tentai di fargli capire che avevamo notato l'alterazione della cocaina dicendogli che da qualche tempo il Fuentes Cancino non si comportava bene, in modo che la smettesse di appropriarsene. Ero convinto che questo sarebbe bastato per evitare che venisse ucciso, ma Angelo non capì, e la sua eliminazione non poté essere evitata. Era un buon rapinatore. Aveva lavorato con la batteria dell'Alberone insieme a [[Enrico De Pedis|De Pedis]]. Dopo l'arresto di ''Renatino'', la batteria si sciolse e Angelo, che aveva interesse per noi della Magliana, in particolare per me e per [[Edoardo Toscano]], si unì alla nostra attirandosi l'antipatia di quelli del Testaccio. Fu lui a farmi incontrare [[Michele D'Alto]] detto ''Guancialotto''. Mi aiutò a ucciderlo. Era l'estate dell'82, forse luglio, Angelo si fece trovare con D'Alto in un bar del Tufello.[...] Non sospettò neanche per un attimo di essere caduto in trappola. Né poteva immaginare che fossi stato io ad ammazzare il suo amico [[Nicolino Selis]]. Quando arrivammo nel campo, esplosi due colpi contro un albero davanti a me [per testare una pistola, ndr], poi ruotai il braccio verso destra e sparai al petto di D'Alto. Lasciammo lì il corpo e ce ne andammo. Ci hanno messo venticinque anni per processarmi, nonostante avessi confessato.
 
*In carcere stavo andando fuori di testa. Mi dissero di un detenuto che stava male, con i linfonodi ingrossati. Non sapevo di cosa si trattasse ma mi iniettai una siringa del suo sangue.<ref name= "ver">[https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2017/04/23/la-verita-del-freddo-dalla-magliana-fino-a-mafia-sempre19.html La verità del Freddo] </ref> Al Sant'Eugenio pagai cinquanta milioni di lire per avere un vetrino di cellule tumorali e una diagnosi di malato oncologico terminale, e per rendere più credibile la finta malattia accettai di sottopormi a un ciclo di chemioterapia. Era stato Franco a farmeli conoscere [gli Spallone, proprietari della casa di cura Villa Gina, ndr], andavano in giro con una Lancia blindata che poi vendettero a De Pedis. [...] Nell'ultima carcerazione mi rivolsi a loro. Avevo avuto gli arresti domiciliari in una clinica, non a casa, dissi che avrebbero dovuto solo confermare la diagnosi del tumore dell'ospedale. Si intascarono per questo un centinaio di milioni. Rimasi nella loro clinica all'Eur fino all'evasione.<ref> Nessun componente della famiglia Spallone risulterà indagato per aver favorito Abbatino o altri. </ref> A Villa Gina portai avanti per mesi la sceneggiata del malato terminale, paralizzato dalla vita in giù. Mi spostavo su una sedia a rotelle sotto gli occhi dei tre carabinieri che mi piantonavano. I miei rapporti con la banda erano sempre più freddi, sia per l'atteggiamento di Marcellone [ [[Marcello Colafigli|Colafigli]], ndr] sia per il fatto che molti degli associati erano detenuti e con loro non avevo contatti. Solo nell'ultimo periodo, a Villa Gina, riuscii a parlare un paio di volte con [[Claudio Sicilia]], che mi raccontò quello che stava avvenendo all'esterno. [...] La rabbia per i miei compagni che avevo sempre messo al primo posto e che pure dubitavano di me ... Mi immaginavo in una stanza a cinque stelle e con una vestaglia di seta, ma non era così. Già dall'epoca del mio ricovero agli arresti domiciliari presso Villa Gina, avevo constatato il totale raffreddamento dei rapporti con gli altri componenti della banda; raffreddamento che si era tradotto nella cessazione dell'assistenza economica sia a me che alla famiglia subito dopo il nuovo provvedimento di cattura. In conseguenza del fatto che non potevo avere contatti con l'esterno mi trovai completamente isolato dal resto della banda e quindi impossibilitato a spiegare le ragioni per le quali era opportuno che io restassi in clinica sino a che non fosse intervenuto un provvedimento di scarcerazione, chiarendo l'equivoco per il quale sarebbe stata una soluzione opportunistica quella di non evadere. Ovviamente, attesa la gravità dei reati dei quali dovevo rispondere e per i quali mi trovavo detenuto, era impensabile che potessi restare a Roma una volta fuggito. Pertanto non ritenni di riprendere contatti con i componenti della banda che in quel momento si trovavano in libertà, ma preferii farmi aiutare da mio fratello Roberto, il quale avrebbe dovuto, per come fece, trovarsi nei pressi della clinica con un'autovettura. Il personale addetto alla sorveglianza non fu da me corrotto. Mi limitai ad approfittare della loro buona fede, in quanto, convinti che io fossi veramente malato e paralizzato come davo a credere, durante la notte si limitavano a controllare che io fossi a letto e non stazionavano nella stanza. Alle quattro di notte, dopo aver messo nel letto un cestino e un cuscino che dessero l'impressione che qualcuno vi dormisse, scavalcai la finestra della mia camera posta al primo piano, e con un lenzuolo mi calai nel cortile, scavalcai la bassa inferriata di recinzione e con una certa difficoltà, considerato il lungo periodo di degenza, durante il quale ero stato sempre attento a non fare movimenti con le gambe, affinché non venisse scoperta la mia simulazione, raggiunsi l'auto nella quale mi aspettava mio fratello. Voglio aggiungere che della paralisi dei miei arti si erano convinti anche i componenti della banda, i quali anche per questo, ritenendomi ormai finito, avevano smesso di darmi assistenza economica.
 
*{{ndr|Sul perché De Pedis avrebbe dovuto prendere Emanuela Orlandi}} Per i soldi che aveva dato a personaggi del Vaticano. Soldi finiti nelle casse dello [[Istituto per le opere di religione|IOR]] e mai restituiti. E non c'erano solo i miliardi dei Testaccini ma pure i soldi della mafia. L'omicidio di [[Michele Sindona]] e quello di [[Roberto Calvi]] sono legati al sequestro Orlandi. Se non si risolve il primo non si arriverà mai alla verità sul presunto suicidio di Calvi e sulla scomparsa della ragazza. Secondo me non fu un ordine [della mafia, ndr] ma una cosa fatta in accordo. So dei rapporti di ''Renatino'' con monsignor [[Agostino Casaroli|Casaroli]]. Posso confermare i rapporti della banda con il Vaticano. Ma non ho mai conosciuto don Vergari. Può anche aver fatto beneficenza ma sicuramente non era cattolico, Renato era buddhista. I rapporti tra Vaticano e banda della Magliana risalgono a quegli anni lì [almeno al 1976, ndr]. E si devono alle amicizie di [[Franco Giuseppucci|Franco]]. C'era un ragazzo omosessuale, si chiamava Nando. Fu lui a portare Franco da Casaroli. Di Casaroli si sapeva. Giuseppucci lo conosceva. E so che poi questa amicizia fu "ereditata" da ''Renatino''. ''Renato'' l'ha ammazzato [[Marcello Colafigli|Marcello]] ma, se ci fossi stato, lo avrei fatto io. Sapeva tante cose. Così come [[Franco Giuseppucci]] e [[Danilo Abbruciati]]. Sono stati eliminati da chi non voleva (e non vuole ancora) testimoni. Quando ero detenuto a Villa Gina, [[Giorgio Paradisi]], passato coi Testaccini, mi fece sapere che stavano organizzando la mia evasione. Avevano fatto lo stesso giochetto con [[Edoardo Toscano]], che dall'aula bunker mandò fuori [[Vittorio Carnovale]] ... Da quella clinica sono uscito con le mie gambe e con l'aiuto di mio fratello. Forse chi aveva agevolato la morte di Franco, di Danilo e di Renato avrebbe voluto fare la stessa cosa con me. Dopo l'omicidio di ''Renatino'' girò la voce che ero io uno dei killer arrivati in via Pellegrino. Che ero io a guidare la moto. Puntavano a farmi fuori, ovvio. Volevano che i Testaccini mi cercassero.